Avvicinare le due sinistre

Non fermare la discussione agli stati maggiori. Gli antiriformisti che però operano nelle organizzazioni e nelle istituzioni alla maniera riformista. Spesso la ricerca di un surrogato d’identità si svolge solo nel presidio delle proprie aziendine politiche…

Finalmente sta maturando la persuasione che per battere Berlusconi è necessario un avvicinamento politico-programmatico tra le due sinistre. Ma il fatto nuovo è la proposta di superare con un atto di generosità e di coraggio la frammentazione che indebolisce gli avversari del centrodestra, dando vita ad un partito capace di realizzare l’incontro tra il riformismo socialista e quello cattolico. Sappiamo tutti che ogni nuova costruzione politica ha bisogno di lotte sociali, di movimenti, di fermenti innovativi, di progetti coerenti, di tensione partecipativa e di lotte politiche. Se la discussione si fermasse agli stati maggiori non porterebbe da nessuna parte.

Mi stupiscono, però, le argomentazioni usate per respingere la proposta. Oliviero Diliberto fa gli auguri e contrappone riformismo a comunismo. Con la scomparsa di ogni riferimento al socialismo, Cesare Salvi teme una deriva sudamericana. E che c’è di male? L’Ulivo è infestato da cinque o sei leader. Boselli, Diliberto, Fassino, Pecoraro Scanio, Rutelli, con il contorno, a destra di Mastella e Di Pietro. In Piemonte l’Ulivo è insaziabile, e vi trova posto pure Alessandro Di Benedetto, per gli amici Ale. Litigano molto, mentre sono d’accordo sull’essenziale. Tutti sono mediocremente schierati a presidio delle proprie aziendine politiche, altrimenti dette identità. E che dire di due partiti similcomunisti, la cui vita democratica sembra fatta apposta per incoraggiare le gambe a guadagnare subito la porta d’uscita? Salvi ha ragione. Qui non siamo in SudAmerica. Qui siamo in Italia. Ma per favore, non teniamocela così. Fausto Bertinotti ripete che “non c’è spazio per il riformismo nella globalizzazione capitalistica”. Ma mentre cercano quella che Alessandro Curzi chiama “alternativa radicale” (come mai rinuncia al termine “rivoluzione”?), che cosa fanno socialisti, comunisti (neo, ex o post) se si trovano in un sindacato, in un ente locale o in un’associazione del volontariato? Esattamente come i popolari, essi operano quotidianamente per ridurre la precarietà con il conflitto, l’accordo o la legge, per evitare che gli inceneritori diventino inevitabili, grazie ad una progettazione diffusa della raccolta differenziata dei rifiuti, per liberarsi dalla necessità dell’auto individuale con una nuova urbanistica, con la politica industriale e con diversi comportamenti collettivi, per cooperare con i popoli oppressi, per accogliere i migranti nonostante il razzismo che serpeggia o dilaga. Essi preparano concretamente un altro mondo possibile, sul terreno della sperimentazione riformista, perché non sanno definire – o neppure vogliono, come nel mio caso – la rivoluzione conosciuta nei testi dei padri fondatori e che ha ispirato indifendibili regimi tipo Urss, Cina o Cuba. In sostanza, sappiamo chi è costui, ma non osiamo chiamarlo Carneade. Non è un po’ ipocrita? Quelli che il riformismo manco a parlarne, reperiscono un surrogato di identità nella lotta per l’egemonia. Ovvero, contano i voti, gli iscritti, gli assessori, il numero degli interventi alle assemblee, il numero dei partecipanti e delle bandiere ai cortei. Controllano i simboli sui manifesti e sui volantini. Lottano per non farsi sottrarre spazi di visibilità dalla concorrenza, quella interna compresa. Una sciagurata dilapidazione di risorse umane e materiali. Secondo me è venuto il momento di interrogarsi sull’efficacia di quella che tanti documenti congressuali hanno chiamato “piena autonomia politica ed organizzativa dei comunisti”. La radicalità dei contenuti su cui si è fatto perno per contrastare i vuoti del riformismo (o il deprecato liberismo temperato del centrosinistra) e la cui mancanza è stata posta alla base degli autogol della sinistra, ha prodotto il troppo sbrigativamente archiviato fallimento del referendum sull’art.18. Esso non ha ampliato l’arco delle alleanze sociali e politiche. Non ha acquisito alcuna nuova tutela per i lavoratori. Non ha scaldato il cuore dei tanti scontenti. Ma se Rifondazione si accontenta di amministrare la rappresentanza degli scontenti, riduce la sua impresa politica ad un’azienda di cui tutelare la melanconica sopravvivenza identitaria: un partito di cui si rivendica la diversità, come se la differenza fra noi e gli altri fosse un fatto genetico e non più semplicemente programmatico. Un partito che si esilia, così, in una malinconica e solitaria navigazione senza bussola”. In proposito, condivido il giudizio sull’ultima fase del Pci che Piero Fassino dà nel suo libro. Temo che quel giudizio possa essere esteso alla fase attuale Rifondazione.

Lunedì, 17. Novembre 2003
 

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