Aria nuova tra gli economisti: il welfare non è uno spreco

Sono sempre di più gli studiosi che contestano e confutano il dogma liberista che contrappone efficienza economica e Stato sociale. "La politica sociale è più di un semplice onere finanziario. E’ un fattore produttivo che contribuisce alla stabilità politica e alle dinamiche economiche"
"E' ben noto che imposte e trasferimenti più alti riducono la produttività. Ben noto, ma non dimostrato né dalla statistica né dalla storia". Peter Lindert (2004 vol.1: 227) ha ragione: esiste una credenza diffusa sul ruolo disincentivante e negativo del welfare rispetto alla crescita economica e alla competitività internazionale, ma la teoria evidenzia differenti effetti secondo le differenti ipotesi sul ruolo della spesa sociale, mentre le analisi empiriche portano a risultati non conclusivi, spesso non significativi o, al contrario, irrealistici. Le rassegne più recenti non mostrano nessuna evidenza teorica o empirica del supposto trade-off tra equità sociale ed efficienza economica (Atkinson 1999: cap.2, Lindert 2004 vol.2: 82-99).

E allora perché l'idea del trade-off è così diffusa e accettata, anche senza dimostrazioni empiriche o analisi teoriche univoche? Una possibile ragione è che si fonda su ipotesi di base estremamente semplici e accattivanti, che delineano un mondo teorico facile da comprendere e da analizzare, rispetto alla ben più complessa realtà nella quale viviamo. Vediamo quali sono queste ipotesi e come potrebbero essere ribaltate, portando linfa a una visione più ampia e alternativa delle relazioni tra fenomeni sociali ed economici, fino a delineare un nuovo paradigma economico.

Nel mainstream economico equità sociale ed efficienza produttiva sono legate dal trade-off formalizzato per primo da Okun (1991). Welfare ed equità sociale sono in contrapposizione con l'efficienza economica, e più si aumentano i primi più si riduce la seconda. Ciò è fondato sull'idea che gli incentivi economici dal lato dell'offerta di beni e servizi permettono di raggiungere gli obiettivi di efficienza economica, e questi a loro volta si diffondono garantendo la giustizia sociale, grazie alla diffusione dei benefici della crescita (trickle down). La ricerca dell'equità tramite intervento pubblico riduce invece il reddito nazionale e l'uso efficiente delle risorse, danneggiando proprio i destinatari dell'aiuto. Lo stato sociale è come un buco nero, un secchio bucato nel quale si disperdono le risorse accumulate dalla crescita economica, riducendo le dimensioni della "torta" mentre si cerca di rendere eque le "fette".
 
Tale posizione porta alla conclusione che dalla riduzione della protezione sociale può derivare la crescita della competitività. Anzi, nel nostro mondo globale e informatizzato il welfare è sempre più difficile da finanziare con un sistema fiscale nazionale soggetto alla mobilità del capitale e delle imprese al di là dei suoi confini, e capace solo di fissare autonomamente la tassazione sui redditi poco mobili come il lavoro. Si dovrebbe allora limitare la spesa pubblica e delegare compiti alla libera contrattazione di mercato, che per di più, se liberato dai costi fiscali e dai vincoli regolativi, potrebbe meglio ridurre i disincentivi, accrescere gli incentivi e favorire la crescita economica e di conseguenza il soddisfacimento dei bisogni sociali.
 
Oggi molti autori stanno fornendo contributi importanti per superare tale visione limitata delle relazioni tra equità ed efficienza, confutando le ipotesi principali su cui si fonda: la separazione tra fenomeni sociali ed economici, il ruolo di trasferimento improduttivo attribuito alla spesa sociale, l'ottica di breve periodo legata a una competitività essenzialmente di prezzo, il cambiamento tecnologico come vincolo alla spesa sociale. Esistono crescenti prove delle mancanze del mainstream economico, che si è concentrato sull'idea del trade-off tra equità ed efficienza mantenendo separate l'economia e la società, e leggendo nel welfare state solo l'aspetto della redistribuzione ("Robin Hood") e non anche l'aspetto dell'efficienza ("Piggy Bank") (Barr 2001).

I nuovi approcci e le nuove teorie degli ultimi anni mostrano che esistono relazioni molto più complesse tra le variabili economiche e sociali: "La relazione tra equità ed efficienza è molto più complessa rispetto alla visione tradizionale di un inevitabile trade off. Il mercato dei capitali e altre imperfezioni forniscono ragioni sufficientemente valide per ipotizzare che la redistribuzione può in alcune circostanze favorire la crescita: equità ed efficienza possono andare insieme" (Boadway e Keen 2000: 778). Sappiamo che il trickle down non è scontato, come dimostra la crescita della disuguaglianza nei paesi sviluppati negli ultimi 30 anni, nonostante la loro crescita economica, tanto che qualche autore ha proclamato la fine di questa idea: "(…) la crescita economica non si traduce più in maggiore occupazione o più alti salari per gran parte della forza lavoro. Chiaramente, il trickle-down è morto" (Mishra 1999: 33).

E sappiamo che il sistema economico, da solo, non può garantire l'uguaglianza tra domanda aggregata e offerta di beni e servizi al livello di pieno impiego delle risorse, in quanto le ipotesi alla base della concorrenza perfetta non valgono in una realtà dove esistono avversione al rischio, second best, incertezze e asimmetrie informative. Esistono rischi non controllabili dall'individuo, ma non esistono mercati per ogni rischio, e quindi, se ben disegnate, le indennità di disoccupazione non aumentano la disoccupazione naturale, l'assistenza sociale non riduce la partecipazione alla forza lavoro, le pensioni a ripartizione non limitano l'accumulazione di capitale (Barr 2001: cap.2, Atkinson 1999: cap.1, Acocella e altri 2004: cap.6, Pennacchi 2004: 207-212).

Separando società ed economia, la protezione sociale viene ridotta a una redistribuzione di reddito da classi produttive a classi improduttive della popolazione, per esempio dai lavoratori ai pensionati oppure dagli individui di successo agli altri. In tali modelli non esistono le altre funzioni della spesa sociale (assicurazione ed efficienza), anzi a volte l'efficienza è dichiaratamente scartata dall'insieme degli obiettivi del welfare, che sembrerebbe limitato alla lotta contro la  disuguaglianza e l'esclusione sociale. Artoni (1999: 15) ha mostrato che "(…) in questi modelli la spesa sociale è totalmente improduttiva (ha gli stessi effetti della spesa dei sovrani e delle corti settecentesche, su cui si soffermava Smith). Si ignora quindi totalmente la natura efficientistica, di superamento dei fallimenti di mercato, che deve essere riconosciuta alla spesa sociale".

Alcuni sociologi ed economisti hanno provato a ribaltare questa posizione, ragionando invece sul ruolo del sistema di welfare come fattore produttivo per l'economia, mediante numerosi approcci differenti ma complementari, quali i costi della non politica sociale (Begg et al. 2003, Fouarge 2003), le varietà del capitalismo (Hall e Soskice 2001, Pierson 2001), il capitale sociale (Sabatini 2004), la propensione al rischio (Sinn 1996, Bowles e Gintis 2000), la stabilità socio-politica e macroeconomica (Iversen 2001, Castells e Himanen 2002). E' possibile così analizzare il welfare come un "investimento sociale" di lungo periodo che, come ogni altro tipo di investimento produttivo, viene finanziato oggi per ottenerne benefici nel futuro più o meno prossimo. La spesa sociale non è vista più solo come consumo o redistribuzione, ma anche come un elemento decisivo nel fornire al sistema economico i fattori produttivi dei quali necessita, in cambio di imposte e contributi (Esping Andersen 2002: 9-10, 2003: par. 4).

Anche ammesso quanto sopra, la globalizzazione potrebbe comunque imporre una riduzione della spesa sociale per poter efficacemente contrastare la crescente competizione internazionale. Ma ciò sarebbe vero solo considerando una definizione di competitività settoriale, ossia la capacità di esportare in mercati globali concorrenziali, che può derivare da un aumento di efficienza nella produzione o della qualità del prodotto, ma anche dalla riduzione dei salari, dal deprezzamento del cambio, dalle delocalizzazioni produttive. E' chiaramente una definizione più rilevante per la singola impresa o settore, perché si realizza soprattutto nel breve periodo grazie alla riduzione dei prezzi delle esportazioni, e trascende dagli effetti sul resto dell'economia. Con questa ottica si arriva a parlare di dumping sociale, un concetto fondato appunto su breve periodo e competitività di prezzo (Acocella et al. 2004: 175-176).

Se invece il nostro orizzonte temporale si allunga e l'orizzonte spaziale si allarga all'intera economia, l'obiettivo diventa la crescita della competitività strutturale, cioè la capacità di garantire nel lungo periodo redditi elevati e crescenti in economie esposte alla concorrenza internazionale (Gough 1996). Essa richiede l'aumento di qualità e innovazione nel processo produttivo, tramite sistemi socio-economici più avanzati, ed è quindi una definizione più rilevante per l'economia nel suo complesso. Se un paese avanzato fonda la sua crescita più sulla ricerca della competitività di qualità che di prezzo, i fattori di tale competitività dipendono dalla disponibilità di strumenti di protezione sociale che favoriscano un maggiore capitale umano (accompagnato da politiche industriali più efficaci), una maggiore diffusione di reti di sicurezza che incentivino l'assunzione dei rischi connessi alle attività innovative, una più equa ripartizione intergenerazionale dei rischi dei trasferimenti pensionistici (Pizzuti 2005: 5-9, 31-32).
 
Al contrario la contrazione della spesa sociale, in particolare in Italia, "(…) innesca un circolo vizioso: il contenimento dei costi viene ottenuto riducendo le risorse impiegate nella formazione di capitale umano, nelle assicurazioni e negli ammortizzatori sociali, che sono i presupposti dell'innovazione; lo stesso effimero successo nel contenimento dei costi allenta lo stimolo a perseguire la competitività percorrendo vie più strutturali ed efficaci; dunque si consolidano le cause dell'arretratezza del sistema produttivo" (Pizzuti 2005: 28). Le scelte di politica economica non possono quindi fondarsi in modo miope solo sui costi e i benefici del welfare nel breve periodo, poiché tramite differenti canali il welfare risulta essere un investimento che impone costi di finanziamento immediati, ma che allo stesso tempo, se ben disegnato, permette benefici differiti nel tempo.

Legati alla globalizzazione vi sono i cambiamenti tecnologici, che stanno trasformando i processi produttivi in forme nuove, rendendo forse anacronistica un'estesa protezione sociale in un sistema che invece richiederebbe incentivi a lavorare, investire e produrre, in modo da accrescere la produttività. Abbiamo però già evidenziato come la partecipazione al lavoro, la propensione al rischio, le capacità innovative e creative vengano invece favorite proprio da un sistema di welfare ampio ed efficace. Inoltre, gli effetti positivi dei cambiamenti tecnologici compaiono solo a seguito dell'interazione fra tre fattori complementari: elevato capitale "digitale", migliore capitale umano e paralleli e coerenti cambiamenti organizzativi. Solo se cambiano opportunamente le modalità di lavoro e di gestione delle imprese, una forza lavoro maggiormente qualificata è in grado di sfruttare efficacemente le nuove opportunità offerte dall'informatica, riducendo così i costi di produzione e aumentando la produttività dell'intera economia, come è successo negli Stati Uniti nel corso degli anni 90 e non è ancora accaduto in Italia (Rossi 2003).

Lo stesso discorso che vale per una singola impresa vale anche per la società nel suo complesso, che godrà dei benefici dell'informatizzazione solo nella misura in cui riesce a cambiare le modalità di apprendimento dei suoi componenti, i criteri di selezione della forza lavoro, gli obiettivi verso i quali orientare le proprie risorse, il grado di apertura agli stimoli e alle sfide del resto del mondo. Il cambiamento tecnologico, di per sé, non pone un vincolo sulla capacità di spendere per il welfare. La domanda giusta da farsi riguarda quale sistema di welfare sia adeguato ai cambiamenti organizzativi necessari, ed è la domanda a cui tentano di rispondere alcuni recenti lavori, da cui si comprende che l'elemento centrale è la qualità del tessuto sociale, culturale, politico e religioso, più o meno adatto a sfruttare le opportunità del mondo globale e informatizzato e di minimizzarne i rischi.
 
Rodrik e altri (2004) affermano fin dal titolo la maggiore importanza, al fine di spiegare la crescita e lo sviluppo economico, della qualità delle istituzioni rispetto alle condizioni geografiche e al grado di integrazione economica con il resto del mondo. Castells (2000: 256) sostiene un concetto analogo: "Dovrebbe essere evidente, dopo decenni di ricerca nella sociologia dello sviluppo, che i processi di crescita economica e di trasformazione strutturale si fondono nelle istituzioni, sono orientati dalla cultura, sostenuti dal consenso sociale, configurati dal conflitto sociale, discussi dai politici e guidati da politiche e strategie".
 
Queste considerazioni contribuiscono a comprendere perché vari paesi riescono a coniugare gli obiettivi sociali egualitari con gli obiettivi economici della crescita, favoriti proprio da un sistema di welfare di tipo socialdemocratico (Goodin e altri 1999: 259-262). Nelle parole di Lindert (2004 vol.1: 234) "Il fatto più notevole riguardo ai costi dello stato sociale è che essi non appaiono. Tali costi emergono solo quando i dati vengono estrapolati oltre l'estensione della serie storica, oltre l'esperienza storica effettiva. Nei limiti dell'esperienza storica reale, non esiste nessun chiaro costo sul Pil di più elevati trasferimenti sociali". E il Rapporto sull'innovazione in Europa (2003) afferma che "Indipendentemente dalla spiegazione, è evidente che un'elevata equità non interferisce né con elevati Pil pro capite né con elevate capacità innovative (…)".

Atkinson (2002: 25-27) spiega come le verifiche degli effetti economici del welfare darebbero risultati diversi qualora fosse seguito un differente metodo di analisi: una prospettiva storica che tenga conto del fatto che gli Usa, oggi considerati l'esempio da seguire, negli anni 80 erano in crisi rispetto al modello renano e a quello giapponese; un modello teorico che incorpori le contingenze per le quali lo stato sociale esiste (eterogeneità ex ante ed ex post tra gli individui); un'analisi dei dettagli istituzionali dei programmi sociali; una distinzione tra effetti generali della spesa pubblica (se è eccessiva si possono anche ridurre le spese non sociali, come quelle militari) ed effetti specifici della spesa sociale (su cui si può intervenire modificandone la struttura).

Anche gli argomenti filosofici e libertari contro lo stato sociale sono posti in forte discussione dai concetti di capacità e funzionamento, utilizzando i quali il welfare in quanto tale è una fonte di benessere perché permette più libertà di scelta e di partecipazione economica, sociale e politica per gli individui (Sen 1994: cap.3). In questo modo le imposte e i contributi che finanziano la spesa sociale perdono la connotazione di "esproprio", tipica delle crociate anti-tasse, per essere invece commisurati ai beni collettivi e ai legami di cittadinanza che creano, per essere valutati come corrispettivi delle prestazioni sociali conseguite (Atkinson 1999: 63-65, Pennacchi 2004: cap.1-5).

In altre parole, comincia ad essere seguita una visione ampia e alternativa dei fenomeni socio-economici, tanto che qualcuno parla, sulla base delle teorie di Sen (1994, 2000), di un nuovo "paradigma dello sviluppo umano", fondato sull'individuo membro di una collettività mutuamente interdipendente, sull'uguaglianza come prerequisito di equità e reciprocità, sulle imposte come contributo al benessere collettivo, sulla spesa pubblica come strumento di efficienza, sulla non contrapposizione tra uguaglianza e libertà (Pennacchi 2004: cap.7).
 
L'obiettivo della semplice crescita economica cede così il posto all'espansione delle libertà reali quali veri fini dello sviluppo. Quelle politiche economiche e sociali che sarebbero dannose in un mondo dove valgono le ipotesi semplificatrici neoliberiste, risultano invece benefiche, tanto da poter dire che "La politica sociale è più di un semplice onere finanziario. E' un fattore produttivo che contribuisce alla stabilità politica e alle dinamiche economiche" (Fouarge 2003: 35) e che "(…) nella nuova economia, investire nel sociale significa allo stesso tempo investire in produttività" (Castells 1996: 48).

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Lunedì, 10. Ottobre 2005
 

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