Cambiare i mezzi per mantenere i fini

Una riflessione sulle problematiche del congresso Cgil esposte da Riccardo Terzi nel suo articolo su E&L
L'articolo di Riccardo Terzi (vedi qui) ha offerto elementi interessanti di valutazione sui temi e gli obiettivi del Congresso della CGIL. E' un tema che non può restare limitato ai soli aderenti della CGIL, ma che si estende a CISL e UIL, alle forze politiche e persino a persone che, come me, hanno vissuto con passione una  lunga esperienza nella CISL.
Riccardo si preoccupa giustamente e si augura, che l'attenzione al Congresso non si concentri pedantemente sul rapporto sindacato-quadro politico destinato, come sempre, ad annebbiare tutto ciò che è più importante e più vitale per tutti, dell'esperienza sindacale.  Per questo Riccardo ritiene che l'autonomia del sindacato, riguardi i padroni, il confessionalismo religioso, le differenze di razza e le convinzioni politiche dei lavoratori, oltrechè gli "intrecci troppo stretti con le vicende politiche  di sinistra".
 
Per tutti, dunque, vale la nozione che l'autonomia è una virtù che non si acquisisce una volta per tutte. Con CISL e UIL confida nella ripresa di un dialogo da mettere al riparo dalla retorica dei valori, su cui ci si dilunga quando si ha poco da dire sulle strategie e gli obiettivi da conseguire.
 
Riccardo non si nasconde le difficoltà del dialogo soprattutto per il problema "della validazione democratica degli accordi sindacali" attraverso una democrazia sindacale "a partire dalle rappresentanze sindacali nei luoghi di lavoro e… da regole chiare del referendum tra i lavoratori". Perciò rivolge esortazioni alla reciproca comprensione con l'auspicio che un futuro governo sappia scegliere la via della concertazione assecondando "con misure legislative di sostegno gli accordi sindacali".
 
Riccardo ha fornito una onesta rappresentazione delle aspettative del Congresso CGIL senza nascondersi le difficoltà sui differenti orientamenti di CISL e UIL. In definitiva la prospettiva che ha offerto è pienamente corretta se riferita al tempo "statico" nel quale tutti ci troviamo.
 
Tuttavia questa è destinata a variare  se chiamiamo in causa valori ed obiettivi del sindacalismo specie delle origini o le prospettive del sindacalismo che deve realizzare i suoi permanenti obiettivi (migliori salari, migliori condizioni di lavoro, pieno impiego e nuovo Welfare) in condizioni profondamente mutate dai mercati globali.  Il primo punto è decisivo per alcune considerazioni.
 
Al loro sorgere i sindacati hanno chiaramente mirato ad obiettivi pratici, migliorare salari, condizioni di lavoro e stimolare l'avvio di una legislazione sociale. Furono gelosi della loro autonomia contrattuale rifiutando, in questo campo, interferenze della legge e della politica.
 
In Italia l'insidia più grave è venuta dalla lunga mano dello Stato fascista, della sua politica e dei giuristi con essa compiacenti. Inevitabile il ricordo di Alfredo Rocco e della sua legge del 3 aprile 1926, con la struttura dei sindacati disegnata a tavolino con i sindacati fascisti eretti ad organo dello Stato, con l'abolizione di scioperi e serrate, e con il regalo dell'erga-omnes tuttora celebrato come una conquista. Fu la più completa operazione di inclusione e sterilizzazione del sindacato nell'ordinamento giuridico totalitario.
 
Con la sconfitta del fascismo, a partire dall'agosto 1945, la "libera CGIL" fece a meno delle gratificazioni totalitarie. Si sentì sovrana, come la Confindustria, nel fissare accordi sulle commissioni interne  ritenendo che la loro costituzione ed i loro compiti riguardassero prerogative sovrane dei due attori. Essa credeva persino in una autonoma giurisdizione per la regolazione dei conflitti e nell'arbitrato privatistico e volontario. La CGIL unitaria impostò con la Confindustria una straordinaria pianificazione della dinamica retributiva che funzionò dal 1945 al 1954 quando la CISL promosse una ripresa delle prerogative contrattuali a livello di categoria e di azienda.
 
Negli anni dal '45 al '54 la CGIL unitaria e CISL e UIL non fecero giustizia nei differenziali retributivi dovuti al territorio, alle categorie, al sesso, all'età e ai rapporti di apprendistato. Fu l'età d'oro della contrattazione in una condizione politica liberal democratica aperta ad una economia  sociale di mercato.
 
E' qualcosa che merita di essere ricordato oggi. Quali di quelle differenze si sono manifestate importanti e vitali e quali quelle abolite hanno generato guasti nel ritmo di crescita dell'occupazione? E' una domanda che merita qualche attenta risposta.
 
Gli accordi della CGIL unitaria sulla mobilità crearono fino al 1970 uno straordinario processo di crescita nella stabilità che, soprattutto all'estero, fu accreditato come  "miracolo economico italiano". Nei decenni successivi abbiamo fatto di tutto per riaffidarci ad un presunto ruolo salvifico dello Stato. E' un altro quesito interessante alla luce della evoluzione successiva agli anni '70 e fino agli anni '90 per sapere quanto di positivo c'è stato in questo matrimonio tra sostegno dello Stato e accordi sindacali liberamente stipulati.
 
Nasce così una domanda decisiva. Per quale ragione la nozione di sovranità delle parti ha ceduto così vistosamente sia sul problema del ruolo dello Stato, sia nella formazione delle rappresentanze sindacali, sia sul sostegno legislativo alla libera contrattazione collettiva?
 
Mi sembra di poter affermare che non ci troviamo di fronte a spinte interne ed autonome nella CGIL, CISL e UIL. Furono piuttosto i partiti politici ed uno stuolo di giuristi (per lo più lavoristi) spinti da un impulso irrefrenabile a rinchiudere in una "morsa astratta" la natura dei sindacati e la loro attività in un ordinamento giuridico ideale, disancorato da ogni elemento realistico e concreto.
 
Queste le ragioni per le quali tutto il nostro passato in quanto sindacato merita di essere riconsiderato, specie se qualche decennio dell'esperienza successiva agli anni '70 sollecita una riflessione attualizzata se si vuole una ripresa della marcia sindacale verso un futuro tutt'altro che semplice e lineare.
 
Quale l'ingresso nel futuro del sindacato e del Paese nelle sue dimensioni politiche, economiche, sociali e istituzionali? E' possibile solo enucleare alcuni accadimenti già visibili degli effetti prodotti dalla globalizzazione dei mercati.
 
Come è evidente la radice internazionale dei problemi tende a sovrastare, già da tempo, gli equilibri economici, sociali e politici interni alla sovranità degli Stati Nazionali (sovranità ridotta per tutti i Paesi industrializzati e non) costretti a "riadattare" ordinamenti giuridici, ordinamenti contrattuali, strutture di mercati, strutture di fattori produttivi, per riuscire ad inserirsi con il minimo di costi e di frizioni interne, in uno spazio internazionale che a tutti appare decisivo.
 
Tanto per indicare con chiarezza ciò che già è avvenuto, vale la pena di richiamare il fatto che vistosi processi di liberalizzazione, privatizzazione (con tutte le loro vistose contraddizioni) hanno mutato l'insieme della struttura produttiva. Si veda quanto sta accadendo nei processi di de-industrializzazione, terziarizzazione delle nostre economie, con tutto ciò che esse si trascinano dietro.
 
Una quindicina di anni fa Jacques Delors fu facile profeta nel descrivere un avvenire di "sviluppo nella competitività". Non è un caso che nella nostra esperienza sottolineiamo il deficit di competitività mettendolo giustamente in correlazione con il nostro declino. Declino tanto reale che tra gli economisti ci si interroga sul drammatico quesito: declino con speranza o declino senza speranza?
 
La domanda che sorge è la seguente: siamo pronti nei nostri dibattiti sindacali ed intersindacali ad approfondire la natura, reversibile o meno, di queste tendenze e a sapere come farvi fronte? Non mi pare ci sia una gran voglia né nel sindacato, né tra le imprese, né tra i partiti e tanto meno nel governo, di approfondire i termini della situazione.
 
La conseguenza è una. Tutti desiderano trincerarsi nella disperata difesa di ciò che hanno, ritenendo che il mezzo migliore per farlo sia  difendere le norme  a presidio della loro conservazione. Ma, di fatto, accade il contrario: l'acquisito si sfalda sempre più giorno per giorno, ora per ora. In altri termini una linea difensiva di tutti per conservare si traduce nel suo opposto. Il declino continua con la distribuzione delle perdite tra i più deboli, mentre i più forti si attaccano disperatamente alle malferme risorse pubbliche della Finanziaria, per garantirsi una sopravvivenza che appare quanto mai temporanea.
 Se mi è possibile esprimere una personale opinione, conservare gli obiettivi tradizionali del sindacato, (salari, condizioni di lavoro, Welfare) resta un imperativo. Ma è completamente sbagliato pensare di ottenerlo conservando ordinamenti e comportamenti, che, invece,  generano solo declino.
 
Mi sembra emerga una sola necessità: mantenere obiettivi e finalità sociali, rimovendo per quanto necessario tutto ciò che appartiene al passato, le sue norme, le sue regole, i comportamenti che generano. Non farlo mi sembra comporti, nei fatti, una complicità con la prospettiva di un declino inarrestabile. In definitiva cambiare i mezzi, per salvare i fini.
 
Il mio augurio al Congresso della CGIL è che riesca a smuovere le acque in questa coraggiosa direzione, risvegliando quanto di positivo e, ahimè, di sopito c'è  nell'anima dei milioni di lavoratori che tuttora credono nel futuro del sindacato.

        

 
Venerdì, 2. Dicembre 2005
 

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