Appetiti incontrollati

Sono quelli che le multinazionali del 'fast food' cercano di indurre nei consumatori: ma anche quelli che, nella logica del massimo profitto, fanno loro trascurare tanto le condizioni dei lavoratori che gli effetti del cibo che propongono
Non ho mai nutrito simpatia per i fast food, ed una visita al sito di McDonald's Italia consolida questa opinione. Alcune pagine sono dedicate al lavoro in azienda, con l'evidente intento di dipingere un ambiente ideale, carico di promesse per l'aspirante dipendente. In particolare una serie di domande, che sollecitano e prevedono scontate risposte affermative, sono delle autentiche perle, un cumulo di corbellerie. Queste domande meritano risposte diverse da quelle attese dagli psicologi del lavoro aziendali. Aspiri ad un lavoro di responsabilità? Si, sono convinto che l'impiego nei vostri fast food sia ad alto contenuto professionale, la complessità e l'impegno richiesti per la cottura di un hamburger ne sono una chiara prova. Ti piace far sorridere i bambini? Certo, è bello vederli contenti e ilari, ma voi siete addirittura raggianti quando riuscite a fidelizzarli, piccoli clienti che non vi tradiranno mai, nemmeno da adulti. Vuoi divertirti? Si, ma vi esorto a non confondere fischi con fiaschi. La regola generale che stabilisce una netta dicotomia tra lavoro e divertimento è una verità indiscutibile per i vostri dipendenti. In altre parole, porre nella friggitrice una porzione di patatine scongelate non può essere definita un'attività divertente, sarebbe un'affermazione ridicola e insensata.

Secondo i dati forniti dall'azienda sono 330 i McDonald's sparsi per la penisola, di cui l'80% è gestito in franchising. Il numero dei dipendenti e l'afflusso annuo di clientela, rispettivamente 16000 e 180 milioni, dimostrano come anche in Italia la multinazionale del fast food sia una realtà solida. Naturalmente, la struttura organizzativa nel Bel Paese è identica a quella delle 115 nazioni in cui è presente McDonald's: si tratta di un'azienda che opera a livello globale secondo la concezione tayloristica della catena di montaggio. Un meccanismo produttivo che, applicato alla ristorazione, finisce per triturare insieme clienti e dipendenti. Il risultato, davvero poco appetibile, è un gigantesco hamburger i cui ingredienti principali sono l'omologazione del gusto e lo sfruttamento della forza lavoro. Per fugare ogni dubbio, sentiamo la voce dei protagonisti.

Giulia oggi lavora in un call center ed è attiva nel CUB TIM Torino, ma la sua prima esperienza lavorativa l'ha fatta in McDonald's. Inizia col dire che lì ha "scoperto il senso della parola sfruttamento", poi precisa meglio il suo pensiero. Afferma l'esistenza di un legame tra ambienti di lavoro solo in apparenza diversi. In primo luogo fast food e call center hanno in comune il clima, una greve miscela di termini anglosassoni e autoesaltazione, che raggiunge l'apice nelle convention. Simile è anche il comportamento di chi esercita il controllo, in genere bonario e condiscendente ma capace d'improvvisi mutamenti, scatti d'ira che umiliano e riducono al silenzio il sottoposto. In conclusione, Giulia dice che "non ci sono differenze tra coloro che si bruciano le mani con l'olio bollente di una friggitrice industriale e chi, invece, si cuoce i timpani attaccato ad una cuffia".
 
Renato ci racconta un'altra storia, parla di un centro commerciale che include un McDonald's. Non sappiamo dove sia ma è un dettaglio di poco conto, tanto sono tutti uguali, a qualsiasi latitudine. E' una grande struttura, occupa cento persone, Renato è uno di loro. Superato il periodo di prova, lo assumono con un contratto part-time di 30 ore settimanali. Bastano pochi mesi per dichiararsi insoddisfatto: "orari troppo flessibili, richiami dei responsabili continui, continui soprusi alla dignità della persona…". Un giorno matura una scelta, s'iscrive alla Fisascat/Cisl. E' una mosca bianca, oltre a lui non vi sono altri iscritti al sindacato. Viene emarginato e destinato alle mansioni peggiori, ma il suo esempio è contagioso. Altri due colleghi s'iscrivono poi, nei successivi due anni, il numero delle adesioni aumenta ancora. A novembre 2004 si arriva a venticinque iscritti, l'azienda ora preferisce trattare, ha perso un po' della sua arroganza. Renato, oggi delegato sindacale, conclude il racconto con la speranza che la sua esperienza si realizzi in altri McDonald's, possa far capire ad altri che "ai soprusi ci si deve ribellare".

Il passo successivo svela l'analogia tra un allevamento di oche in Lomellina e la diagnosi di un gastroenterologo a New York. A est del fiume Po, in territorio lombardo, si entra nella Lomellina, una delle zone italiane d'eccellenza per la produzione del fegato grasso d'oca. La scelta dell'allevamento è ininfluente, quando ne varchi la soglia assisti ovunque alla stessa scena. Le oche sono tenute in gabbie di venticinque centimetri per quindici e tre volte al giorno subiscono il gavage, un'alimentazione meccanica che introduce il cibo attraverso un tubo infilato nel becco. Dopo circa un mese, ridondante di grasso, il fegato dell'animale arriva anche a superare il chilogrammo di peso. Il (presunto) buongustaio che lo mangerà forse ignora che la Direttiva Europea 98/58, disattesa da Italia, Francia e Germania, vieta l'alimentazione forzata e la spiumatura, senza contare che il patè d'oca contiene l'85% di grassi e aumenta il tasso di colesterolo.

Dall'altra parte dell'oceano, Morgan Spurlock è reduce da una singolare esperienza. Nonostante le proteste della sua fidanzata, uno chef vegetariano, ha deciso di nutrirsi per un mese solo da McDonald's. Tre volte al giorno: colazione, pranzo e cena. Il risultato è disastroso. Non solo Morgan aumenta il suo peso di 25 libbre, ovvero 11 chili, ma il rapporto medico è preoccupante: colesterolo alle stelle, difficoltà respiratoria, emicranie, dolori toracici e caduta della libido. La diagnosi finale la emette il gastroenterologo. "Your liver is sick. It's like a patè. Stop it!", ossia il tuo fegato è malato, ridotto come un patè, fermati. A scanso di equivoci, va detto che Morgan Spurlock non intendeva condividere il triste destino delle oche d'allevamento, ma documentare la sua esperienza con un film, Supersize Me.

Alcuni osservatori hanno bollato la pellicola come un attacco gratuito all'azienda leader nel settore fast food. Alfredo Pratolongo, direttore della comunicazione di McDonald's Italia, sostiene invece che "il film punta sul sensazionalismo, un elemento poco utile all'educazione". In entrambi i casi, le critiche rivolte al lungometraggio di Spurlock denotano una visione parziale del fenomeno. Supersize Me non è un atto d'accusa unidirezionale, il marchio McDonald's viene scelto  perché ben rappresenta l'intera industria del junk food, il cibo spazzatura. Lo spettatore è cosciente che un'identica strategia accomuna il colosso di Chicago alle altre aziende del settore.
 
In una parola, abituare i consumatori ad un menu ridotto, limitato a pochi piatti di facile e rapida esecuzione. Poco importa la qualità, meglio puntare sul binomio bassi prezzi e alto contenuto in grassi e calorie. Su questo piano, la battaglia per il predominio la vince chi offre i panini più iperbolici. I casi che sto per citare provengono dagli Stati Uniti, ma non dimentichiamoci che, secondo molti opinionisti, nell'arco di un decennio dati e mode americane emigrano in Italia.

Ha iniziato Hardee's col proporre il Monster Thickburger, un panino  con due hamburger separati da svariate fette di formaggio e pancetta affumicata. I valori nutrizionali sono impressionanti: 1420 calorie, 107 grammi di grassi, 229 milligrammi di colesterolo. La risposta di Burger King non si è fatta attendere. Il lancio dell'Enormous Omelet Sandwich ha ridotto all'essenziale il rito della colazione: un solo panino da 730 calorie, imbottito con due omelette, una salsiccia, tre fette di bacon e due fette di formaggio, sostituisce un'intera e copiosa colazione. Perché affannarsi a preparare il caffè e spalmare la marmellata su fragranti fette di pane? Meglio divorare in fretta un panino, così non sottrai tempo prezioso al lavoro che ti aspetta.

In pratica, la ricetta che ha decretato il successo delle multinazionali del fast food è semplice: standardizzazione dei cibi e dei luoghi in cui lo si consuma. Ovunque nel mondo, il cliente non ha sorprese. I cibi sono sempre gli stessi, le tradizioni gastronomiche nazionali vengono ignorate. L'arredo dei locali è studiato per garantirne la riconoscibilità, colori violenti e sedie scomode invitano ad un consumo rapido. Dappertutto il cliente è accolto con un sorriso stereotipato, un vero e proprio dovere contrattuale. Ora, non pochi si alzeranno in piedi per dire che un simile modello non può avere fortuna nel nostro paese. Un'opinione rispettabile, mi piacerebbe condividerla, ma ascoltate il parere del prof. Eugenio Del Toma, autore del libro Il gourmet di lunga vita: "Noi siamo difesi da una tradizione del mangiare più radicata, ma quando i potentissimi mezzi della comunicazione bombardano i ragazzi all'acquisto di certi prodotti la tradizione ha poca influenza".

Non vi è dubbio alcuno che l'industria del cibo spazzatura agisca per indurre un appetito spropositato nel consumatore, un appetito che trascende le necessità fisiologiche e sconfina nella patologia, una fame psichica difficile da alleviare. Di pari passo, appare altrettanto evidente l'appetito incontrollato delle multinazionali nella logica di accrescere il profitto.
Venerdì, 13. Maggio 2005
 

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