Ascesa e crollo del lavoro interinale

L'autore, drettore di un istituto di studi, parla della Germania, ma le sue valutazioni toccano tutti i paesi, a cominciare dal nostro, dove negli ultimi anni si è diffuso il lavoro interinale, che oggi si trova drammaticamente esposto ai colpi della crisi. Quattro suggerimenti

La recente evoluzione del lavoro interinale può essere ben descritta con il detto “tanti presi, tanti spesi”. Dopo la rapida ascesa, sospinta dalle deregolazioni alimentate dalle “leggi Hartz”(1), questa forma di impiego minaccia di subire un crollo altrettanto rapido. Il declino della domanda in ampie parti del settore produttivo colpisce pesantemente i lavoratori interinali. Essi sono molto meno tutelati dei lavoratori con normale rapporto di lavoro rispetto agli sbalzi congiunturali verso il basso. La montante crisi del mercato del lavoro mette impietosamente a nudo i rischi peculiari che minacciano i lavoratori interinali sul piano del mercato del lavoro e su quello del reddito.

 

L’instabilità è un connotato immanente al lavoro interinale. Già in precedenti cicli economici era possibile capire che il lavoro interinale rientra nel repertorio delle misure aziendali di adattamento. La cosa è ben congegnata: con il declinare della domanda le aziende possono ridurre l’occupazione rapidamente e a costi vantaggiosi, lasciando scadere i rapporti a tempo determinato, mettendo fine al lavoro interinale, oppure riducendo il tempo di lavoro attraverso le banche delle ore, il lavoro ridotto o la limitazione dell’orario di lavoro regolare, prima di ricorrere esplicitamente ai licenziamenti. Nel loro insieme queste varianti di flessibilità esterna e interna costituiscono un’enorme riserva di ammortizzatori flessibili. Essi consentono di stabilizzare per un tempo abbastanza lungo l’occupazione dei lavoratori a contratto normale, malgrado il declino della domanda di beni e servizi. Questo ombrello protettivo ha tuttavia il suo prezzo: le aziende, nel quadro di garanzie occupazionali formalmente pattuite, rinunciano per un determinato periodo a licenziamenti per motivi aziendali, in cambio di contropartite sul piano dell’orario di lavoro e/o del salario da parte degli occupati. Agli inizi dell’anno trascorso, quando ancora l’economia tirava, un buon quarto delle aziende aveva pattuito con i consigli di azienda siffatte garanzie occupazionali.

 

Questi patti per l’occupazione vengono stipulati dalle aziende con i dipendenti con i quali sono vincolati da contratti collettivi di lavoro, ma non con i lavoratori interinali, che hanno un rapporto di lavoro con le imprese prestatrici. Anche e proprio quello sarebbe il luogo giusto per trattare analoghi patti per l’occupazione. Cosa osta a ciò?

 

Vi sono difficoltà di fondo, e scaturiscono dalla peculiare funzione del lavoro interinale. Per le aziende prestatarie esso funziona da riserva flessibile di personale. Per questa ragione il lavoro interinale, in situazioni di congiuntura negativa, è sistematicamente più esposto ai rischi occupazionali rispetto ai rapporti di lavoro normali. Molte aziende industriali prestatarie si disfano contemporaneamente delle riserve flessibili di personale che si erano create nella fase di boom. Le ondate di queste eliminazioni di personale avvengono sincronicamente. Si cumulano come in uno tsunami e colpiscono con inesorabile durezza le imprese di lavoro interinale. Ma mancano ambiti alternativi di impiego, verso i quali convogliare i loro lavoratori interinali. Anche se ambiti parziali del settore dei servizi si sottraggono con successo all’attuale depressione congiunturale e sono in grado di continuare a prosperare, difficilmente saranno in grado di offrire agli interinali disoccupati possibilità compensative. Già le differenti esigenze di qualifica sarebbero di ostacolo a una continuità occupazionale.

 

Il governo federale ha aperto un ombrello di protezione con il sussidio di lavoro ridotto (le riduzioni salariali conseguenti alle riduzioni di orario vengono in gran parte compensate con fondi pubblici, n.d.r.). Una cosa corretta. Ma in molti casi non sarebbe in grado di impedire la disoccupazione, e tanto meno di compensare i rischi sociali particolarmente elevati per i lavoratori interinali. E infatti, all’elevato rischio occupazionale si aggiunge la retribuzione spesso notevolmente peggiore rispetto a quella dei dipendenti in organico. Nel caso di perdita del lavoro, poi, il sussidio di disoccupazione è corrispettivamente inferiore. Dal momento che le precedenti fasi di occupazione per molti interinali sono generalmente brevi – è accertato che la durata media del loro impiego è meno di un anno – spesso non vi sono nemmeno le condizioni per il diritto alla indennità di disoccupazione vera e propria, ma solo alle prestazioni inferiori del cosiddetto “sussidio di disoccupazione II” (2). Così i più elevati rischi occupazionali si sommano a superiori rischi sul piano del reddito. Un mercato del lavoro funzionante dovrebbe onorare questo cumulo di rischi con un corrispettivo premio di rischio.

 

In luogo di ciò, si approfondiscono i fossati tra gli ineguali segmenti del mercato del lavoro. La retribuzione relativamente inferiore limita anche lo spazio d’azione delle imprese di lavoro interinale per la garanzia dell’occupazione: molti lavoratori interinali non si possono semplicemente permettere di rinunciare a una retribuzione. E le imprese di lavoro interinale, con il ridursi degli ordini, non dispongono delle possibilità di ridistribuire il lavoro con riduzioni di orario.

 

Di fronte a simili condizioni straordinarie c’è un urgente bisogno di misure di politica di mercato del lavoro.

- In primo luogo occorrerebbe utilizzare la fase di tempo di lavoro ridotto per ulteriore formazione, in modo da migliorare l’occupabilità. In tale modo sarebbe perlomeno possibile allargare lo spettro di potenziali occupazioni aggiuntive.

- In secondo luogo, la fissazione di orari minimi di lavoro e la reintroduzione del divieto di sincronizzazione, che proibiva alle imprese prestatrici di licenziare i propri occupati non appena un’azienda prestataria interrompeva l’assunzione, consentirebbe di migliorare le possibilità di accedere all’indennità di disoccupazione.

- In terzo luogo dovrebbero essere introdotte possibilità generali di formazione ulteriore, finanziate come in Francia da fondi e che potrebbero migliorare l’accesso a rapporti di lavoro normali.

- In quarto luogo, infine, si dovrebbe stabilire nell’ambito delle fasce salariali inferiori un salario minimo tale da ridurre le differenze retributive e da migliorare almeno la condizione sociale in caso di perdita del posto di lavoro. Meglio ancora sarebbe l’equiparazione con i dipendenti normali.

 

Note
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Direttore dell’Istituto di scienza economica e sociale (WSI) della Fondazione Böckler, una istituzione del DGB (Confederazione tedesca dei sindacati)

 

 
1) Si tratta delle quattro leggi introdotte dal secondo Governo Schröder tra il 2002 e il 2003 che riguardano in particolare una serie di misure volte a incentivare la ricerca di un lavoro e a disincentivare, corrispettivamente, l’affidamento al sussidio di disoccupazione. Sono chiamate Hartz dal nome dell’ex direttore del personale della Volkswagen, incaricato a suo tempo dal governo tedesco di delineare le riforme necessarie per combattere la disoccupazione e aumentare il tasso di occupazione. (ndt)

 

2) La quarta della cosiddette Leggi Hartz, citata di solito come Hartz IV, stabilisce un sussidio di disoccupazione (Arbeitslosengeld II), nettamente inferiore alla vera e propria indennità di disoccupazione (Arbeitslosengeld I), per i disoccupati che per varie ragioni (ad es. durata del precedente periodo di impiego) non soddisfano le condizioni per avere diritto all’indennità piena. (ndt)

 

(Traduzione a cura di Bruno Liverani)

Giovedì, 12. Marzo 2009
 

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