Call center: elogio degli ispettori del lavoro

I 3.200 lavoratori di Atesia sono stati riconosciuti come dipendenti a tutti gli effetti. Non ne è stata "ordinata l'assunzione", è stata constatata una situazione irregolare. Un segnale di ripristino della legalità dopo anni di violazioni
Dopo lunga ed accurata ispezione, i funzionari della competente direzione provinciale del lavoro hanno accertato il carattere subordinato di tutti i rapporti di lavoro in essere presso il call center Atesia. Apriti cielo! Ne è seguito a tamburo battente un ventaglio di variopinte reazioni: accuse di ideologismo estremista agli ispettori, non solo da parte della stampa più sensibile alle posizioni delle imprese, ma anche da settori della maggioranza che dal peccato di estremismo ideologico sono notoriamente immuni (come i radicali di Capezzone); alti lai per l'insopportabile aumento dei costi che si abbatterebbe sugli operatori del settore; conseguenti minacce di licenziamenti e delocalizzazioni; appelli all'intervento del ministro del Lavoro, i cui orientamenti in materia sarebbero stati smentiti dai suoi stessi ispettori.
 
Certo è che se la guardia di finanza accertasse una situazione di evasione (parziale o totale) delle imposte da parte di un'impresa, e le intimasse il conseguente pagamento del dovuto, reazioni del genere apparirebbero del tutto improponibili. Si vuol forse sostenere che se un'attività di impresa non si può fondare sull'evasione fiscale, non c'è nulla da obiettare a che essa si sorregga sull'aggiramento delle regole poste a tutela dei lavoratori? Proviamo a ragionare a mente fredda sulle implicazioni dell'operato degli ispettori del lavoro.

Va detto, innanzi tutto, che gli ispettori non hanno ordinato ad Atesia di assumere 3.200 lavoratori. Hanno accertato, piuttosto, che le prestazioni lavorative utilizzate da Atesia (quelle in corso, come quelle già esaurite) sono tutte di carattere subordinato, invitando l'impresa alla conseguente regolarizzazione: tant'è vero che Atesia dovrebbe rispondere anche per il passato per il mancato versamento della contribuzione connessa allo svolgimento di prestazioni di lavoro dipendente. Non si tratta di una sottile differenza. L'accertamento amministrativo comporta che gli addetti al call center Atesia devono considerarsi già adesso, a tutti gli effetti, lavoratori subordinati.
 
L'eventuale rottura da parte dell'impresa del loro contratto di lavoro, illegittimamente stipulato a progetto, provocherebbe dunque il rischio (si tratterebbe anzi di conseguenza assolutamente certa) di innescare un gigantesco, e costosissimo, contenzioso giudiziario: nell'ambito del quale, previa conferma dell'accertamento della natura subordinata del loro rapporto di lavoro, essi potrebbero invocare ed ottenere la protezione contro il licenziamento offerta dall'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.

La minaccia di delocalizzazione delle attività dei call center non va trascurata, ma neppure sopravvalutata: semmai va assunta come occasione per una riflessione, anche da parte del legislatore, sul fenomeno in questione. Va ricordato che nel settore dei call center da noi operano 250.000 addetti, ai quali ovviamente si richiede, in primo luogo, una perfetta conoscenza della lingua italiana: lingua piuttosto difficile da apprendere e comunque, di fatto, non molto diffusa nel resto del mondo.
 
Quand'anche quest'ostacolo di natura tecnica risultasse superabile, ve ne sarebbero altri di carattere giuridico, che renderebbero in questo caso la delocalizzazione un po' meno agevole di quelle praticate nel settore manifatturiero. Qui non si sta discutendo della produzione a basso costo di merci (ad esempio di pantaloni e magliette), ma della fornitura di servizi, che dovrebbero essere delocalizzati, stando a quel che viene ventilato, in paesi tutti al di fuori dell'Unione europea. La circostanza è tutt'altro che irrilevante. Il diritto comunitario, infatti, prevede l'applicazione del principio di non discriminazione fra prestatori di servizi, limitandone peraltro il raggio di operatività agli operatori economici dei paesi membri dell'Unione. Ciò vuol dire che la pubblica amministrazione italiana, dalla quale dipende buona parte delle commesse delle imprese del settore (anche di Atesia), potrebbe del tutto legittimamente discriminare, evitando di continuare a rivolgersi ad imprese i cui servizi vengano erogati da siti produttivi ubicati al di fuori dei confini dell'Unione.
 
Limiti in proposito, d'altra parte, potrebbero essere imposti dal legislatore anche alle imprese del settore privato che si avvalgono di servizi di call center in appalto. Non si dimentichi che la giurisprudenza della Corte di giustizia ammette la legittimità di restrizioni alla prestazione di servizi persino fra operatori economici dei diversi paesi dell'Unione, quando esse siano giustificate da ragioni imperative d'interesse generale: come ben potrebbe essere considerata l'esigenza di preservare il mercato del lavoro da artificiose turbative.
 
Alle vestali della libera concorrenza, che certamente si straccerebbero le vesti di fronte all'eventualità che il legislatore possa intervenire in materia di delocalizzazioni, si potrebbe replicare che il mercato non è un'entità metafisica, reperibile in natura allo stato puro, ma un'istituzione sociale fondata su un'intelaiatura di regole di diritto. Del resto, per poter invocare fondatamente nel caso in questione le regole della libera concorrenza, si dovrebbe previamente dimostrare che negli altri paesi dell'Unione europea gli addetti ai call center non sono considerati lavoratori subordinati e vengono impiegati, come da noi (in Atesia e in tanti altri, fortunatamente non in tutti i call center), come lavoratori autonomi "a progetto". Se questa dimostrazione non si può dare, se dovesse risultare che co.co.co. e co.co.pro. sono espressioni persino intraducibili nel lessico giuridico conosciuto al di fuori dei nostri confini, l'appello alla libera concorrenza violata si sgonfierebbe come un palloncino bucato: si dovrebbe anzi concludere che sono certi call center di casa nostra (Atesia in primis) a violare le regole della concorrenza e del mercato rispetto agli operatori di altri paesi, ma anche a quei call center italiani che non pretendono di far indossare ai propri addetti la casacca del lavoro autonomo.

Resta da prendere in considerazione il dubbio, da più parti anzi dato come una certezza acquisita, che l'esito dell'accertamento degli ispettori del lavoro si ponga in contrasto con le indicazioni contenute nella ben nota circolare ministeriale del giugno scorso. A questo proposito va preliminarmente osservato che, rispetto ad altri settori dell'ordinamento, il diritto del lavoro è sicuramente una materia più ricca di "fonti": gli operatori giuridici del settore sono abituati a costruire i propri ragionamenti non soltanto su leggi e sentenze, ma anche, in misura rilevantissima, sui risultati della contrattazione collettiva. Questa ricchezza di fonti non si spinge però sino al punto di includere nel novero delle stesse le circolari del ministro del lavoro. Qualsiasi giudice può tranquillamente prescinderne e gli stessi ispettori che, in quanto funzionari del ministero, non possono non tenerne conto nello svolgimento dei propri compiti istituzionali, restano in ogni caso primariamente, ed ovviamente, soggetti alla legge.
 
La circolare in questione, del resto, pur essendo impostata su criteri discutibilissimi di distinzione fra lavoro autonomo e subordinato (si vedano al riguardo le osservazioni di chi scrive su l'Unità del 23 giugno scorso) appare ispirata dalla volontà, più volte ribadita dall'attuale ministro del Lavoro, di contrastare la precarietà del lavoro (di cui il falso lavoro autonomo costituisce, come tutti sanno, uno degli aspetti più rilevanti): le condizioni alle quali la circolare ipotizza (seppure infondatamente) che possa svolgersi lavoro a progetto nei call center, peraltro, sono elencate in maniera così minuziosa e irrealistica da lasciar pensare che ciò che si ammette in astratto venga di fatto negato nella sua traduzione pratica.

Non è ragionevole, dunque, supporre che gli ispettori, che hanno reso note le conclusioni della propria attività accertativa ben due mesi dopo l'emanazione della circolare, non fossero a conoscenza dei contenuti della stessa, né che abbiano voluto deliberatamente disattenderla. Si può supporre, piuttosto, che essi abbiano inteso rispettarla nello spirito, se non nella lettera, trovando ragioni di incoraggiamento in essa e ancor più in quel clima di ripristino della legalità che si respira nel paese, non solo nel campo del diritto del lavoro, con il governo dell'Unione.

Proprio per questo è inimmaginabile che il ministro del Lavoro voglia smentire l'operato dei suoi funzionari: sarebbe come se Visco, dopo aver incitato gli ispettori della tributaria a scovare l'evasione fiscale, si affrettasse a delegittimare quelli che, prendendolo sul serio, agiscono di conseguenza. Esaurita la spinta propulsiva della circolare, d'altra parte, il ministro avrebbe la possibilità di svolgere nel prosieguo della vicenda un ruolo molto importante: facendosi promotore di un tavolo di negoziazione fra imprese e sindacati per una ridefinizione della disciplina del settore.

Va da sé che, dopo almeno un decennio di consapevole elusione delle regole del lavoro, la gradualità nell'aggiustamento, che viene da più parti evocata, non dovrebbe ovviamente mettere in questione il carattere subordinato del rapporto di lavoro degli addetti ai call center, da assumere anzi come presupposto della discussione. Fermo restando l'insieme dei diritti propri del lavoro subordinato (ferie, malattia, maternità e quant'altro), alle parti sociali andrebbe lasciato il compito di definire consensualmente un contratto collettivo nazionale di lavoro, applicabile a tutti i call center (è ovvio infatti che il problema del ritorno alla legalità non può riguardare soltanto Atesia, se non si vogliono introdurre altre distorsioni nel mercato): un contratto collettivo, nuovo e specifico per il settore, attraverso il quale stabilire, in particolare, criteri di organizzazione degli orari, inquadramento professionale e minimi retributivi.

Quanto agli ispettori del lavoro, essi meritano di essere elogiati per avere ricordato a tutti che se, in un'economia di mercato come la nostra, l'iniziativa economica privata è libera, tuttavia non è incondizionata: non può svolgersi in particolare, come vuole l'articolo 41 della costituzione vigente, in contrasto con l'utilità sociale, né prescindendo da un adeguato bilanciamento con i valori di cui è portatore il lavoro.

La ridefinizione delle regole del settore dovrà essere fatta seguendo questa ispirazione, che certamente non manca al governo dell'Unione e al suo ministro del lavoro: con la consapevolezza, per dirla con Paolo Leon, che dalla qualità delle norme in settori particolarmente delicati dell'ordinamento (il lavoro non meno del fisco) dipende non solo l'equità sociale del sistema, ma soprattutto il suo tasso di democrazia.

 
Venerdì, 15. Settembre 2006
 

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