Autonomia sì. Ma stando a sinistra

Il documento della Cgil a Prodi sul programma ha scatenato molte critiche. Anche se non tutti i contenuti sono condivisibili, alcune obiezioni sono, più che ingiustificate, sbagliate

I segretari confederali della Cgil hanno recapitato a Romano Prodi, leader designato della Grande Alleanza Democratica, un loro contributo alla definizione del programma di governo  del centrosinistra. Il lungo documento non ha suscitato particolari reazioni negli ambienti della politica, se si escludono le dichiarazioni estemporanee del sottosegretario al Welfare. Peraltro formulate con il solo ed evidente intento di mettere un po' di zizzania tra le organizzazioni sindacali. Ha prodotto invece la reazione risentita di una parte dei dirigenti della Cisl e della Uil.

Ridotte all'osso, le contestazioni che questi ultimi hanno rivolto ai loro colleghi della Cgil possono essere riassunte in tre punti. Primo, l'iniziativa di indirizzare a Prodi un contributo alla definizione del programma elettorale è giudicata: improvvida, inusuale e per di più unilaterale. Secondo, la richiesta di sopprimere la legge Moratti, la Bossi - Fini, la cosiddetta legge Biagi, la legge sulle pensioni e quella sulla giustizia, non è condivisa. Sia perché esprimerebbe un eccessivo furore iconoclasta, ma soprattutto (aggiungo io) perché sul merito di qualcuna di quelle leggi (in particolare la Biagi), Cgil da una parte e Cisl ed Uil dall'altra, hanno - a suo tempo - imboccato strade diverse, con scambio di reciproche accuse. Terzo ed ultimo, intervenendo direttamente con proprie proposte nel dibattito programmatico del centrosinistra, la Cgil ha, di fatto, compiuto una discutibile una "scelta di campo". Perché pregiudica il rapporto di reciproca autonomia tra sindacato e schieramenti politici. Sia di destra che di sinistra.

Può darsi che le critiche siano soltanto legna da ardere per tenere vivo il fuoco della polemica e delle contrapposizioni. Ma se, come sembra più plausibile, riflettono invece convinzioni più radicate credo sia opportuno discuterne. A questo proposito, dico subito che le prime due obiezioni mi sembrano piuttosto contraddittorie, mentre la terza non mi convince. Ma procediamo con ordine.

Circa il carattere unilaterale dell'iniziativa dei segretari confederali della Cgil mi limito ad osservare che essa esprime un comportamento che può essere considerato deludente ma, purtroppo, non sorprendente. Non sorprendente perché, nei rapporti tra organizzazioni sindacali, la prolungata stagione di "nuvole basse" ha, di fatto, del tutto oscurato l'orizzonte unitario. Del resto, non è un caso che lo stesso ceto sindacale (di tutte le confessioni) non perda occasione per sottolineare  che l'unità non può più essere considerata un tema di attualità. Ed in effetti non è più all'ordine del giorno.


Sembra di intuire per diverse ragioni. La principale è che, tenuto conto delle perduranti diversità di orientamento, essa risulterebbe un obiettivo del tutto irrealistico. Partendo da questa premessa si capisce la decisione di muoversi essenzialmente nell'ambito e nei limiti dell'unità d'azione. Vale a dire caso per caso. Senza cioè vincoli politici, o regole di condotta prestabilite. Può capitare così che l'unità d'azione risulti praticabile nei giorni pari ed impossibile nei giorni dispari. Naturalmente non per un semplice capriccio. Ma appunto perché si deve fare i conti con orientamenti e valutazioni diverse sul modo migliore di affrontare i problemi in discussione. Il che spiega (per alcuni addirittura giustifica) tanto le lotte separate, che gli accordi separati. Approdi che, non per caso,  negli ultimi anni si sono verificati con una certa frequenza.

Intendiamoci bene. L'esistenza di sensibilità e valutazioni diverse e persino contrastanti sulle politiche costituiscono un dato di fatto. Con il quale è sempre indispensabile misurarsi. Ma francamente penso che questa non sia affatto una ragione sufficiente per mettere in causa l'obiettivo dell'unità. Intanto perché le divisioni di merito sulle politiche sindacali sono sempre esistite. Ed è ragionevole pensare che esisteranno sempre. Ma questo dato di fatto non autorizza a concludere che pertanto l'unità è impossibile. Non fosse altro che per la banale considerazione che l'unità sindacale non esige assolutamente una "previa" condivisione delle posizioni da assumere su questa o su quella particolare politica. Se così fosse, non potrebbe esistere un solo sindacato unitario al mondo.


 Del resto, l'unità è tale proprio perché nasce dal confronto e dalla ricerca di convergenza tra posizioni, culture di provenienza e sensibilità diverse. Per certi versi dovrebbe essere considerato un bene che le differenze sul modo più appropriato di affrontare e risolvere i problemi sociali siano sempre esistite e continuino ad esistere. Penso sia un bene perché gli orientamenti diversi, le diverse sensibilità e culture (quando non esprimono una concezione pregiudiziale, chiusa al confronto, ostile, settaria) sono sempre una ricchezza, non un limite. Oltre tutto, le differenze ci sono non solo tra le organizzazioni, ma anche all'interno di ogni organizzazione. E quando non si manifestano è un cattivo segno. Perché significa che si discute troppo poco. Oppure che l'invenzione di un "nemico" esterno viene utilizzata, come il modo più semplice e più a portata di mano, per anestetizzare ed addormentare la discussione interna.

Posso anche sbagliarmi, ma la mia sensazione è che sulla persistente turbolenza che, in questa fase, caratterizza i rapporti tra le organizzazioni sindacali, influiscano i venti delle divergenze di merito sulle scelte da compiere, ma ed ancora di più (magari inconsciamente) ragioni di "politica interna" delle singole organizzazioni. Non credo di dire nulla di sconveniente sottolineando che la dialettica tra organizzazioni si presta, quasi sempre, ad essere un calmante ad effetto immediato per ridimensionare i "turbamenti" interni ad ogni organizzazione. Non è casuale, del resto, che i problemi di "identità" di organizzazione finiscano, quasi sempre, per prevalere, per fare premio, sulla più faticosa ricerca di una sintesi unitaria.

Naturalmente, si può avere una opinione del tutto opposta alla mia. Credo però che si possa almeno convenire su un punto. Quando la prassi di presentarsi al confronto con le controparti (o con il governo) senza piattaforme comuni, o addirittura con piattaforme divise, propedeutiche ad accordi separati, viene considerata "normale", è difficile capire perché non dovrebbe essere considerato altrettanto "normale" che una organizzazione decida di esternare (per proprio conto) anche le sue idee sul mondo, sul lavoro, sulla società italiana. La deplorazione, o addirittura la censura, per la natura unilaterale dell'iniziativa dei segretari confederali della Cgil avrebbe perciò potuto risultare più persuasiva se fosse stata accompagnata almeno dal riconoscimento che essa non costituisce la causa, ma semmai l'effetto della prassi in atto. Voglio dire che quando si considera un fatto usuale che ciascuna organizzazione decida per proprio conto sulle politiche rivendicative, diventa arduo aspettarsi che invece le lettere o i documenti vengano scritti assieme.

Vengo alla seconda obiezione. Nel merito, per contenuti e lunghezza, il contributo dei segretari confederali della Cgil a Prodi ha molte delle caratteristiche dei tradizionali programmi elettorali italiani. Mi riferisco a quei testi prolissi che in passato erano elaborati dai partiti e che, da oltre un decennio, sono diventati invece incombenza dei contrapposti schieramenti. In generale, salvo pochissime e lodevoli eccezioni, si è sempre trattato di elaborati riconducibili alla formula: "non tutto, ma un po' di tutto". Con il risultato che, anche a causa di questa propensione all'enciclopedismo, la loro lettura non è mai risultata agevole. Tant'è che ha sempre interessato solo un ristrettissimo numero di volonterosi. Ed, all'indomani di ogni elezione, sono sempre rapidamente finiti nel "magazzino dell'usato". Senza particolari rimpianti. Per quel che è dato sapere.

Per la sua ispirazione a questi discutibili modelli, è difficile poter condividere in blocco, ma anche respingere in blocco, il contenuto del documento Cgil. In esso si mischiano infatti: un certo numero di valutazioni analitiche e suggerimenti condivisibili; altre indicazioni meno convincenti, che suscitano perciò dubbi e perplessità; infine richieste sconcertanti (o del tutto sbagliate) che non è possibile condividere. Colloco, ad esempio, in quest'ultima fattispecie l'istanza di una legge per regolare la rappresentanza sindacale. Perché, a parte ogni considerazione di principio sul rapporto Società-Stato e sulla democrazia pluralista (su cui dirò qualcosa più avanti), costituisce soltanto la malinconica sanzione dell'incapacità del sindacalismo confederale di darsi regole autonome.

Tuttavia, al di là della formula scelta e dei i suoi limiti di merito, il documento dei segretari confederali della Cgil a Prodi non dovrebbe suscitare particolari patemi. Non siamo infatti di fronte alle "tavole della legge mosaica". Ma, come sottolineano anche i suoi sottoscrittori, ad un semplice "contributo" al dibattito. Osservo, per inciso, che questo scopo almeno nel ceto sindacale sembra conseguito. Del che ci si dovrebbe rallegrare tutti. Perché quando la discussione non riesce a fare proseliti si fanno più consistenti i pericoli di faziosità, di intolleranza, di prevaricazione.

Sulla terza contestazione, che riguarda il punto delicato del rapporto tra sindacato e sistema politico, occorre spendere qualche parola in più. Dalle polemiche (recenti e meno recenti) ho tratto la convinzione che intorno a questo aspetto, nel tempo, si siano sedimentate semplificazioni che distorcono ed ambiguità che servono solo ad alimentare la mischia delle cose che confondono. Sperando che mi riesca, provo perciò a cercare di diradare un po' di nebbia.


A tale scopo, la prima cosa che mi sembra debba essere detta è che la necessaria autonomia sindacale dal sistema politico non può essere scambiata per neutralità, per indifferenza verso le diverse proposte politiche. La ragione è semplice. Tra una concezione politica fondata sull'individualismo e la competizione ed un'altra orientata invece sulla solidarietà e l'eguaglianza, il sindacato non può (se non rinnegando la propria funzione) che collocarsi sul versante della seconda. E' dunque naturale (e tanto più in un sistema bipolare) che il sindacato instauri rapporti di prossimità con lo schieramento politico che la sostiene. Del resto, è esattamente ciò che avviene ed è sempre avvenuto in tutti i paesi democratici. Dove il referente politico del sindacato sono ovviamente le forze politiche che costituisco lo schieramento "pro-labour".


Francamente, non riesco perciò a capire quali possano essere le misteriose motivazioni, secondo le quali l'Italia dovrebbe fare eccezione a questa regola. Tanto più che anche da noi,  per la sua funzione e per ciò che rappresenta della società, il sindacato è giustamente percepito come una "organizzazione progressista". Che vuol dire, tendenzialmente di "sinistra". E, comunque, su posizioni lontane, per obiettivi ed ispirazione etica, dalla concezione politica della destra. La cui ispirazione può essere riassunta la  formula sintetica: "ognuno per sé e Dio per tutti". Cioè esattamente il contrario di ciò che, appunto, anima l'agire sindacale.

Quindi, autonomia non significa equidistanza. Perché se gli si attribuisse questo significato si finirebbe per avallare la tesi stravagante che il sindacato può essere autonomo solo se diventa anche autolesionista. Ragionamento che, anche a occhio nudo, non può che essere giudicato assurdo. Intendiamoci bene. L'autonomia non si realizza semplicemente esprimendo posizioni diverse ed opposte alla destra. Oltre tutto l'autonomia non si conquista mai una volta per tutte. Il suo senso, il suo significato non possono quindi essere semplicemente declinati nella loro apparenza, ma devono, al contrario, essere costantemente indagati e ricostruiti nella loro sostanza.

A questo proposito torna in ballo il problema della regolazione della rappresentanza. Problema che non è riducibile ad una banale questione di scelta tra diverse soluzioni tecnico-giuridiche. Perché si tratta di un nodo cruciale che investe le stesse basi della legittimazione sindacale. Un conto infatti è che il sindacato tragga la propria legittimazione da ciò che esso (su basi volontarie, quindi come organizzazione privato-collettiva) rappresenta nella società. Altro è invece che la sua legittimazione derivi da decisioni "eteronome". Cioè dalla legge e quindi dello Stato. Non è una differenza estetica, ma un fatto di sostanza. Perché chiama direttamente in causa: tanto l'effettiva possibilità del sindacato di esercitare il ruolo di "soggetto politico autonomo" (distinto quindi dai partiti e dallo Stato); quanto il grado di effettivo "pluralismo democratico" nel paese.

Sembra persino banale ricordarlo. L'autonomia del sociale non è creata dalla Repubblica. Quindi la Repubblica (se non al prezzo esoso e quindi inaccettabile di un pluralismo finto) non può avere la pretesa di ingabbiarla ed irregimentarla, mentre, al contrario la sua funzione è semplicemente di riconoscerla e garantirla nel suo libero dispiegarsi. Perché è il solo modo per assicurare davvero un rapporto tra Società e Stato, tra dialettica sociale e sintesi politica, finalizzato alla crescita ed al consolidamento della "democrazia pluralista". Ricordiamoci che la democrazia, per essere davvero "pluralista", ha bisogno non solo di un pluralismo "nelle" istituzioni, ma anche di un pluralismo "di" istituzioni, di ordinamenti, di poteri.


Non occorre essere esperti di teorie della democrazia per capire che un sindacato "parastatale" non è un ingrediente utile per un simile assetto. Duole quindi constatare che l'idea del "riconoscimento giuridico del sindacato" (oltre tutto di chiara derivazione dalla cultura corporativa dello Stato) mantenga, soprattutto nella Cgil, un elevato numero di devoti. In ogni caso, non può essere ritenuto casuale che, di norma ed in quasi tutti i paesi, il "riconoscimento giuridico del sindacato", la "regolazione per legge della sua rappresentanza" ha sempre avuto tra i suoi moventi principali l'intento di ingabbiare il sindacato. E, comunque, cercare di tenerlo al guinzaglio. E poi, non è curioso che da mezzo secolo si discuta di regolare la rappresentanza del lavoro, su basi giuridiche anziché volontarie,  e nessuno si sia mai neanche sognato di proporre una analoga regolamentazione per la rappresentanza padronale?

Naturalmente, la questione cruciale da chi e come debba essere regolata la rappresentanza del lavoro, non esaurisce i problemi dell'autonomia sindacale. Altrettanto decisivo resta il punto che l'indipendenza del sindacato non comporta la finzione che l'autonomia si regga su una sorta di eclettismo, o di neutralismo politico. Anche per la buona ragione che il sindacato non può non iscrivere le sue ragioni e l'orientamento alla base del suo agire nel concreto contesto culturale e politico. In definitiva quindi, anche in un autonomo, originale e riconoscibile sentimento politico. Parlo di un sentimento, non di una adesione acritica ad un partito e nemmeno ad uno schieramento. Un sentimento che, tuttavia, non può non  discernere: tra le forze politiche che propongono di conciliare le ragioni della competitività e dell'efficienza con quelle dell'equità  e della giustizia (e non si sottraggono perciò al dovere di confrontarsi e contrattare con il sindacato) e quelle che, al contrario, pensano invece che la politica possa essere autosufficiente e possa quindi sostanzialmente fare a meno del sindacato e della contrattazione.

Da questo deriva la conseguenza che il sindacato non può perciò confondere la sua autonomia con la sua solitudine. L'autonomia è sempre responsabilità.  E, dunque, legamento. Essa perciò non è negata, ma semmai rafforzata da un trasparente rapporto (diretto e dialettico) con una proposta politica ritenuta più prossima alle proprie ragioni ed aspirazioni di ciò che il sindacato rappresenta nella società. E comunque risulta impossibile capire come un sindacato, che intende contrastare le chiusure corporative per farsi portatore di un bisogno di equità nella convivenza umana, possa disinteressarsi di ciò che (assieme al conflitto ed al contratto) serve ad umanizzare la società.

C'è infine un aspetto che non può rimanere sottinteso. Il rapporto di interlocuzione preferenziale del sindacato con la proposta politica del centrosinistra non può diventare mortificante collateralismo. Tanto più che (anche ammesso che lo voglia) il sindacato non ha alcuna effettiva capacità di orientamento del voto. Infatti, rispetto al passato, quando il sindacato italiano era esposto al rapporto con un sistema partitico forte quanto famelico, perché costretto ad una rincorsa verso ogni spazio associativo disponibile pur di vincere la competizione per il consenso e per le preferenze, oggi sembrano piuttosto alcuni dirigenti sindacali a puntellare la propria insicurezza, a coltivare la speranza di poter realizzare progetti ed aspirazioni personali, offrendosi sul mercato politico. Magari illudendosi ed illudendo di poter portare in dote un patrimonio di consensi.

Sappiamo però che non è così. L'esperienza della Federconsorzi (e della "Bonomiana") è finita. Ed è finita assai prima che finisse la prima Repubblica. Bisogna perciò convincersi e convincere, anche i sopravvissuti ed i nostalgici, che essa è assolutamente irripetibile. Molte cose lo confermano. Tra le tante, una mi sembra particolarmente indicativa. Da parecchio tempo, le grandi organizzazioni portatrici di interessi (dai sindacati alla Confindustria, dalla Confcommercio alle Cooperative) non sono in grado, quand'anche se lo proponessero, di orientare il voto. Il che spiega perché il voto "dissociato" (ad esempio, quello tra tessera sindacale e voto al centro destra) risulti un fenomeno diffuso. Puntualmente rilevato, dopo ogni elezione, da ricerche ed indagini.

In proposito si può pensare tutto quello che si vuole. Ma non si dovrebbe commettere l'errore di considerarlo un "accidente" inaspettato. Una indesiderata eccentricità frutto del provincialismo culturale e politico italiano. Perché anche altrove (dagli Stati Uniti alla Germania, dal Regno Unito ai paesi scandinavi) le cose vanno esattamente così. Senza tuttavia (ed è un aspetto che merita di essere sottolineato) che questo abbia mai impedito ai sindacati di quei paesi di considerarsi a pieno titolo parte della cultura della "sinistra riformista". Scelta di campo che trae fondamentalmente orgine dalla consapevolezza che, ovunque nel mondo democratico, gli interessi dei lavoratori si sono sempre storicamente affermati, non malgrado, ma dentro il contesto politico.

Occorre aggiungere un'ultima considerazione. Viviamo in un tempo che impone (e, soprattutto in Italia, sarebbe da sciocchi non accorgersene)  una difficile ricomposizione  tra il valore della libertà e quello della democrazia. Situazione che esige una rinnovata tensione per ritrovare una idea rassicurante di "bene comune". Tanto più considerato che (come confermano anche le più recenti cronache politiche) essa è sempre più appannata. Malgrado spesso la "politica polticante" preferisca  occuparsi d'altro, appare evidente che è a questo incrocio che la competizione politica può esprimere il suo valore umano. Questo significa che, se è ovvio chiedere al sindacato di non essere "subalterno" e nemmeno assecondare velleitarie tentazioni di trasformarsi in un improbabile "zelatore elettorale", dovrebbe essere altrettanto ovvio chiedergli che, nel confronto politico tra due diverse concezioni di Società e di Stato, esso prenda invece parte. Stia cioè da una parte con dignità e rispetto della sua autonomia.

L'insieme delle considerazioni che ho cercato di proporre mi portano ad una duplice conclusione. La prima è che si può, del tutto legittimamente, contestare al documento dei segretari confederali della Cgil a Prodi i suoi contenuti di merito. Perché ritenuti non convincenti. O anche non condivisibili. Se possibile però, evitando una diatriba nella quale prevalgano argomenti contraddittori ed infondati. La seconda è che il sindacato, come tutte le istituzioni e le grandi organizzazioni collettive che intendono scongiurare ricorrenti pericoli di burocratizzazione, ha certamente bisogno di ripensare molte cose. Dalla sua autonomia, alla sua organizzazione. E persino di rimettere periodicamente in discussione sé stesso, assieme all'efficacia della sua strategia nei diversi contesti storici e politici.

 
Inutile dire che la discussione può anche essere aspra. Senza che questo possa o debba scandalizzare nessuno. Tuttavia, perché possa risultare anche utile, necessita di un costante impegno comune per scongiurare il pericolo, sempre incombente, di zavorrarla con polemiche fuorvianti. Indipendentemente dalla buona fede di tutti, che non è mai in discussione, esse comportano infatti una deplorevole dissipazione di tempo ed energie in contese che non portano da nessuna parte. E risultano perciò irrilevanti. In particolare quando coloro che si rappresenta non riescono ad intravedervi un percepibile costrutto.

Giovedì, 28. Ottobre 2004
 

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