Brigatisti e strumentalizzazioni

Ha poco senso chiedere al sindacato di controllare i propri iscritti: deve piuttosto continuare a impegnarsi nella lotta contro la cultura della violenza. Ma sono da respingere le manovre di chi tenta di usare il pericolo terrorista per indebolire il ruolo dei confederali
La ricomparsa in Italia di alcuni tardi epigoni delle Brigate Rosse ha lasciato stupefatti. Anche per  la sua assoluta inattualità. In effetti, tra le tante forme di antagonismo che si manifestano in tutte le società avanzate, solo in Italia  è rispuntata quella dei "comunisti combattenti". Degli eversori che, chiamati a rispondere agli organi inquirenti dello Stato, si dichiarano "prigionieri politici". E' dunque possibile che da noi si stia manifestando una nuova fase di terrorismo "politico" che, come un quarto di secolo fa, torni ad assumere la fabbrica ed il sindacato come suo obiettivo principale? Leggendo le cronache di questi giorni si è indotti a pensare di sì. In sostanza, si è spinti a pensare che tra le Brigate Rosse, tra il terrorismo degli anni '70 ed '80 del secolo scorso ed i seguaci (o imitatori) di oggi non ci sia alcuna soluzione di continuità. Le cose però non stanno esattamente in questi termini. Naturalmente nulla può fare escludere che tra alcuni "irriducibili" del passato ed i brigatisti di oggi possa essersi stabilito un rapporto di "successione". E che persino qualche arma (come fanno capire gli inquirenti) possa essere stata "tramandata". Queste connessioni, vere o presunte che siano, non ripropongono però lo stesso fenomeno.

Rispetto al passato c'è infatti una differenza sostanziale. Allora il tentativo di infiltrazione, di secernere e reclutare possibili militanti, riguardava l'esteso ambito delle lotte sociali e contrattuali. Lotte che coinvolgevano e mobilitavano milioni di persone. Oggi la potenziale area di reclutamento si restringe invece ai margini di alcuni "centri sociali". Dove amano radunarsi vecchi rivoltosi, "old boys" della rivoluzione che, nello spirito dei tempi, alla clandestinità del passato, oggi non disdegnano invece l'apparizione mediatica. Insomma, anche se alcuni arrestati continuano a definisrsi "brigatisti", o "comunisti combattenti", con le loro paranoie e le loro mitomanie, alcuni di questi sopravvissuti sembrano piuttosto incarnare perfettamente il prototipo del "perdente radicale" (secondo la definizione di Hans Magnus Enzensberger).
 
Il problema naturalmente sorge e si acuisce  ogniqualvolta il "perdente radicale" riesce a superare il suo isolamento. Quando cioè riesce a socializzare. Quando si ritrova in una patria di perdenti dalla quale si ripromette di ottenere non solo comprensione, ma riconoscimento. Quando in definitiva si ritrova un gruppo, non importa se piccolo o grande, di suoi simili che lo accoglie. Che fa conto su di lui. Ebbene, quando tutto  questo si verifica l'energia distruttiva si potenzia e la mancanza di scrupoli diventa estrema. Fino a creare un amalgama di megalomania e desiderio di morte. Di impotenza e catastrofico delirio di onnipotenza.

Insomma, anche se il contesto e la stessa dimensione quantitativa sono del tutto diversi rispetto alla prevalente interpretazione dei media, non stupisce che il riaffacciarsi dello spettro del terrorismo politico susciti profonda inquietudine ed allarme nell'opinione pubblica. Del resto la preoccupante ricomparsa di armi da guerra, come il fucile mitragliatore Kalasnikov, o la mitraglietta Skorpion, non sono fatti per tranquillizzare. Diceva Anton Cechov: "Se nel primo atto c'è un fucile appeso al muro, si può stare certi che nell'ultimo si sparerà". Non manca quindi un motivo di seria apprensione.
 
Per altri una ulteriore ragione di preoccupazione è che alcuni degli arrestati risultino iscritti al sindacato. Questo aspetto ha alimentato una strumentale e futile discussione sulla presunta permeabilità delle organizzazioni sindacali alle infiltrazioni terroristiche. Futile e strumentale perché, considerato che persino i compagni di lavoro degli arrestati, o indagati, hanno manifestato la loro totale sorpresa di fronte agli addebiti mossi agli inquisiti, se ne deve dedurre che la loro presunta partecipazione a "banda armata" non doveva risultare in modo così inequivocabile e solare. Difficile quindi capire quale azione di "vigilanza" preventiva avrebbe mai potuto mettere in campo una organizzazione con milioni di iscritti per riuscire a prevenire l'adesione di persone con ben celati propositi eversivi.

Questa banale considerazione non ha tuttavia impedito che le notizie sulla presenza di possibili terroristi tra gli iscritti al sindacato rinfocolassero vecchi discorsi e vecchie polemiche senza molto fondamento, ma in compenso utilizzate come un pretesto per strumentali denunce. Le denunce ad effetto sono quasi sempre fuorvianti. Tanto più nel caso specifico. Perché, con una singolare trasposizione, tendono a trasformare il sindacato da nemico irriducibile del terrorismo ad una sua possibile fonte culturale e politica. L'evidente strumentalità non deve tuttavia portare ad oscurare un potenziale problema. E' infatti del tutto chiaro che se il terrorismo riuscisse a scendere sul terreno proprio del sindacato tutta l'azione di quest'ultimo potrebbe venirne inquinata. I ricatti, le strumentalizzazioni, i sospetti, o anche soltanto i dubbi potrebbero dilagare, finendo per indebolire e corrompere tutta la sua azione. E' quindi indispensabile alzare le difese. Che se non sono i grado di impedire possibili  infiltrazioni tra i propri iscritti, consolidino ed accrescano la natura di baluardo della democrazia propria del sindacato.

Questa azione presuppone una costante, reiterata, condanna della violenza. In tutte le sue forme. L'opposizione del sindacato alla violenza non può infatti che essere ferma ed assoluta. Non solo perché la violenza è sempre "politicamente sbagliata". Ma per la ragione assai più importante che essa è la negazione di ogni dignità umana. E' la negazione del valore della vita. In effetti, la degradazione che la violenza esprime è il frutto di una duplice superstizione. La superstizione della storia e quella della politica. Il credere cioè, da un lato, che l'uomo si consuma tutto senza residui nella storia. E, dall'altro, che la politica è l'unico mezzo di realizzazione della sua natura morale. Nasce da qui, da questa combinazione, la falsa religione del nostro tempo. La quale consiste, anziché in un sistema ordinato di principi, in una fede fanatica intorno alla virtualità redentrici di azioni esemplari; immediate; risolutive. E' chiaro che quando tutto si riduce ad un problema di violenza efficace, non solo il confronto politico, ma persino la stessa convivenza civile rischiano di essere messi in discussione. Ed è appunto quanto è necessario scongiurare.

Con la violenza dunque i conti sono aperti. E non c'è molto da illudersi sulla durata di questo passaggio. Il seme è diffuso e la sua natura è maligna. Non solo sul piano interno, ma soprattutto  internazionale. Certo possiamo presumere che alla fine non sarà vittorioso. Perché la ferocia non ha mai verità. Perché non vi è più misura per nulla, quando la vita umana non è più la misura.

Resta in ogni caso il dato di fatto che il sindacato, che è stato ed è uno dei principali baluardi della democrazia, non può limitarsi ad aspettare passivamente che la peste della violenza (non solo politica) scompaia così come è comparsa. Contro la violenza è sempre infatti necessaria una costante opera di riflessione; di mobilitazione delle coscienze; di presa di distanza; di isolamento nei confronti di quei gruppi, di quei centri di aggregazione, che anche quando la violenza non la praticano direttamente, tendono comunque a giustificarla. Oltre tutto, in Italia il sindacato è l'unica grande organizzazione democratica di massa che può assumersi questo compito politico e culturale.

Quindi, la vera sfida - alla quale il sindacalismo confederale non si è mai sottratto - non è tanto quella, assolutamente velleitaria, di riuscire a dispiegare una vigilanza occhiuta capace di precludere a qualche "devoto della violenza", con capacità di mimetizzazione, di riuscire ad iscriversi, quanto piuttosto quella di riuscire a dispiegare nella lotta alla violenza (in tutte le sue molteplici forme) il meglio dei suoi valori, della sua coscienza, della sua tradizione. Ed è il modo di respingere le strumentalizzazioni di quanti in questi giorni hanno cercato di profittare della circostanza per  mettere in discussione e indebolire il ruolo di rappresentanza e di baluardo della democrazia del sindacalismo confederale italiano.
Lunedì, 19. Febbraio 2007
 

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