Cambiare la protezione del lavoro, non la contrattazione

Non c'è nessuna evidenza che i sistemi accentrati producano performances economiche peggiori: di certo, invece, riducono l'iniquità. E' più urgente ridiscutere il modello di tutela, dato che quello utilizzato in Italia appare ormai inadeguato
La proposta di riforma della contrattazione collettiva recentemente suggerita da Pietro Ichino (cfr. "A che cosa serve il sindacato?", Mondadori, 2005), al di là del suo contenuto, ha avuto l'indubbio pregio di gettare un sasso nello stagno della quasi assoluta assenza di dibattito - almeno a livello politico e pubblicistico - sulle importanti conseguenze positive e negative scaturite dall'attuale assetto, che data da più di un decennio, e sulle possibili politiche alternative.

Il pregio è tanto maggiore in quanto meriti e demeriti di una articolazione a livello territoriale e aziendale degli accordi sindacali dovrebbero essere valutati simultaneamente con i profili più generali della politica economica nazionale ed europea, nei suoi aspetti redistributivi e di propulsione dell'attività economica. In definitiva, le modalità della contrattazione salariale costituiscono uno degli assi portanti delle istituzioni economiche di un paese o di una "area" economica. La loro discussione richiede quindi prese di posizione ineludibili nel quadro del più generale orientamento dell'azione pubblica espresso dal nuovo governo. Si tratta allora di approfondire il dibattito su di un argomento che appare trattato in modo largamente approssimativo anche nella pur dettagliata piattaforma elettorale. Questa carenza richiederà nei prossimi mesi scelte non facili, con conseguenze macroeconomiche nel breve e nel lungo periodo, sull'andamento della quota dei salari nel prodotto interno lordo, sui differenziali retributivi - anche nei loro aspetti territoriali - nonché sul modello di democrazia economica.

Considerando gli aspetti di merito, Ichino propone di muovere con decisione verso uno dei due poli estremi rispetto ai quali il nostro sistema di relazioni industriali si presenta come una soluzione di compromesso. Tali poli sono costituiti, il primo, da un sistema di contrattazione fortemente (o completamente) accentrato, quale - in Europa - quello dei paesi nordici e dell'Austria, che fissa (in termini normalmente compressi) i vari differenziali salariali e, il secondo, da un sistema fortemente (del tutto) decentrato, come quello dei paesi anglo-sassoni, nei quali la contrattazione avviene a livello aziendale e talvolta senza la mediazione del sindacato. Ichino propone una decisa sterzata dell'attuale sistema verso la contrattazione aziendale.

Dal punto di vista dei risultati in termini di occupazione e inflazione, sulla base dell'esperienza dei vari paesi che li hanno adottati, i due sistemi non appaiono portare a risultati molto diversi, anche se le analisi di causalità risultano difficili. Indagini recenti, ad esempio, mostrano che al crescere del grado di accentramento della contrattazione salariale l'inflazione inizialmente cresce e poi si riduce. La relazione è peraltro influenzata dal carattere più o meno conservatore della banca centrale e dal grado di apertura internazionale dell'economia.

Va anche detto che, sebbene nei paesi più centralizzati si rilevino tendenzialmente, ma non sempre, maggiori tassi di disoccupazione (comunque, non rispetto a forme intermedie di contrattazione), nei paesi a mercato del lavoro flessibili, ossia quelli che sposano il sistema anglo-americano, sta crescendo la cosiddetta classe dei "working poor" ossia i lavoratori poveri - cosi definiti dal premio Nobel Solow - che negli Stati Uniti  comincia a rappresentare un rilevante problema sociale. Se non sono chiaramente distinguibili i risultati macroeconomici di sistemi accentrati e decentrati di contrattazione, sono quindi abbastanza diverse le implicazioni in materia di equità, essendo questa maggiormente tutelata nei sistemi a contrattazione accentrata. Anche da questo punto di vista, si deve notare, però, che altri fattori concorrono al diverso risultato.

Il sistema di contrattazione vigente in Italia è stato introdotto nel 1992-93 e prevede una contrattazione nazionale, nella quale si fissano le variazioni dei minimi salariali contrattuali alla luce del tasso di inflazione programmata, e una possibile contrattazione aziendale integrativa, con caratteri di profit-sharing.

Sicuramente il sistema in vigore nel nostro paese ha assicurato una bassa dinamica dell'inflazione, specialmente nel periodo nel quale l'Italia sospese il regime di cambi fissi. Dal punto di vista della crescita del reddito, il discorso è più complesso. Si attribuisce spesso la crisi dell'economia italiana ai nodi strutturali maturati da quando, nel 1996, è venuta meno la possibilità di svalutazioni o deprezzamento del cambio. Una simile affermazione trascura di considerare proprio l'effetto bilanciante che nel periodo in esame è scaturito dalla moderazione salariale. In effetti, nell'industria la quota dei profitti sul reddito è rimasta invariata, per effetto dei due contrapposti effetti della moderazione salariale e del limite all'aumento dei prezzi introdotto dall'accentuata concorrenza internazionale in presenza di cambi fissi.

I veri problemi di crescita sono derivati, da un lato, dall'incapacità di introdurre nuove tecnologie ad un ritmo sufficiente nel complesso dell'economia e, dall'altro, dalla crescita di posizioni parassitarie in larga parte del terziario. Verso tali posizioni, piuttosto che verso settori innovativi, si è diretta una parte consistente del capitale italiano. L'impronta deflativa del quadro macroeconomico europeo, infine, certamente non ha facilitato la crescita.

In questo quadro un grande assente è rappresentato dalla politica industriale che non ha saputo né evitare il consolidarsi delle rendite, spesso - al contrario -  favorendolo, né sostenere gli investimenti verso i settori innovativi in cui il nostro paese avrebbe potuto e può ancora sfruttare i vantaggi comparati rispetto almeno ai suoi nuovi competitori rappresentati dai paesi a basso costo del lavoro come da ultimo la Cina.

La proposta di Ichino di revisione del modello di contrattazione è fondata sulla asserita maggiore efficienza di un sistema decentrato in presenza di incertezza e variabilità delle prospettive settoriali in un mondo globalizzato: una rigida preventiva fissazione di differenziali settoriali nonché di obblighi normativi sarebbe in contrasto con le esigenze di adattamento al carattere mutevole dei mercati. Questo non sembra però aver impedito affatto ai paesi scandinavi e all'Austria di ottenere una performance macroeconomica di tutto rispetto, certamente non inferiore a quella dei paesi anglo-sassoni. E invece un tale sistema sembra il più adatto a garantire - eventualmente sulla base di qualche genere di "scambio economico" - la moderazione salariale in paesi maturi nei periodi di elevata crescita. Ove mai, come è auspicabile, si arrivasse in Italia a ripercorrere sentieri di più elevata crescita, la contrattazione accentrata sarebbe lo strumento migliore per assicurarne la sostenibilità nel tempo senza grosse tensioni inflazionistiche destinate prima o poi ad affievolirla. Certamente, si potrebbe pensare che una ripresa dell'accumulazione richieda moderazione salariale, ma - come si è visto - non si può certo negare che questa sia stata ampiamente assicurata sia nel complesso del sistema economico italiano sia nei vari singoli settori.

Il sindacato ha ampiamente fatto la sua parte nel gioco cooperativo auspicato da Ichino. Il contributo che gli era stato chiesto è stato dato, forse anche in misura superiore a quella dovuta. Sono stati gli altri contraenti dell'accordo a venir meno a quelli che restano - e devono restare - loro compiti precipui; (contribuire a) tenere bassi i prezzi, specialmente nella gran parte del terziario, assicurare la riconversione industriale e l'introduzione di innovazione, garantire altre politiche economiche favorevoli allo sviluppo.

Le ragioni di questo unilaterale assolvimento degli obblighi assunti nel 1992-93 sono molteplici e ciò comunque significa che l'attuale sistema di contrattazione va cambiato. Ha ragione Carniti quando sottolinea l'esigenza che ogni accordo contrattuale sia temporaneo, aggiungo, almeno fino a quando tutti i contraenti non abbiano acquisito la reputazione di osservanza necessaria per disporre accordi a tempo indeterminato.
Forse la vera questione da discutere - e che Ichino suggerisce di discutere - non sta tanto nel livello di contrattazione quanto nel modello di protezione del lavoro. Quello tradizionalmente attuato in Italia - e più in generale nei paesi 'mediterranei' - è soprattutto un modello di protezione sul luogo del lavoro e lo strumento principe di esso è il contratto di lavoro a tempo indeterminato. Nell'ultimo decennio la protezione del lavoro offerta attraverso questo strumento si è drasticamente ridotta e anzi sorge sempre più di frequente un problema di debole tutela del lavoratore sul luogo di lavoro e attraverso il contratto di lavoro, con riflessi negativi sull'accumulazione di capitale umano e sulla natura e direzione dell'investimento in capitale fisico. Un sistema meno dicotomico garantirebbe forse una maggiore efficienza ed equità.

Un ulteriore strumento di protezione concerne i sussidi ai lavoratori sospesi dall'attività produttiva, ma ancora formalmente dipendenti di un'azienda. Indubbiamente, favorire questo genere di protezione rispetto ad altre modalità (in particolare ad un sistema di protezione sociale dei disoccupati, ecc.) è discutibile, presentando vantaggi e svantaggi. Va comunque ricordato che la protezione del posto di lavoro risulta tanto più necessaria quanto minori sono le prospettive di lavori alternativi. Queste vanno create dal governo e dalle imprese e non dal sindacato.

La politica del lavoro rischia tanto più di sostituire la politica industriale e altre politiche quanto più queste siano difettose o addirittura assenti. Ancora una volta, solo in un ambiente pienamente cooperativo, nel quale ogni  parte sociale assuma uno specifico ruolo e impegno e osservi scrupolosamente l'impegno stesso, possono maturare le condizioni per una decisa ripresa dell'economia italiana, in un quadro di giustizia sociale.

In ultimo occorre sottolineare che la nostra costruzione sottintende una implicita premessa. Il sindacato, per restare un valido interlocutore sociale, necessita di una politica diversa da quella difensiva degli anni novanta, che ha comunque permesso un brillante rilancio del sindacalismo confederale. Il sindacato deve essere capace di innovare e di portare avanti una strategia inclusiva  in grado di dare rappresentanza ai soggetti finora esclusi da questa. In un mondo post-fordista dove la fabbrica tradizionale scompare e l'economia si evolve verso il settore terziario, il recupero della rappresentatività richiede una flessibilità non del lavoro o della contrattazione, ma dell'organizzazione sindacale, che deve essere capace non solo di tutelare i grandi interessi - in una ottica di rappresentanza generale - ma anche di influenzare le politiche di cittadinanza sociale storicamente rappresentate dai sindacati minoritari.
Mercoledì, 31. Maggio 2006
 

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