Articolo 8, analisi di una norma mal scritta

La legge sui contratti di prossimità, che possono contenere intese che modificano o derogano i contratti nazionali e persino la legislazione sul lavoro, è piena di incongruenze e genericità che la rendono poco utilizzabile. La cosa più sensata sarebbe di modificarla sulla falsariga dell’accordo del 28 giugno

Le ragioni per derogare in peius

Analizziamo le intese modificative o derogatorie previste dal paragrafo 7 dell’accordo del 28 giugno/21 settembre 2011 e, soprattutto, quelle previste dall’art. 8 comma 1 del decreto legge 138/2011 convertito con la legge148/2011.

           

Quanto alle prime si dice che tali intese – da definire solo ad opera di contratti aziendali - possono essere stipulate “al fine di gestire situazioni di crisi o in presenza di investimenti significativi per favorire lo sviluppo economico ed occupazionale dell’impresa”. Le intese possono modificare “gli istituti del contratto collettivo nazionale che disciplinano la prestazione lavorativa, gli orari e l’organizzazione del lavoro”. 

           

Questa formulazione ha un intenso precedente storico, costituito dalla rapida evoluzione delle cosiddette clausole di uscita, previste già da alcuni contratti nazionali del 2006/7 (chimici, tessili) e poi generalizzate dall’Accordo quadro sulla riforma della struttura della contrattazione collettiva del 2009, specificato dagli accordi interconfederali di settore e poi dai successivi contratti nazionali (d’ora in poi: CCNL) di categoria. Giusto per avere il quadro semantico, concettuale nonché precettistico della materia è utile ricordare che:

a) nel protocollo del luglio 1993 “la contrattazione aziendale o territoriale è prevista secondo le modalità e negli ambiti definiti dal contratto nazionale di categoria” che “stabilisce tempistica…, materie e voci nelle quali essa si articola”.

b) l’accordo quadro del gennaio 2009, che consentiva modifiche a singoli istituti del contratto nazionale, li legava alla necessità di “governare, direttamente nel territorio o in azienda, situazioni di crisi o…favorire lo sviluppo economico e occupazionale”;

c) che l’accordo interconfederale del 15 aprile del 2009 per l’industria prevede che la facoltà di modificare è esercitabile sulla base di parametri oggettivi individuati dal CCNL come “andamento del mercato del lavoro, livelli di competenze e professionalità disponibili, tasso di produttività, tasso di avvio e cessazione delle iniziative produttive, necessità di determinare condizioni di attrattività per nuovi investimenti” (punto 5.1, cpv. 1-3). Inoltre, in base all’accordo interconfederale, le intese devono essere approvate dalle parti stipulanti il CCNL;

d) la modifica al CCNL metalmeccanico concordata da Federmeccanica, FIM,UILM e FISMIC del 29 settembre 2010 in vista di scongiurare l’uscita di Fiat da Confindustria prevedeva la possibilità di intese modificative (da stipulare anche con le organizzazioni sindacali di categoria) dirette alla “creazione di condizioni utili a nuovi investimenti o avvio di nuove iniziative; contenere gi effetti economici o occupazionali derivanti da situazioni di crisi aziendali”; venivano però esclusi “minimi tabellari, aumenti periodici di anzianità, elemento perequativo, diritti derivanti da norme inderogabili di legge”. Gli accordi parevano caratterizzati da durata temporanea e tendenziale eccezionalità (Treu, 2011, p. 629). 

 

Considerata questa evoluzione, l’accordo del 28 giugno va interpretato dando adeguata pregnanza alle finalità delle intese modificative, che si prestano tra l’altro ad essere verificate in relazione alle situazioni aziendali. Tali finalità, peraltro, costituiscono un presupposto perché quelle intese modificative siano riconducibili alla disciplina negoziale in discussione. Questo è importante al fine di valutarne il rispetto: ma sempre considerando che si tratta di una disciplina contrattuale. Dalla violazione delle finalità non si può far scaturire qualunque effetto sanzionatorio, ma solo quelli connessi alla mancata riconducibilità del contratto al quadro regolativo delineato nell’accordo del 28 giugno. Mi pare perciò da escludere che si possa sostenere l’invalidità del contratto aziendale con intesa modificativa priva delle finalità previste.

 

Tutto cambia invece con l’art. 8 del d.l. 138, che ha introdotto la nuova fattispecie legale dei contratti di prossimità, da considerarsi contratti collettivi di diritto speciale. La norma prevede che specifiche intese con efficacia nei confronti di tutti i lavoratori interessati – definibili ad opera di contratti collettivi stipulati a livello aziendale o territoriale – possono essere stipulate se “finalizzate alla maggiore occupazione, alla qualità dei contratti di lavoro, all’adozione di forme di partecipazione dei lavoratori, alla emersione del lavoro irregolare, agli incrementi di competitività e di salario, alla gestione delle crisi aziendali e occupazionali, agli investimenti e all’avvio di nuove attività”. Ne consegue che i contratti di prossimità vengono dal legislatore configurati come contratti diretti a realizzare determinati scopi (di vincolo di scopo parlano anche Perulli-Speziale).

 

L’art. 8 è formulato in maniera più ampia, eterogenea e generica delle norme di accordi e contratti collettivi poco sopra richiamati; però, paradossalmente, le ricadute applicative sulla validità dell’accordo possono essere ben più incisive.

a) Formulazione più ampia: è evidente che le finalità che consentono intese modificative vengono enormemente accresciute, pur confermando la finalità occupazionale e quella di gestione delle crisi aziendali.

b) Formulazione più eterogenea: essendosi duplicata la tipologia di contratti che possono contenere le intese modificative (aziendale/territoriale), anche le finalità possono assumere diversi significati e parametri di individuazione. Si pensi alla finalità occupazionale, facilmente verificabile con riguardo ad un accordo aziendale ma molto più difficilmente accertabile con riguardo ad un accordo territoriale.

c) Formulazione più generica: è una conseguenza della eterogeneità, ma anche della terminologia utilizzata. Espressioni come “qualità dei contratti” o “incrementi di competitività” sono assai difficili da concretizzare. 

 

Pur con queste differenze, l’art. 8 conferma indubbiamente che le intese modificative vanno strettamente ancorate a determinate finalità. Pertanto le finalità sono un elemento essenziale perché si producano i particolari effetti previsti dalla norma di legge (efficacia generalizzata ed eventuale effetto derogatorio di norme dei CCNL e della legge). Tali finalità possono dunque costituire oggetto di un controllo ad opera di organismi amministrativi o giudiziari eventualmente chiamati a farlo, sia nell’esercizio delle funzioni a loro attribuite dalla legge (si pensi a verifiche dell’ispettorato sul rispetto di norme contrattuali o legali) sia a seguito di un’istanza di parte (come è normale per i giudici). Sarà pur vero, come molti hanno rilevato, che le formule normative sono tanto vaghe da poter essere facilmente riscontrate nella realtà. Occorre però essere attenti al fatto che la genericità della formula non esclude che la finalità debba essere in concreto riscontrabile e che potrebbe anche essere necessario provare la ricorrenza dei presupposti oggettivi ai quali va ancorato il perseguimento della finalità modificativa (tra i tanti, v. Perulli-Speziale), specie se derogatoria in peius. In tal caso la genericità della formula legale non può che ritorcersi contro il soggetto interessato ad essere quanto più possibile certo della piena efficacia giuridica dell’accordo produttivo di intese modificative in peius (ovvero l’impresa).

 

Quid iuris se non si riscontrano le finalità/ragioni di cui all’art. 8? Qui, se è vero, come ho premesso, che gli accordi di prossimità che contengono tali intese hanno la natura di contratti di diritto speciale, due possono essere le conseguenze: a) o si ritiene che tali accordi sono del tutto invalidi, e improduttivi di qualsiasi effetto, per carenza di uno degli elementi essenziali richiesti proprio dal diritto speciale che li consente; b) oppure si ritiene che rimangano in vita come contratti di diritto comune, con tutto quanto ne consegue in termini di efficacia soggettiva e di soggezione ai limiti derivanti dai CCNL e dalle leggi. 

 

Corretta delimitazione dell’area di intervento delle intese previste dall’art. 8

L’analisi dei successivi punti si concentrerà sull’art. 8 del d.l. 138, dal momento che le normative si differenziano moltissimo nel merito e nelle problematiche giuridiche che sollevano.

 

Le intese previste dall’art. 8 possono intervenire su tutte le materie di cui al secondo comma. Tuttavia il secondo comma è formulato in maniera assai tortuosa ed involuta, passando da formule limitative a formule generiche e viceversa, con una sintassi che ingenera ogni forma di incertezza e confusione. L’inserimento del comma 2-bis ha poi determinato una sorta di segmentazione regolativa degli accordi di prossimità, che possono avere ad oggetto le materie di cui al comma 1, ma con una variante di grandissima rilevanza allorquando assumano la valenza derogatoria, perché in questo caso il legislatore sembra segnalare un limite aggiuntivo da rinvenire nella “Costituzione e nei vincoli derivanti dalle normative comunitarie e dalle convenzioni internazioni sul lavoro”. Di tale precisazione non v’è, ovviamente, alcuna necessità né sistematica né ermeneutica: il fatto però che sia stata introdotta, oltre a testimoniare l’approssimazione dell’iter formativo della norma, non può non indurre ad una particolare attenzione ricostruttiva.

           

Prima domanda: i contratti di prossimità non derogatori, non incontrano limiti derivanti da norme costituzionali o sovranazionali? La domanda è irricevibile per quanto riguarda i vincoli derivanti dalla Costituzione italiana, del tutto indisponibili per il legislatore italiano, che non può “liberare” nessun soggetto dal rispetto di quei limiti. E’ però meno peregrina in un ordinamento giuridico multilivello nel quale non è sempre facile armonizzare diritto europeo e diritto nazionale, soprattutto con riferimento ai diritti sociali. Si potrebbe, ad esempio, pensare che il nostro legislatore abbia voluto porre al riparo da qualsiasi ponderazione con le libertà tutelate a livello comunitario gli accordi di prossimità, dando vita ad una contrattazione collettiva destinata a godere di un regime giuridico privilegiato, fino a quando non contenga regole riduttive degli standard di protezione nazionali, legali o contrattuali che siano. Non è probabilmente la ratio legis; ma quando le norme vengono fuori da percorsi così tortuosi e pasticciati, la ratio legis va ricostruita ex post, tenendo conto di tutte le complessità dei sistemi giuridici contemporanei.

 

In ogni caso, per delimitare l’area delle materie sulle quali i contratti di prossimità possono derogare, occorre tenere indubbiamente conto del comma 2bis, la cui formulazione va ad intrecciarsi proprio con le materie indicate al comma precedente. Per fare un esempio, la disciplina dell’orario di lavoro intanto potrà essere oggetto di intese derogatorie dei CCNL o di norme di legge in quanto non sia “coperta” da norme Costituzionali o di livello europeo/internazionale. Per cui certamente i contratti di prossimità non possono ridurre la durata massima della giornata lavorativa fissata dalla legge né intaccare il diritto al riposo settimanale o alle ferie annuali retribuite (art. 36 c. 2 e 3 della Costituzione). Gli stessi contratti di prossimità poi potranno muoversi nell’ambito dei limiti previsti dagli artt. 3 (riposo giornaliero), 4 (pausa), 5 (riposo settimanale), 6 (durata massima settimanale del lavoro) e 7 (ferie annuali) della direttiva Ue 4.11.2003 n. 88, che prevede anche entro quali limiti tali norme possono essere derogati mediante contratti collettivi (v. artt. 17,18 e ss.).

           

Sempre con riferimento al vincolo costituzionale, si è poi da più parti rilevato (A. Zoppoli, Carinci, Ales) che i contratti di prossimità non possono certo muoversi in un sistema regolativo sottratto agli artt. 117 e seguenti della Costituzione, con tutto quanto ne consegue in termini di compatibilità del disposto dell’art. 8 del d.l. 138/11 con il riparto di competenze previsto dalle citate norme costituzionali. Al riguardo non ne deriva, a mio parere, una immediata incostituzionalità della attuale formulazione della norma in esame; essa però va interpretata nel senso che dalla legge statale non può derivare per i contratti di prossimità una potestà regolativa con efficacia pari a quella legislativa (id est, derogatoria del dettato legislativo) in contrasto con il dettato dell’art. 117. Se così fosse l’art. 8 sarebbe ovviamente in contrasto con il 117 nella parte in cui riserva talune materie alla legislazione esclusiva dello Stato (tipo livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale; la previdenza sociale); e si può anche sollevare la questione di un intreccio tra la potestà legislativa concorrente delle regioni in materia, ad esempio, di tutela e sicurezza del lavoro, formazione professionale, previdenza complementare e integrativa, nonché della competenza residuale, ad esempio, in materia di mercato del lavoro. I contratti di prossimità non possono erodere la potestà legislativa regionale che è presidiata da garanzia costituzionale. Non c’è poi neanche bisogno di dire che i principi fondamentali in materia di lavoro che l’art. 117 c. III riserva alla legislazione dello Stato non possono certo essere oggetto di intese derogatorie ad opera dei contratti di prossimità.

 

L’individuazione delle materie inderogabili

Le materie inderogabili si desumono in negativo dall’elenco contenuto nel comma 2 dell’art. 8. Qualcuno (Ales) ha scritto: diritto antidiscriminatorio e tutela della sicurezza nei luoghi di lavoro. E’ un’indicazione di massima condivisibile. Però io partirei dal metodo interpretativo della norma in questione.

           

Come ho già detto in precedenza, è il comma 2bis a riverberarsi sul primo, perché l’elencazione del secondo comma di per sé non riguarda le materie inderogabili, ma quelle che possono essere oggetto di intese efficaci erga omnes. Tali intese, finchè non derogano agli standard nazionali, non creano particolari problemi ermeneutici. Quando però assumono valenza derogatoria connotano la qualità della norma di legge rendendola un’ “eccezione a regole generali” (art. 14 disp. prel. cod. civ.). E si badi bene: l’eccezionalità non sta nel fatto che la legislazione lavoristica è normalmente inderogabile (affermazione ancora dotata di una sua veridicità, trattandosi di verificare tutt’al più latitudine e specifico regime giuridico), quanto nel fatto che si attribuisce ad una fonte di rango sicuramente inferiore rispetto alla legge una potestà derogatoria della legge stessa. Si altera dunque l’ordine costituzionale e ordinamentale delle fonti. Quanto questo sia possibile farlo in ordine ad un contratto collettivo e in vigenza di una norma come l’art. 39 della Costituzione è questione fondamentale, ma che non ho né il compito né l’intenzione di trattare qui. Invece mi interessa sottolineare che l’art. 8 c. 2bis del d.l. 138/11 è norma eccezionale e come tale non può “essere applicata oltre i casi e i tempi in essa considerati” (art. 14 preleggi c.c.). In considerazione di ciò, le materie di cui al comma 2 vanno interpretate assai rigorosamente.

           

E allora: innanzitutto le materie devono essere “inerenti all’organizzazione del lavoro e della produzione”. Non so esattamente cosa significhi; ma è ius conditum e un senso occorre darglielo. Io riesco solo a pensare che le intese derogatorie possono riguardare determinate materie solo se esse hanno una ricaduta diretta su (o ineriscono a) organizzazione del lavoro e della produzione. Occorre dunque fare attenzione a due elementi: a) la concretezza dell’impatto organizzativo o produttivo di un’intesa derogatoria; b) la delimitazione della deroga ai profili dell’istituto che si riverberano (e possono riverberarsi) su organizzazione del lavoro e produzione. Una deroga che dovesse riguardare una norma simbolo o una norma-principio, pur non coperta da garanzie costituzionali o norme sovranazionali, priva di concreti riflessi sull’organizzazione del lavoro o della produzione potrebbe ad esempio non presentare questa caratteristica. Un esempio di grande rilievo potrebbe essere una deroga all’art 18 dello Statuto dei lavoratori, cioè proprio il tema tanto discusso della reintegrazione, ove tale deroga non fosse di alcun significativo impatto sull’organizzazione del lavoro e della produzione (ad esempio reintegrazione di lavoratori di qualifiche medio-basse in una organizzazione di notevoli dimensioni). Oppure potrebbe non rientrarvi una deroga riconducibile a ragioni eminentemente soggettive, cioè dirette a non applicare una norma di legge ad uno o più lavoratori anche per motivazioni di carattere non discriminatorio. Insomma la deroga non può avere né carattere generale e astratto (non siamo in presenza di fonti simil-legislative) né portata “soggettiva”, ma dovrebbe essere riconducibile ad un “giustificato motivo oggettivo”, sul quale può esservi un controllo giudiziale preliminare rispetto alla questione della materia in cui si verta.

           

Ci sarebbe da chiedersi come una tale limitazione può essere applicata ai contratti di prossimità territoriali, rispetto ai quali è davvero problematico andare alla ricerca della inerenza all’organizzazione del lavoro e della produzione, a meno che le parti non siano così accorte da indicare con precisione nel medesimo accordo tale inerenza. 

           

Occorrerebbe qui passare ad un esame specifico delle diverse materie elencate dal comma 2, secondo il metodo interpretativo enunciato, prudentemente restrittivo. Tale metodo, tenendo conto di quanto già si è detto, può condurre ad esiti apprezzabili per molte delle materie elencate. Per altre però resta un grado di indeterminatezza notevole.

           

In particolare meritano di essere approfondite due “materie” che materie non sono: a) modalità di assunzione e disciplina del rapporto di lavoro, comprese le collaborazioni coordinate e continuative e a progetto e le partite Iva; b) le conseguenze del recesso dal rapporto di lavoro, fatta eccezione per il licenziamento discriminatorio e il licenziamento della lavoratrice in concomitanza del matrimonio, il licenziamento della lavoratrice dall’inizio del periodo di gravidanza fino al termine dei periodi di interdizione dal lavoro, nonché fino a un anno di età del bambino, il licenziamento causato dalla domanda o dalla fruizione del congedo parentale e per la malattia del bambino da parte della lavoratrice o del lavoratore ed il licenziamento in caso di adozione o affidamento.

           

Sulla lettera a), il riferimento alla disciplina è talmente vasto da lasciare strabiliati. Come pure il riferimento a tutti i rapporti di lavoro non subordinati, per i quali davvero non si sa su cosa si può basare una potestà regolatoria erga omnes derogatoria rispetto alla legge. Per non lasciare nell’assolutamente generico, si può intendere che la materia sia costituita unicamente dalla disciplina delle modalità di assunzione dei lavoratori, fermo restando che i cococo ecc. non vengono assunti, non trattandosi appunto di dipendenti. Dando per buona una tale approssimazione, si può ritenere che i contratti di prossimità possano in qualche modo derogare a leggi e contratti nazionali che prevedano particolari procedure o restrizioni anche formali per procedere alla stipulazione di qualsiasi contratto di lavoro. Rimane una deroga ampia, troppo ampia e priva di una legittimazione soggettiva convincente. Ma almeno tale interpretazione vale a dare un contenuto plausibile.

           

Sull’altra materia, pur concordando con chi ha tempestivamente rilevato che una cosa sono le conseguenze altro le sanzioni (Romei), le precisazioni fatte con la legge di conversione non lasciano dubbi sul fatto che il legislatore pensi alla derogabilità sulle norme in tema di sanzioni per i licenziamenti illegittimi. Al riguardo però occorre essere ben avvertiti dell’alta problematicità di affidare ad accordi sindacali materie che attengono al fondamento stesso dell’ordinamento civile, come forma del contratto e sanzioni per l’illegittimità di atti delicatissimi come il licenziamento. Si può facilmente incorrere nella violazione dell’art. 117, che riserva alla potestà esclusiva dello Stato la disciplina dell’ordinamento civile come dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale.

 

Prospettive

Viste tutte le incongruenze e pericolosità, la norma pare poco utilizzabile. Andrebbe ampiamente riscritta. Ma anche fondata su un consenso sociale più ampio, che invece pare scemare dinanzi a iniziative referendarie. Forse la prospettiva più plausibile è quella di una sua riconduzione agli equilibri regolativi maturati intorno all’accordo del 28 giugno 2011, la cui portata potrebbe essere rafforzata da un rinvio legislativo del tipo di quello ipotizzato da un recente ddl presentato dal gruppo parlamentare del Pd (primo firmatario Damiano). 

           

 

Il testo dell’art. 8

  1. I contratti collettivi di lavoro sottoscritti a livello aziendale o territoriale da associazioni dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale ovvero dalle loro rappresentanze sindacali operanti in azienda ai sensi della normativa di legge e degli accordi interconfederali vigenti, compreso l’accordo interconfederale del 28 giugno 2011, possono realizzare specifiche intese con efficacia nei confronti di tutti i lavoratori interessati a condizione di essere sottoscritte sulla base di un criterio maggioritario relativo alle predette rappresentanze sindacali, finalizzate alla maggiore occupazione, alla qualità dei contratti di lavoro, all’adozione di forme di partecipazione dei lavoratori, alla emersione del lavoro irregolare, agli incrementi di competitività e di salario, alla gestione delle crisi aziendali e occupazionali, agli investimenti e all’avvio di nuove attività.

  2. Le specifiche intese di cui al comma 1 possono riguardare la regolazione delle materie inerenti l’organizzazione del lavoro e della produzione con riferimento: a) agli impianti audiovisivi e alla introduzione di nuove tecnologie; b) alle mansioni del lavoratore, alla classificazione e inquadramento del personale; c) ai contratti a termine, ai contratti a orario ridotto, modulato o flessibile, al regime della solidarietà negli appalti e ai casi di ricorso alla somministrazione di lavoro; d) alla disciplina dell’orario di lavoro; e) alle modalità di assunzione e disciplina del rapporto di lavoro, comprese le collaborazioni coordinate e continuative e a progetto e le partite Iva, alla trasformazione e conversione dei contratti di lavoro e alle conseguenze del recesso dal rapporto di lavoro, fatta eccezione per il licenziamento discriminatorio e il licenziamento della lavoratrice in concomitanza del matrimonio, il licenziamento della lavoratrice dall’inizio del periodo di gravidanza fino al termine dei periodi di interdizione dal lavoro, nonché fino a un anno di età del bambino, il licenziamento causato dalla domanda o dalla fruizione del congedo parentale e per la malattia del bambino da parte della lavoratrice o del lavoratore ed il licenziamento in caso di adozione o affidamento. 2-bis.

    Fermo restando il rispetto della Costituzione, nonché i vincoli derivanti dalle  normative    comunitarie e dalle convenzioni internazioni sul lavoro, le specifiche intese di cui al comma 1   operano anche in deroga alle disposizioni di legge che disciplinano le materie richiamate dal comma 2 ed alle relative regolamentazioni contenute nei contratti collettivi nazionali di lavoro”.

Domenica, 25. Dicembre 2011
 

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