Articolo 18 e dintorni

Lavoro, previdenza e fisco: l'iniziativa del governo produce divisione e conflitto sociale
Le misure legislative predisposte dal governo su lavoro, previdenza e fisco hanno prodotto il più aspro ed esteso conflitto sociale degli ultimi venti anni. Sui media e nell'immaginario collettivo, è però soprattutto la preannunciata intenzione di mutilare l'articolo 18 dello Statuto il simbolo dello scontro in atto. Questa semplificazione non è del tutto arbitraria. Considerato che il governo non ha lesinato sforzi retorici per far sapere che considera la conquista di un pezzo di articolo 18 uno scalpo irrinunciabile da esibire come trofeo della sua vocazione "modernizzatrice".

La cartina di tornasole dei propositi di Berlusconi
Le persone ragionevoli si chiedono perché il governo abbia trasformato una questione tutto sommato irrilevante, sia per le aziende che per lo sviluppo economico e dell'occupazione, nel detonatore di un conflitto sociale particolarmente acuto. Una spiegazione razionale non c'è. Si può quindi supporre che l'intervento sull'articolo 18 e le altre misure consimili costituiscano una sorta di cartina di tornasole dei propositi annunciati da Berlusconi a Parma, al convegno della Confindustria dello scorso anno. In quella occasione il futuro premier disse infatti che le richieste presentate dal capo degli industriali (meno tasse per le aziende, più "libertà" per le imprese e, dunque, anche meno sindacato nelle imprese) avrebbero costituito la base del suo programma di governo. Perciò ora starebbe semplicemente onorando una cambiale in scadenza.
Tuttavia, per quanto fondate o sensate, le congetture sulle motivazioni politiche non servono a molto. Meglio quindi stare alle spiegazioni date dal governo per giustificare "riforme" presentate come "indispensabili".
 
Per evitare al lettore di perdere inutilmente tempo, tralasciamo ogni commento agli aspetti più eccentrici del rapporto del governo con i sindacati. Non parleremo quindi dei "colpi di teatro", degli scarti umorali, delle continue oscillazioni tra la velleità di "tirare diritto" e gli appelli al "dialogo". Anche perché ci sembrano ormai una costante, una specie di "disturbo del comportamento" dell'attuale governo. Ci limitiamo perciò a prendere in considerazioni gli argomenti utilizzati dall'esecutivo per motivare i suoi provvedimenti. In particolare, i contenuti della delega sul lavoro.
 
Stando a quello che si è letto e si è ascoltato, le ipotizzate modifiche all'articolo 18 dovrebbero avere l'effetto di un missile a testato multipla. Perché dovrebbero contemporaneamente consentire: di eliminare un ostacolo alla crescita dimensionale delle piccole aziende; di aumentare l'occupazione; di accrescere la flessibilità del lavoro (sia in entrata che in uscita), colmando in tal modo un deficit che, per governo e Confindustria, persisterebbe rispetto al resto dell'Europa. Su cosa si fondino simili miracolistiche aspettative non è dato di sapere. Cerchiamo allora di partire, con metodo induttivo, dai termini reali delle singole questioni per tentare di capire se esita, o meno, un nesso tra la situazione effettiva e le proposte del governo.
 
L'"effetto-soglia" non esiste,vari studi lo dimostrano
Cominciamo dal primo punto. Quello cioè che considera l'articolo 18 un tappo che precluderebbe la crescita delle aziende con meno di 15 dipendenti. Come sanno bene gli addetti ai lavori, in proposito sono stati fatti diversi studi. In generale, essi sono giunti alla conclusione che le scelte di sviluppo dell'impresa non risultano condizionate da alcun fatidico effetto-soglia. L'ultima ricerca, in ordine di tempo, è quella svolta dalla fondazione Brodolini e pubblicata nel giugno scorso. L'indagine, curata dal professor Roberto Schiattarella, ha messo sotto osservazione l'evoluzione delle aziende composte da 10 a 15 addetti e quelle da 16 a 19. Lo studio copre un arco di 25 anni e precisamente dal 1971 (anno di entrata in vigore dello Statuto) al 1996.
Il dato che emerge anche da questa ricerca contraddice la "vulgata" che attribuisce all'articolo 18 una funzione negativa rispetto alla crescita dimensionale delle piccole imprese. Ed infatti, nel quarto di secolo preso in considerazione, il numero delle imprese e degli occupati è cresciuto maggiormente nella classe dimensionale da 16 a 19, che in quella da 10 a 15 addetti. Le spiegazioni di questo andamento possono essere molteplici e lo studio formula diverse ipotesi interpretative. In ogni caso - conclude il prof. Schiattarella - "i risultati dell'analisi sono sorprendenti, perché mostrano che molte imprese....non si sono assolutamente poste il problema di restare sotto la cosiddetta 'area-Statuto' al fine di evitarne i vincoli".
 
Si può quindi liberamente pensare, a seconda dei punti di vista, che lo Statuto debba essere conservato così com'è, oppure aggiornato. Comunque la cosa certa (che si ricava dalle indagini effettuate) è che, finora, non ha prodotto alcun effetto di spiazzamento sulle decisioni di crescita delle imprese. Se, dunque, si sta ai fatti dovrebbe risultare piuttosto evidente che i fattori che influenzano la crescita delle piccole aziende hanno sicuramente molto a che fare: con le dinamiche di mercato, con la capacità di innovazione di processo e di prodotto; con la dotazione infrastrutturale; con l'efficienza della pubblica amministrazione. Mentre hanno assai poco, per non dire nulla, a che fare con lo Statuto.
 
Lo Statuto non ostacola l'occupazione
Considerazioni analoghe possono essere fatte a proposito del secondo punto. Quello che imputa allo Statuto (ed in particolare all'articolo 18) di costituire un serio ostacolo all'aumento dell'occupazione complessiva. Qualche dato può servire a chiarire le idee. L'Istat recentemente ha reso noto che, fra il gennaio 2001 e lo stesso mese del 2002, sono stati creati 371 mila posti di lavoro. Quasi metà dei quali ricoperti da disoccupati ed il resto da giovani in cerca di prima occupazione. Il tasso di disoccupazione si è così abbassato dal 10,1 al 9,2, con un impatto significativo anche nel Mezzogiorno, dove per la prima volta il livello dei senza lavoro è sceso sotto la tremenda soglia del 20 per cento. Delle cifre fornite dall'Istat sono stati giustamente sottolineati tre aspetti.
Il primo, che in prevalenza i nuovi occupati non sono stati inseriti in impieghi precari e temporanei e neppure in pseudo attività di tipo autonomo, ma in posti di lavoro dipendente a tempo pieno ed indeterminato. Il secondo, che questo incremento di occupazione si è verificato in un anno (il 2001) di crescita modesta. L'aumento del Pil è stato infatti solo dell'1,8 per cento. Il terzo, che l'incremento di posti di lavoro non costituisce un dato inedito e sorprendente dell'ultimo anno, ma è lo sviluppo di un processo iniziato da alcuni anni. Infatti, dal gennaio 1996 i posti di lavoro sono cresciuti di circa 1 milione e 800 mila unità. A parte ogni altra considerazione, si dovrebbe quindi onestamente riconoscere che, almeno negli ultimi sei anni, l'articolo 18 non ha affatto franato l'aumento dell'occupazione.
 
A proposito della dinamica complessiva dell'occupazione, può essere utile un'altra considerazione. La capacità di creare lavoro (che gli economisti definiscono "elasticità dell'occupazione rispetto al Pil", perché misura il rapporto tra incremento dell'occupazione ed incremento del prodotto interno lordo) ha inopinatamente visto l'Italia in testa a questa particolare classifica. Infatti nell'ultimo quadriennio, l'elasticità dell'occupazione negli Stati Uniti è stata del 50 per cento. In Gran Bretagna del 60 per cento. Nella media dei paesi dell'Euro del 70 per cento. Nello stesso periodo, in Italia è arrivata invece ad un sorprendente 80 per cento. Sorprendente perché, con una crescita economica più bassa degli altri paesi, in proporzione l'Italia è riuscita a generare maggiore occupazione.
 
Si tratta di un mutamento per molti versi inaspettato. Infatti, fino a non moltissimo tempo fa non erano pochi i così detti esperti i quali ritenevano che per diminuire la disoccupazione si sarebbero dovuti realizzare ritmi di crescita ben più sostenuti. L'unica spiegazione per questa contraddizione tra previsioni e dati è che probabilmente, così come l'andamento metereologico non dipende dai metereologi, nemmeno quello economico dipende dagli economisti.
 
Sarà bene, tuttavia, non commettere l'errore di scambiare per oro tutto quello che luccica. Si può anche pensare, non del tutto immotivatamente, che l'Italia stia persino creando troppi occupati in proporzione ai suoi attuali modesti ritmi di crescita economica. Perché potrebbe significare che si tratta di occupazione soprattutto marginale, a basso costo ed a bassa produttività, generata prevalentemente in settori non di mercato. L'elasticità del lavoro è infatti un indicatore inverso rispetto alla produttività del lavoro. Dietro l'andamento positivo dei dati sull'occupazione si possono perciò nascondere problemi irrisolti. Specialmente quelli che hanno a che fare con la qualità dello sviluppo, con l'intensità degli investimenti, con la capacità di ricerca e di innovazione che, al dunque, sono gli elementi decisivi per migliorare la competitività del sistema produttivo.
 
La flessibilità è un'esigenza, ma regolata e tutelata
Veniamo infine alla flessibilità, che molti considerano insufficiente ed il governo, con i suoi provvedimenti si propone di "liberalizzare". A scanso di equivoci è meglio sbarazzare subito il terreno dal falso dilemma: flessibilità si, flessibilità no. Una flessibilità "regolata e tutelata" è una esigenza, non un problema. Infatti, entro certi limiti, la flessibilità è indispensabile alle necessità dell'impresa per adattare il ciclo produttivo ai mutevoli andamenti del mercato, ma è anche un'esigenza dei lavoratori. Ci sono infatti parecchie persone che vorrebbero lavorare, ma per esigenze personali o familiari, lo possono fare solo a condizioni particolari. Forme di impiego flessibile possono perciò permettere anche a queste persone di non rimanere ingiustamente discriminate ed escluse dal mercato del lavoro. Dunque, una contrapposizione ideologica, a favore o contro la flessibilità, appare totalmente priva di senso.
 
Il problema vero è come regolarla. Soprattutto come regolarla in modo rispettoso ed equilibrato. Tenendo conto, sia delle esigenze produttive delle aziende, che della necessità dei lavoratori di non finire ai margini, in un'area di esclusione, perché priva di ogni ragionevole sicurezza. Si capisce bene che sono questioni del tutto estranee a certa retorica che parla di una economia italiana soffocata da un mercato del lavoro troppo "ingessato", troppo "rigido". La retorica è sempre enfatica e ridondante. Ma purtroppo è anche quasi sempre contagiosa. Non a caso tante menti "inutilmente operose" si sono buttate in una crociata per "liberare" il mercato del lavoro da immaginari "lacci e lacciuoli", da presunte "ingessature".
 
Inutile dire che sono posizioni che non trovano riscontro, né in studi empirici sul caso italiano, né in analisi comparate. Basta considerare pochi dati per rendersi conto che la realtà è piuttosto diversa da come alcuni la descrivono. A questo fine particolarmente utile è l'analisi dei contributi pagati all'Inps. Infatti, esaminando i contributi pagati all'Inps è possibile ottenere una contabilità piuttosto accurata (per quanto riguarda il settore dell'impiego privato, che è quello che qui conta) della creazione e della distruzione di posti di lavoro in Italia. Ebbene facendo un confronto, tra un anno ed un altro, sui contributi pagati da ogni impresa per i propri lavoratori si ottiene la stima della creazione e della distruzione di posti di lavoro in ciascuna impresa. Analizzando i dati si arriva alla conclusione che il numero delle imprese che nascono e che muoiono è, a seconda degli anni, poco meno, o poco più, del dieci per cento. Il numero dei posti di lavoro creati, in ciascuno degli ultimi quattro-cinque anni, è stato di circa un milione trecentomila, mentre poco più di un milione è stato il numero di posti di lavoro distrutti. In termini relativi questo significa che (nel settore privato) più di due posti di lavoro ogni dieci vengono creati, o distrutti, ogni anno. Il fenomeno è attribuibile per un terzo alla nascita di nuove imprese, oppure alla cessazione di imprese esistenti; per due terzi alla espansione, oppure alla contrazione dell'occupazione nelle imprese in attività. Il saldo annuale tra posti di lavoro creati e posti di lavoro distrutti costituisce l'incremento (o il decremento) dell'occupazione dipendente del settore privato.
 
Ovviamente, il saldo coincide con i dati sull'occupazione forniti dall'Istat. I dati sui flussi rilevabili all'Inps sono però più interessanti, perché aiutano a capire, non solo le variazioni dell'occupazione, ma le ragioni che le hanno determinate. Essi consentono quindi di farsi un'idea più accurata e realistica delle dinamiche che investono il mercato del lavoro. Senza perderci in dettagli basterà dire che valutando gli ordini di grandezza si può arrivare agevolmente alla conclusione che il nostro mercato del lavoro è tra i più dinamici. Infatti il turn-over (che è la somma tra creazione e distruzione di posti di lavoro) nel 2001 è stato leggermente superiore al 25 per cento. Valore analogo a quello degli Stati Uniti e superiore a quello di tutti i paesi dell'Euro. Ovviamente il turn-over costituisce solo una parte della flessibilità, a cui bisogna sommare le quantità (tendenzialmente ipertrofiche) del lavoro atipico. Basti pensare (per limitarci alle forme più significative) ai 700 mila occupati in lavori interinali, al milione e 400 mila contratti a termine ed, infine, a quelle forme di pseudo lavoro autonomo, che sono gli oltre due milioni di collaborazioni coordinate e continuative. Perciò il lavoro atipico (che, assai spesso, costituisce una specie di zona franca, dove i diritti sono scarsamente riconosciuti ed ancora meno praticati) rappresenta ormai un terzo di tutta l'occupazione dipendente del settore privato. Sommando turn-over e lavoro atipico è facile arrivare alla conclusione che, in Italia, un occupato su due del settore privato è alle prese con problemi di flessibilità. Sicché, almeno dal punto di vista quantitativo, il nostro mercato del lavoro è certamente tra i più flessibili d'Europa.
 
Purtroppo però è anche il più segmentato e sgangherato. Quindi, più che di un ulteriore ampliamento della flessibilità necessiterebbe di un restauro. Cioè di interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria che lo mettano "a norma". Per introdurvi le tutele che mancano, i sostegni al reddito, le garanzie previdenziali, la formazione continua, per chi perde, o non trova lavoro. Cioè quello che, più o meno, esiste negli altri paesi europei. Mentre non sembra avere affatto bisogno di altre scombinate novità, di altre deroghe a casaccio (comprese alcune di quelle ipotizzate nel "Libro Bianco”). Che possono servire a tutto, meno che a conciliare le esigenze delle imprese ed i diritti delle persone. Di tutte le persone, comprese quelle che non sono mai entrate, o che sono state sospinte, fuori dal cerchio magico di un sistema minimo di tutele e di garanzie. Fuori cioè da quello che l'Europa rivendica, con giusto orgoglio, come il suo "modello di protezione sociale". Ma per far "entrare in Europa" anche il mercato del lavoro italiano c'è un problema che non può essere eluso. Le risorse necessarie non si possono ottenere (come lasciano invece supporre certe misure di politica fiscale) tormentando i tormentati e confortando i confortati. E poiché per rimanere in Europa non si può aumentare il disavanzo ed il debito pubblico, è evidente che non si riuscirà a confortare i tormentati, senza tormentare i confortati.
 
Gli esiti paradossali delle tesi del governo
Ridotta all'osso, la tesi del governo è che in Italia non c'è abbastanza lavoro perché c'è poca flessibilità (del mercato del lavoro, dei salari dei, diritti), con conseguenze negative sulla competitività del sistema produttivo. Se portata all'estremo, questa concezione della competitività conduce ad esiti paradossali. Perché implica che il pieno impiego diventa possibile soltanto quando tutti saranno disposti (o costretti) a lavorare a condizioni di sopravvivenza. Non fosse altro, per la buona ragione che ci sarà sempre qualcuno in giro per il mondo, condizionato dal bisogno, disponibile a lavorare per meno paga e con meno diritti.
 
Assecondando una simile prospettiva però, invece di puntare ad un miglioramento della competitività accrescendo la ricerca, l'innovazione di processo e di prodotto, una più efficace e conveniente organizzazione di servizi (come luce, acqua, telefoni, trasporti, pubblica amministrazione e quant'altro) ci si incamminerebbe lungo una strada illusoria e rovinosa. Perché la tendenza secolare a trasformare il progresso economico in progresso sociale verrebbe rovesciata nel suo opposto, con conseguenze facilmente prevedibili. Difficilmente però questa concezione estremistica troverà sufficienti consensi. Anche perché contraddice il buon senso (molto più diffuso di quanto alcuni fanatici liberisti sembrano propensi a credere) e perché, invece di risolverli, aggraverebbe i problemi concreti.
 
Non è probabilmente un caso che anche molti imprenditori non nascondano la loro crescente perplessità rispetto alla prospettiva di una guerra sull'articolo 18. Guerra che considerano elusiva, dissennata ed inutilmente costosa. Anche perché il problema vero in particolare per la maggior parte delle imprese del nord (dove rilevante è la domanda di lavoro inevasa, soprattutto di mano d'opera qualificata) è quello di riuscire ad assumere, non certo quello di poter licenziare più sbrigativamente. Lo confermano almeno due circostanze. La prima è che diverse organizzazioni imprenditoriali di regioni del nord chiedono, con sempre maggiore insistenza, un aumento delle quote di immigrazione per poter colmare una carenza di manodopera, altrimenti irrisolvibile. La seconda è che l'aumento di occupati, verificatosi lo scorso anno, è stato conseguito con assunzioni a tempo pieno ed indeterminato. Almeno nella stragrande maggioranza dei casi. Segno che, soprattutto nelle aree a più bassa disoccupazione, i contratti di lavoro atipico (quando non coincidono con progetti personali di vita) non hanno nessun appeal.
 
Ovviamente, la situazione continua ad essere diversa al Sud. La disoccupazione resta infatti territorialmente concentrata nel Mezzogiorno. Tuttavia, anche lì, non si riesce a capire in base a quali misteriosi arcana una maggiore facilità di licenziamento possa riuscire a produrre l'effetto magico di far crescere l'occupazione. A parità di tutte le altre condizioni, si deve infatti ritenere che l'abolizione dell'articolo 18 possa, al massimo, avere effetti sostitutivi sull'occupazione esistente. Mentre è del tutto da escludere un suo miracoloso aumento. Si capisce bene allora che, impegnare tempo ed energie per conquistare lo scalpo dell'articolo 18, diventa nient'altro che un diversivo rispetto ad alcuni irrisolti problemi del Sud. A cominciare dagli interventi indispensabili alla creazioni di migliori condizioni ambientali e strutturali. Innanzi tutto, si dovrebbe infatti riconoscere che, dove la criminalità organizzata dilaga, dove manca l'acqua, dove permane un pesante deficit infrastrutturale, dove la pubblica amministrazione funziona poco e male, dove il sistema formativo non è sempre attrezzato per produrre professionalità di eccellenza, o comunque adeguate, è piuttosto arduo che si sviluppi un ambiente attrattivo per l'insediamento di nuove imprese. Tanto più per imprese innovative, con produzioni ad alto contenuto tecnologico e di qualità. Cioè soprattutto quelle che consentono di competere con gli altri paesi economicamente avanzati.
 
Il Sud non ha bisogno di altre bufale. Ha bisogno semmai di essere aiutato a sciogliere i suoi nodi. O perlomeno di incominciare ad attuare interventi che possono migliorare la situazione, area per area. Anche perché nemmeno il mezzogiorno è tutto uguale. Non è un'area omogenea di sottosviluppo. Nelle scorse settimane, la Svimez (utilizzando i dati Istat) ha stilato la graduatoria della distribuzione provinciale degli 882.000 occupati in più realizzati negli ultimi due anni. La cosa che sorprende dell'elaborazione Svimez non è tanto di trovare in testa a questa speciale graduatoria Trieste e Reggio Emilia (rispettivamente con +13,2 e +13,1 per cento), quanto piuttosto di trovare al terzo posto Catanzaro (+12,6 per cento), con un aumento di 12 mila posti di lavoro. In valore assoluto, addirittura leggermente di più di quelli che sono stati creati a Trieste. La sorpresa è anche di trovare al quarto posto Enna, che ha messo a segno un aumento degli occupati del 12,4 per cento. Con il risultato che il suo tasso di disoccupazione (che era il più alto d'Italia con il 32,4 per cento) è arretrato al 23,2.
Livello che, ben inteso, rimane assolutamente intollerabile, perché vuol che una persona su quattro non ha lavoro. Infine, la sorpresa nella graduatoria Svimez, è di trovare al sesto posto Palermo, all'undicesimo Caserta, al dodicesimo Avellino, al quindicesimo di Crotone. Piazzamenti indicativi del fatto che, sia pure a fatica, anche alcune zone del Sud incominciano a mettersi in movimento.
 
Ovviamente, alcune positive novità inattese non oscurano una negativa realtà diffusa. Nel mezzogiorno i senza lavoro continuano a restare moltissimi. Impressiona il dato di Reggio Calabria, dove la disoccupazione è al 30,3 per cento. Questo vuol dire che una persona su tre non trova un lavoro, mentre a Lecco sono meno di due su cento ed a Mantova addirittura uno su cento. Colpisce soprattutto il 26,4 di senza lavoro a Napoli che, in valori assoluti, corrisponde a 284 mila disoccupati. Tanti quanti ce ne sono in tutto il Nord-Ovest. Cioè in Piemonte, Valle d'Aosta, Liguria e Lombardia messe assieme.
 
Malgrado alcuni cambiamenti, il mercato del lavoro resta quindi profondamente divaricato. Siamo infatti di fronte ad una sostanziale piena occupazione al Nord ed una diffusa disoccupazione al Sud, intollerabilmente elevata in certe aree. In questa situazione chi accredita l'idea che le difficoltà alla nascita ed alla crescita delle imprese debba essere ricondotta all'articolo 18 dello Statuto, dovrebbe almeno avere l'amabilità di spiegare perché la medesima norma avrebbe la singolare proprietà di produrre effetti diversi. Non solo tra Centro-Nord e Sud, ma persino tra differenti aree nel Mezzogiorno. Finora però nessuna offensiva propagandistica è riuscita a chiarire questo "mistero". Perciò, a chi sostiene che una mutilazione dell'articolo 18 possa produrre maggiore crescita economica e dell'occupazione, anche in aree oppresse da gravi ed irrisolti problemi strutturali, non si può fare altro che rivolgere la stessa ironia che Oscar Wilde indirizzava agli anglicani del suo tempo: "...almeno Pio IX ci propone di credere nell'impossibile, voi ci chiedete invece di credere nell'improbabile!".
 
Le scelte di Berlusconi fra la Thatcher e Pomicino
C'è però da supporre che non siano moltissimi, nemmeno tra i dignitari del Palazzo, coloro che credono davvero nell'improbabile. Essi sanno infatti benissimo che le misure prospettate dal governo, più che ad una logica economica, rispondono ad una logica politica. Il loro obiettivo vero è infatti quello di rimettere in causa gli equilibri politico-sociali esistenti. Incominciando a ridurre il ruolo delle organizzazioni sindacali sul lavoro ed accrescendo parallelamente il potere discrezionale delle aziende.
 
Naturalmente, non c'è nulla di scandaloso e tanto meno di illegittimo nel fatto che un governo di destra intenda perseguire una politica di destra. La storia contemporanea non difetta certo di precedenti. Tra i più noti e significativi c'è sicuramente quello di Margaret Thatcher, premier inglese degli anni '80. Berlusconi non ha mai fatto mistero di essere un suo devoto. Non sorprende quindi che si proponga di seguirne le orme. Berlusconi però non è un semplice clone della Thatcher. Infatti, nelle scelte del suo governo (oltre ad obiettivi personali che gli sono particolarmente cari, come la giustizia e la Rai) si coglie l'impronta non solo della Thatcher, ma anche quella di Cirino Pomicino. Dalla Thatcher ha preso in prestito l'armamentario ideologico, l'insofferenza per le critiche, il disprezzo per gli oppositori. Mentre di Cirino Pomicino imita le spericolate politiche di bilancio ed il gioco delle tre carte applicato alla finanza pubblica. Quindi il berlusconismo non è solo thatcherismo. E' anche altro.
 
Tuttavia, diversi commentatori hanno visto nell'iniziativa del governo sull'articolo 18 soprattutto le stigmate della cultura politica thatcheriana. In effetti ci sono delle analogie. Ma ci sono anche alcune significative differenze. Se infatti è vero che anche la Thatcher ha sfidato apertamente il sindacato, è però altrettanto vero che, nel suo caso, il motivo del contendere non era solo strumentale. Ma, al contrario, piuttosto concreto. La Thatcher era infatti alle prese con la necessità di ristrutturare una industria carbo-siderurgica decotta e protetta, e risolvere così una crisi altrimenti mortale per l'economia britannica. Niente a che vedere quindi con la sfida lanciata da Berlusconi sull'articolo 18, soprattutto per dimostrare all'ala oltranzista della Confindustria di che pasta lui è fatto. Per di più la concezione e la pratica del sindacalismo confederale italiano non ha nulla in comune con quella del sindacato dei minatori inglesi dell'inizio degli anni ottanta. Cofferati non è un tardo epigono di Scargil. Tant'è vero che se l'Italia è riuscita ad entrare nell'Euro lo si deve, in larga misura, alle coraggiose scelte di moderazione del sindacato. A cominciare da quello guidato da Cofferati.
 
L'idea ossessiva dell'"arretramento dello Stato"
Queste differenze non sembrano però turbare Berlusconi, che del thatcherismo sembra interessato a mutuare soprattutto l'ideologia. A mutuare, in primo luogo, l'idea ossessiva di un "arretramento dello Stato". Non solo, o non tanto, dalla vita economica (considerato che il capitalismo italiano non ha mai amato molto la concorrenza ed il rischio), quanto piuttosto dal ruolo di garante degli equilibri sociali, in funzione dell'equità e della giustizia. Non dice, come la Thatcher, che: "la società non esiste, esistono soltanto gli individui". Ma è piuttosto evidente che lo pensa. Tradotta nel concreto della vita quotidiana, questa formula significa infatti che il progresso economico non è un tapis roulant che può portare tutti, ma una maratona dove il gruppo si sgrana. Chi non ce la fa, chi resta indietro, a causa delle diseguaglianze di opportunità, di reddito, di potere, deve rassegnarsi. Se infatti si prescinde dai rapporti tra Società e Stato, se si prescinde dal rapporto tra dialettica sociale e sintesi politica, quello che alla fine resta in campo è soltanto la cinica regola: "ognuno per sé e Dio per tutti".
 
In secondo luogo anche Berlusconi assume come riferimento la cosiddetta "politica dell'offerta". Tradotta in soldoni vuol dire: "meno tasse e meno diritti". Perché tutti i diritti costano e se si riducono le tasse non si capisce come possano essere finanziati. Per di più, avendo deciso di ampliare i "diritti di proprietà" (come conferma la fulminea abolizione delle imposte sulle successioni e sulle donazioni) è evidente che "meno tasse" non può che significare soprattutto "meno diritti sociali".
 
Si può certamente osservare che, nel panorama internazionale, questo tipo di approccio ai problemi non è un requisito esclusivo del governo Berlusconi. La tendenza, più o meno radicale, a contrapporre le "politiche dell'offerta" a quelle della "domanda" è stata infatti una costante del pensiero e dell'azione dei governi neoliberisti. Specialmente degli ultimi due decenni. C'è però da dire che, negli ultimi tempi (soprattutto dopo i tragici fatti dell'11 settembre e le conseguenti preoccupazioni per la congiuntura internazionale) anche diversi neoliberisti, o "conservatori compassionevoli" come alcuni di loro amano autodefinirsi, hanno incominciato a rivalutare il ruolo della politica e dello Stato. Evidentemente l'eco di questi ripensamenti non deve essere ancora arrivata fino alla destra italiana.
 
In ogni caso, è bene ribadirlo, non c'è nulla di stupefacente nel fatto che un governo di destra si rifaccia alla tradizione culturale della destra, esprimendo intenzioni e progetti di destra. Anche quando possono apparire anacronistici od inadeguati. Quello che, caso mai, stupisce è che il governo italiano, da un lato, si proponga di: introdurre la libertà di licenziamento individuale senza alcun giustificato motivo; di destrutturare ulteriormente il mercato del lavoro; di perseguire la competitività, non stimolando l'innovazione, ma erodendo le basi della contrattazione; di assumere come motore del "progresso" crescenti diseguaglianze di diritti e di reddito; e, dall'altro, si lamenti che simili propositi producono una sempre più estesa reazione sociale e politica. Si compianga perché i problemi tendono a diventare più gravi, i conflitti più acuti, le soluzioni più difficili. Reagisca sdegnato di fronte al crescere delle preoccupazioni ed ai contrasti che esse determinano. Non solo in ordine al destino economico e sociale del paese, ma anche alle sue prospettive democratiche.
 
Dalla maggioranza una singolare concezione della democrazia
Preoccupazioni e reazioni che, sia detto per inciso, non implicano timori di un "tracollo" della democrazia. Nessuno infatti intravede alcun pericolo, né prossimo né remoto, che sia abolito il diritto di voto, o che vengano incarcerati gli oppositori. Ci mancherebbe altro! Ma questo non significa che non esista un rischio concreto di regresso della democrazia. Anche senza considerare il problema cruciale del monopolio televisivo nelle mani del capo del governo (questione che, da sola, può alterare profondamente il gioco democratico) ciò che inquieta molti e spinge un numero crescente di persone a reagire è la singolare concezione democratica che viene espressa da gran parte della maggioranza di governo e da alcuni suoi leaders. Concezione che considera irrilevante il principio che, in un sistema di democrazia pluralista, la conquista della maggioranza dà il diritto di governare, ma non il potere di comandare. Anche perché le società complesse e fortemente strutturate (come sono le società moderne) possono essere governate solo se si rispetta e si garantisce il pluralismo. Rispetto che si fatica a ritrovare in affermazioni perentorie del tipo: "gli italiani ci hanno dato la maggioranza ed abbiamo il diritto di decidere", con le quali i rappresentanti più in vista del governo pretenderebbero di poter ghigliottinare sbrigativamente critiche e conflitti.
 
Viene da pensare che buona parte della destra italiana non si renda ancora conto che, come ogni assolutismo, anche la sovranità parlamentare assoluta si è dissolta. Si è dissolta perché ovunque (nei paesi democratici s'intende!) ha dovuto fare i conti con una pluralità di ordinamenti e di poteri. Ha dovuto fare i conti con la forza originaria delle autonomie sociali, come di quelle territoriali. Ha dovuto fare i conti con un sistema di pesi e contrappesi democratici, che costituiscono la garanzia del pluralismo. La centralità del parlamento non è affatto scomparsa. Ma essa è sempre più chiamata a qualificarsi, oltre che su questioni che riguardano specifiche competenze dello Stato (la cittadinanza, la bioetica, la sicurezza, la difesa, la giustizia, le imposte, il bilancio, ecc.), in una funzione ordinante delle diverse aut
Lunedì, 6. Maggio 2002
 

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