"Buona scuola", la cultura è quella che fa mangiare

Uno dei decreti attuativi si propone la "promozione della cultura umanistica", ma, a parte la vaghezza e la sciatteria del testo, di letteratura o filosofia o lingue classiche non si parla mai. Si parla invece di arti, patrimonio culturale, "Made in Italy": insomma, studiate quel che fa guadagnare. Dulcis in fundo: esclusi nuovo personale o finanziamenti

A completamento della legge 107/15, detta della “Buona Scuola” e che tanto buona non si sta rivelando, sono stati elaborati diversi schemi di decreto che, in questi giorni, sono sottoposti al vaglio del Parlamento.

Questi decreti hanno lo scopo di rendere perfettamente operativa la legge sopra citata che, come si sa, ha assunto una forma giuridicamente assai bizzarra: essa ha infatti un solo articolo e centinaia di commi, nonché una quantità rilevante di norme delegate.

Qui vorrei commentare lo schema di decreto che così si intitola: “Norme sulla promozione della cultura umanistica, sulla valorizzazione del patrimonio e delle produzioni culturali e sul sostegno della creatività a norma dell’articolo 1, commi 180 e 181, lettera g) della legge 13 luglio 2015, n. 107.”

 E’ evidente fin dall'inizio la mancanza di un orizzonte culturale di riferimento, che si risolve in una mera elencazione di obiettivi disomogenei tra loro ed essi stessi mal definiti. Per promuovere qualcosa bisogna sapere di cosa si tratta. Tuttavia si cercherebbe invano, in tutto l’articolato, cosa si intenda per “cultura umanistica”. Il suo immediato accostamento alla “valorizzazione del patrimonio e delle produzioni culturali” potrebbe darci delle indicazioni in questo senso, ma, se così è, il significato di cultura umanistica si vedrebbe ristretto ai cosiddetti “beni culturali” e più in generale alle arti. Mi pare un po' poco.

Quanto poi al “sostegno alla creatività”, siamo nelle nebbie del luogo comune e degli slogan.

Tale impressione di estremo genericismo viene rafforzata dalla lettura dell’art. 1 (principi e finalità):

1.Il sapere artistico è garantito agli alunni e agli studenti come espressione della cultura umanistica, finalizzata a riconoscere la centralità dell'uomo, affermandone la dignità, le esigenze, i diritti e i valori.

2.È compito del sistema nazionale d’istruzione e formazione promuovere lo studio, la conoscenza e la pratica delle arti, quale requisito fondamentale del curricolo, con particolare riferimento alla tutela e alla valorizzazione del patrimonio culturale.

Cosa sia il “sapere artistico”, espressione quantomai oscura, non è detto; esso però deve essere addirittura “garantito” e per di più come “espressione della cultura umanistica, finalizzata a riconoscere la centralità dell’uomo”. A parte il fatto che la centralità dell’uomo è obiettivo della cultura tout court, anche di quella cosiddetta scientifica e tecnologica, sembrerebbe trattarsi qui di un mero umanesimo delle arti, in cui è totalmente assente l’aspetto letterario  e filosofico: in tutto il decreto non c’è infatti traccia della nostra tradizione scolastica classica, né si spende una parola sulle lingue antiche, il greco e il latino, che ci caratterizzano così profondamente e che, della nostra cultura umanistica, sono pilastri.

Del resto, anche le arti, che qui sono intese solo nella loro espressione figurativa e rappresentativa e alle quali forse sarebbe stato opportuno intitolare più semplicemente il decreto (“norme sulla promozione dell’insegnamento delle arti e della musica nella scuola”), vengono anch'esse delimitate in senso economicistico, facendone in buona sostanza uno strumento per la tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale.

Dunque non lo studio e la pratica delle arti per l’acquisizione di una più ampia e completa formazione individuale, ma per mettere a profitto (valorizzazione) dei beni, quelli che, con espressione corriva, vengono definiti “il nostro petrolio”.

Questo orientamento produttivistico trova puntuali conferme nella citazione, ripetuta e affatto fuori luogo in un testo che dovrebbe parlare di cultura umanistica, di una locuzione tipica e ormai ossificata del linguaggio giornalistico e della politica: il Made in Italy.

1.Al c. 3 dell’art.1 si parla del “valore del Made in Italy”, senza peraltro dire in cosa consisterebbe;

2.Al c. 1, l. c. dell’art. 3, in cui si trattano i “temi della creatività” c’è addirittura un’area, definita peraltro al maschile “artistico-visivo”, dove si realizzano gli scopi in premessa “tramite la conoscenza della storia dell’arte e la pratica della pittura, della scultura, della grafica, delle arti decorative, del design o di altre forme artistiche, anche connesse con l’artigianato artistico e con le produzioni di qualità del ‘Made in Italy’.” Non c’è chi non veda, anche qui, l’eterogeneità delle definizioni e degli ambiti e, soprattutto, l’equivoca e impropria collocazione di un processo produttivo particolare e di non ben identificata natura (il Made in Italy) solo in un contesto “artistico-visivo”. Cosa si ha in mente, la moda, che, peraltro è quasi tutta in mani francesi? Oppure cos'altro?

3.Il Made in Italy compare anche all'art. 5, c. 1, l. e, “Il piano delle arti” in una “misura” così definita: “promozione della partecipazione studentesca a percorsi di conoscenza del patrimonio culturale e ambientale dell’Italia e delle opere di ingegno del ‘Made in Italy’, materiale ed immateriale.” A parte la trascuratezza grammaticale (non si aggiunge la “d” alla “e” se la vocale seguente è diversa), a me pare un capolavoro di “nihil dicere per verba” quel “materiale e immateriale” aggiunto alle opere d’ingegno del Made in Italy. Chissà cosa intendeva dire il frettoloso estensore.

4.All’art. 7 (“reti di scuole”), c. 1, l. f, “promozione di iniziative mirate a valorizzare le radici culturali del proprio territorio, con particolare riguardo al patrimonio culturale e ai luoghi delle produzioni artistiche ed artigianali e del Made in Italy;” si fa più esplicita la connessione tra scuola e sistema produttivo, lasciando tuttavia del tutto nel vago modi e strumenti di tale connessione.

La sensazione che il testo sia una sorta di centone di luoghi comuni e di spezzoni di cultura poco meditata, emerge altresì dall'uso di talune espressioni presenti nel testo:

1.La fluviale elencazione all'art. 2, in cui si parla di un ambito progettuale “artistico, musicale, teatrale, cinematografico, coreutico, architettonico, paesaggistico, linguistico, storico, storico-artistico, demoetno-antropologico, artigianale, a livello nazionale e internazionale.” Nulla sfugge al legislatore, che, pur di non mancare l’obiettivo, sparacchia termini di non ben precisata natura, quali “artistico”, usato in senso assoluto, e poi “storico-artistico” e “artigianale”.

2.All'art. 5, c. 1, l. c: cosa significa “valorizzando i talenti attraverso una didattica orientativa”? Perché scrivere “a orecchio”? Ogni buona didattica non può che essere una didattica orientativa, che si tratti di “valorizzare talenti” o meno.

3.“Produzioni artistiche e artigianali” (artt. 2 c.1 e 7 c.1): perché non esplicitare la relazione tra i due termini e, soprattutto, il suo collegamento con la didattica che, se non sbaglio, è riferita a tutti gli ordini e gradi di scuola?

A cornice poi di tutto questo c’è il solito refrain: l’attuazione del decreto non deve comportare l’investimento di risorse aggiuntive, né provocare alterazioni della pianta organica. Per dirla in poche parole, se volete fare, fate, ma non modificate il sistema e non chiedete ulteriori investimenti.

Come era ahinoi prevedibile, la montagna ha partorito un topolino piccolo piccolo e per giunta neppure tanto in salute.

Much Ado About Nothing, verrebbe da dire.

E’ in casi come questi che si misura il declino culturale di una classe politica. Ne volete una prova ulteriore? Basta rileggere la prosa degli altri decreti delegati, quelli che nel 1974 modificarono seriamente, che li si condividesse o no, la scuola italiana. Il confronto è davvero impietoso e sconfortante.

Domenica, 5. Febbraio 2017
 

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