Appello ai delegati al Congresso Pd

Ai delegati al Congresso del Partito Democratico

 

Non basta il voto a fare una vera democrazia

 

Il disamore, il fastidio per la politica e per le forze politiche, non è un’invenzione. E’una cosa che c’è. Nasce dalla percezione delle difficoltà con cui tanti sono alle prese, e da uno scetticismo, non sempre immotivato, sulla sincerità delle intenzioni, sulla natura fatua di gran parte delle parole elargite dalla politica. Eppure non c’è altra strada  per dare voce ed espressione ad un bisogno di rinnovamento, ad una domanda di giustizia, all’esigenza di ricostruire assieme  le regole di una convivenza comune, il senso di una sorte condivisa.

Per questo la sorte del PD riguarda tutti. Compresi coloro che non vi aderiscono o non l’hanno votato. Per l’ovvia ragione che la sua tenuta ed il suo rafforzamento sono utili anche a rendere meno fragile l’attuale bipolarismo. Tanto più che il ritorno alla vecchia frammentazione, malgrado non manchino i nostalgici, non sembra stare nel campo delle ipotesi reali e nemmeno desiderabili. Ma il destino del PD è importante anche per contrastare una sclerosi democratica di cui ogni giorno si fanno più inquietanti i sintomi..

 

Per una parte degli italiani il collante di centrodestra, che si esprime nel “berlusconismo”, è considerato un fenomeno a dominante-sociologico giudiziaria. Attinente al campo della vitalità illegale di una parte profonda del paese. Esso rivelerebbe infatti le viscere dell’Italia peggiore: illegale, cialtrona, opportunista, autoritaria, populista, demagogica, illusionista, fascistoide. Aspetti che hanno avuto ed hanno sicuramente un peso ma che, da soli, non bastano a spiegare i motivi del successo elettorale del centrodestra.

 

In effetti c’è un dato della dinamica elettorale che non può non colpire. Con le elezioni del 2008 tutte le forze politiche che avevano governato (con responsabilità dirette, o per consociazione) la prima Repubblica sono state relegate all’opposizione. Su questo esito ha certamente influito il mutamento dello scenario internazionale, con la fine della guerra fredda e la divisione del mondo in blocchi contrapposti, ma anche i mutamenti della società italiana. A cominciare: dalla sua crescente frammentazione; dall’affievolimento dei blocchi sociali fatti di grandi aggregazioni; dai nuovi modelli di vita indotti dalla comunicazione televisiva; dall’irrompere di un “individualismo proprietario”, fondamentalmente a-sociale. In ogni caso la vittoria ampia del centrodestra coinvolge anche una visione della storia d’Italia che indica un mutamento significativo nella prospettiva di quella storia, del suo popolo, di un pezzo rilevante dei suoi “ceti medi” (inclusa una parte non irrilevante del lavoro dipendente) e del loro orizzonte simbolico. Compresi gli elementi identitari che per mezzo secolo avevano tenuto assieme la nazione.

 

Nei cinquant’anni seguiti alla fine della guerra ed alla caduta del fascismo la Repubblica ha infatti affondato le proprie radici su alcuni elementi essenziali: in primis l’unità della forze politiche intorno a Resistenza e Costituzione. Unità mai venuta meno neppure nei momenti di conflitto più aspro tra DC e PCI. Tra gli elementi fondanti della Repubblica si deve anche includere la non appartenenza della destra postfascista al cosiddetto “arco costituzionale”. Così come la formazione della coscienza storico-politica intorno alla questione del “dualismo italiano”. Cioè del problema meridionale. Considerato principio costitutivo dell’unità nazionale, perché eredità irrisolta del Risorgimento.

 

Il centrodestra ha completamente rovesciato il quadro. Resistenza e Costituzione sono state messe in discussione e comunque sono state fatte oggetto di un “revisionismo” totale. L’esclusione dei postfascisti dall’arco costituzionale è stata superata nel 93, in occasione delle elezioni comunali di Roma che hanno rappresentato la “costituzionalizzazione” della destra e la rottura del precedente confine politico su quel versante, come precondizione per il successo del nuovo schieramento politico di centrodestra. Cosa che si è puntualmente verificata l’anno successivo alle elezioni politiche. Contemporaneamente sotto la minaccia di secessione della Lega, nell’agenda politico-strategica della nuova maggioranza al posto della “questione meridionale” è stata iscritta la “questione settentrionale”.

 

Alle dinamiche culturali e politiche si somma anche il fatto che ovviamente nessuno è mai completamente soddisfatto delle proprie condizioni di vita. Spesso si ha addirittura l’impressione di assistere ad un loro progressivo degrado. Si è quindi indotti ad andare alla ricerca delle cause, vere o presunte. Sotto l’impulso della Lega il populismo di destra ha avallato l’idea che la colpa sia da attribuire sia a “Roma ladrona”, che soprattutto agli immigrati. Si tratta di una posizione politica espressa in termini molto rozzi, ma niente affatto originale. La xenofobia e l’islamofobia costituiscono ovunque il programma di minima dei partiti di estrema destra, che hanno dovuto abbandonare i loro altri temi abituali: come l’anticomunismo e l’antisemitismo. Da qualche anno questi partiti hanno rafforzato il loro peso elettorale in una buona metà dei paesi membri dell’Unione europea. In nessuno hanno la maggioranza, ma in alcuni sono indispensabili alle coalizioni al potere che devono perciò (come nel caso dell’Italia) soddisfare  le loro richieste in materia: di immigrazione, di razzismo strisciante ed in alcuni atteggiamenti anche effettivo, di pseudo sicurezza, di localismo protezionistico, intrinsecamente separatista ed antieuropeo.

 

Le ragioni della loro crescita elettorale sono in parte una reazione al processo di globalizzazione. La “paura dei barbari” è ciò che spinge (soprattutto coloro che sono, o si ritengono, culturalmente, socialmente, economicamente ai margini) a reagire da barbari. Anche se il male che finiscono per fare a se stessi ed all’intera società è di gran lunga maggiore di quello che temevano di subire. L’altro fattore che ha influenzato questa dinamica è la cultura politica, non adeguatamente contrastata, che ha perciò dominato il campo negli ultimi decenni. Essa non ha infatti trovato significativi ostacoli nel  trasformare progressivamente la cultura dei diritti in individualismo “acquisitivo” ed antisociale. Ne è risultata una rappresentazione della nostra società come di un mercato sprezzante nel quale si scambiano diritti con soldi (assecondando, o perlomeno tollerando, corruzione, illegalità, speculazione, dissipazione del territorio, esteso inquinamento) e nella quale si è sostanzialmente inaridito ogni riferimento etico come: il rispetto per gli altri; la solidarietà; l’eguaglianza.

 

E’abbastanza evidente che, quando si affievoliscono fino a scomparire questi riferimenti di morale collettiva, la libertà, che i diritti liberali e democratici tendono a garantire e proteggere, per alcuni può trasformarsi in poca cosa, di cui non è necessario occuparsi quotidianamente. Per altri in uno strumento di affermazione nei confronti degli estranei. Entrambi questi esiti (il primo di apatia, il secondo di individualismo anti-sociale) sono il sintomo preoccupante dell’erosione del sentimento di eguaglianza. Erosione che apre la strada sia alla propensione a tramutare i diritti in atteggiamenti antisociali, ma soprattutto ad una progressiva liquefazione di ciò che tiene assieme una comunità nazionale.

 

E’noto che in alcuni settori della tradizione liberale, l’eguaglianza non ha avuto un ruolo particolarmente significativo. Fino al punto che per qualche pensatore l’eguaglianza è stata considerata una funzione di disturbo. Persino un pericolo per la libertà. Norberto Bobbio ha contestato a più riprese questa lettura egocentrica dei diritti individuali, insistendo sul valore di libertà alimentato dall’eguaglianza. E’quindi proprio questo pensiero di Bobbio che i democratici dovrebbero riprendere e sviluppare per elaborare un progetto ed una cultura politica che siano davvero alternativi a quelli della destra.

 

La cultura dei diritti ha certamente liberato gli individui da costrizioni autoritarie, non ha però dato loro nuovi vincoli. Vale a dire quei riferimenti di morale civile necessari per tenere assieme una società di individui liberi ed autonomi. In sostanza la cultura dei diritti, mentre ha contribuito alla civilizzazione della  società, e la stessa politica ha contemporaneamente prodotto individui dissociati ed isolati. Con il risultato di renderli ancora più esposti alle diseguaglianze economiche ed al potere (anche manipolatorio) delle maggioranze politiche e di opinione. Il populismo di destra è perciò anche il prodotto paradossale di una società individualista liberale. Nella quale la dimensione privata (intesa come sfera in cui “tutto è lecito”) ha preso il posto di valori condivisi ai quali rapportarsi.

E’quindi diventata il tramite per acquistare favore e potere. Non importa con quali mezzi.

 

Per riuscire ad aggregare un’alternativa credibile il PD deve perciò mettersi in condizione di proporre una cultura ed un progetto che sappiano innanzi tutto recuperare la dignità della persona  e della partecipazione politica, che sono alla base della democrazia. Che vuol dire riscattare la politica dall’assolutismo individualistico in cui è stata relegata. Il Paese ne ha bisogno per ritrovare due valori fondanti della democrazia: la cittadinanza e l’eguaglianza. Della prima ha bisogno perché lo svuotamento delle istituzioni politiche e della partecipazione è facilmente realizzabile da chi dispone di più mezzi e più strumenti per formare il consenso. Della seconda ha assoluto bisogno perché il suo indebolimento mette in causa:  i diritti sociali, l’istruzione, la salute e persino l’idea stessa di redistribuzione come fattore di solidarietà. Quindi, sia la cittadinanza che l’eguaglianza esigono il convinto impegno di tutti i democratici. La destra populista è stata capace di piegare e mobilitare a proprio vantaggio l’egoismo individualista. Alla cultura democratica popolare spetta dunque il compito di rovesciare questa tendenza, mettendo in luce che se i diritti individuali non sono iscritti in un quadro di solidarietà ed eguaglianza,  nessuno dei guai con cui il Paese è alle prese potrà essere realmente risolto.

 

A cominciare dalla questione sempre più cruciale del lavoro. Come è facilmente osservabile, malgrado i profondi cambiamenti intervenuti, che hanno determinato epocali trasformazioni nell’organizzazione del lavoro, nella cultura del lavoro, nel rapporto tra l’uomo ed il lavoro, il lavoro resta l’elemento decisivo di appartenenza di identità e di cittadinanza. Perché, in definitiva, ciascuno continua ad “essere” anche in rapporto a ciò che fa, o riesce a fare. Essere senza lavoro, o perderlo, non significa necessariamente non fare nulla, o “morire di fame”. Anche  se i rischi e le situazioni di effettiva povertà tendono inevitabilmente a crescere. Ma significa sempre esclusione. Il lavoro costituisce  quindi un fattore imprescindibile di coesione sociale. Tema da sempre decisivo, esso è diventato ancora più acuto per le conseguenze di una crisi economica sostanzialmente non governata. Infatti, mai come in questa fase, tanti temono di perderlo e molti di non riuscire a trovarlo. L’insicurezza si manifesta come un sentimento diffuso nella società ed  influisce sempre più pesantemente sulle scelte di vita e sui progetti per il futuro di un gran numero di persone. Tutto questo esige una profonda riflessione ed un ripensamento delle politiche perché siano davvero finalizzate alla piena occupazione. .

 

In Italia questo compito è ancora più urgente e sicuramente più impegnativo che in altri paesi europei. Abbiamo infatti: il più basso tasso di attività, il più alto numero di infortuni e morti sul lavoro, salari nettamente inferiori alla media e, in compenso, il record del prelievo fiscale sul lavoro. Al punto che l’imposta sul reddito in Italia si è oramai, di fatto, trasformata in una imposta sui salari e sulle pensioni. Assieme ad un profondo cambiamento delle politiche del lavoro in funzione del pieno impiego è necessaria una immediata riforma del sistema di protezione sociale, per dare una risposta a chi, nella crisi, il lavoro rischia di perderlo o lo ha già perso. Nel panorama europeo l’Italia costituisce una anomalia. E’infatti uno dei pochissimi paesi europei che manca di un sistema universalistico di protezione sociale. Mentre il nostro si fonda  su un impianto lavoristico-categoriale, con significative limitazioni ed esclusioni (che riguardano: sia la dimensione dell’impresa, che il tipo di rapporto di lavoro). E’quindi un sistema estremamente frammentato che incoraggia arbitri e discrezionalità nella sua gestione politica. Con il risultato che, in molti casi, al posto di diritti riconosciuti ed automatici vengono discrezionalmente elargite concessioni. Il che contribuisce a trasformare la flessibilità in precarietà. Con il  crescente sentimento di insicurezza sociale che simili situazioni comportano. La riforma del sistema di protezione sociale deve dunque costituire una priorità assoluta da parte di quanti ritengono che l’eguaglianza dei diritti sociali costituisca un elemento imprescindibile per una società democratica. 

 

Ed è compito tanto più urgente perché la democrazia è sempre in pericolo. Non perché a rischio di un assassinio, o di una imboscata. Sebbene in passato questo sia avvenuto, ed ancora oggi in alcune parti del mondo succeda. Per un paese come l’Italia il rischio può nascere dall’apatia e dall’indifferenza. Gli antichi pensavano che l’insidia decisiva alla democrazia venisse dalla minaccia oligarchica che di solito si materializzava nella sospensione del diritto di voto. Per i moderni l’insidia antidemocratica prende invece corpo soprattutto nella sfera dell’informazione e quindi del giudizio politico. Perciò, anche quando non è minacciato il diritto di voto, ciò che deve preoccupare è l’affievolimento del diritto dei cittadini di disporre non solo della possibilità di determinare gli equilibri politici con il loro voto, ma anche della possibilità concreta di formarsi e far sentire le proprie idee ed infine di controllare chi opera nelle istituzioni.

 

L’insidia viene quindi dalla forza sempre più esorbitante ed incontrollabile che consente di formare opinioni, manipolare le fonti di informazione, addomesticare la voce critica dei cittadini. Con l’intento di deprimerne il potere di controllo, rendendo, di fatto, la cittadinanza una condizione di sostanziale passività.

 

E’perciò evidente che sul fronte della garanzia del diritto all’informazione, in funzione del giudizio pubblico, il quadro normativo e quello concettuale hanno bisogno di essere aggiornati. Perché i classici diritti liberali di parola e di espressione, potevano essere ritenuti sufficienti come diritti civili individuali da far valere nei confronti dello Stato. Ma sono sicuramente inadeguati a costituire parte integrante del potere politico nella formazione dell’opinione e della volontà democratica. Che richiede la protezione del diritto all’informazione ed il pluralismo delle fonti di informazione. Diritto che si esprime sia nella libertà di sostenere le proprie opinioni, sia nel diritto di essere informati. Diritto che in Italia è messo in causa. Nei paesi democratici la funzione dell’informazione è di controllare il potere. In Italia è invece il potere a controllare l’informazione. Ed è un rovesciamento che non può essere preso alla leggera. A questo esito ha contribuito, di fatto, la formazione di un monopolio privato dell’informazione e, nello stesso tempo, il mantenimento del servizio radiotelevisivo pubblico sotto la signoria del Parlamento e quindi della maggioranza. Monopolio privato dell’informazione e maggioranza parlamentare non coincidono con la libertà di informazione. Proprio per questo motivo la democrazia italiana si ritrova sotto scacco. Per prima cosa occorre quindi trasferire i poteri di nomina e di controllo degli amministratori del servizio radiotelevisivo pubblico, attualmente attribuiti al Parlamento (con le conseguenze lottizzatorie ben note, che investono a cascata l’intera azienda), ad una autorità autonoma ed indipendente.

 

E’ tanto più urgente adottare questo cambiamento perché non è possibile fingere oltre di ignorare che l’informazione mette in atto due forme essenziali di libertà: quella civile (dell’individuo) e quella politica (del cittadino). In effetti essa costituisce il nucleo fondamentale del processo di formazione dell’opinione. I cittadini democratici hanno infatti bisogno di sapere per potersi formare un’opinione e decidere. Ma hanno anche bisogno di sapere per controllare chi decide. L’informazione dunque va considerata un bene pubblico costitutivo, come la libertà personale, la salute, l’istruzione. E come tutti i beni pubblici non può essere lasciato alla discrezione di una maggioranza. Per altro, l’informazione è un bene particolare perché è propedeutico ad altre componenti democratiche. Consente infatti di monitorare costantemente il potere; consente inoltre di svelare ciò che esso tende a volere tenere segreto. Senza questo efficace potere di controllo le democrazie moderne sono a rischio. Ed in ogni caso pericolosamente anemiche. Anche quando il diritto di voto non viene messo in discussione. Anche quando nessuno immagina e tantomeno propone un “altrove” rispetto alla democrazia. Anche quando la democrazia non ha più oppositori politici dichiarati.

 

La democrazia dunque può essere definita tale solo se consente e promuove l’effettiva (perciò vera, non con i sondaggi, non plebiscitaria, non finta) partecipazione dei cittadini alla formazione della volontà politica generale. La congruità delle politiche, la loro efficacia in rapporto ai problemi che si presentano, la scala delle priorità, gli interessi che si vogliono assecondare e quelli che invece vengono penalizzati, richiedono una autentica discussione pubblica. E, dunque, una democrazia funzionante. Che significa sempre: dialettica, conflitto incruento. Questo presuppone che tra forze politiche alternative siano sempre evidenti sia le identità  programmatiche, che  quelle culturali. Identità e cultura politica che distinguano nettamente le une dalle altre. Che distinguano quindi anche i rispettivi programmi di governo, rendendoli ben riconoscibili. Perché, seppure indirizzati all’intera società, essi non possono che fondarsi su una selezione di interessi e valori prevalenti. Ciascuno perciò effettivamente diverso rispetto a quelli di altre parti politiche, portatrici di differenti interessi e valori.

 

Questo riguarda i problemi economici e sociali, ma anche i temi più delicati. O ritenuti tali. La cui soluzione non può essere delegata agli “esperti”, ai “sapienti” ai “re-filosofi” di Platone. Per tante ragioni. Non ultima, che la “tecnocrazia” può trasformarsi in una nemica della democrazia. Il sapere dei “competenti” e degli “esperti”, quando tende a prevaricare, può minacciare il dialogo collettivo e la ricerca di traguardi condivisi. Facendo così arretrare la democrazia. Questo vale in generale per le grandi opzioni politiche, come per i valori che si intendono affermare. Inclusa la laicità. 

 

Al riguardo il punto cruciale non è tanto quello della laicità dello Stato. Che, a ben vedere, quanto meno per i cristiani, avrebbe dovuto essere risolto da almeno due millenni. Sulla base della regola indicata da Cristo ai suoi discepoli: “Date a Cesare ciò che è di Cesare ed a Dio ciò che è di Dio”. L’aspetto più impegnativo risulta invece quello relativo alla laicità dell’etica. Laicità che deve trovare il suo fondamento nella natura umana. Natura e ragione sono infatti i punti di riferimento per una vita morale non più ancorata solamente alla religione, ma non per questo abbandonata ad una deriva nichilista. Del resto natura e ragione sono istanze universali. Sono l’umano nella sua essenza comune. Perciò solo da queste basi può discendere un’etica comunitaria condivisibile da uomini e donne, nel pluralismo di fedi e culture che caratterizza la società moderna. Questa ricerca spesso è purtroppo contraddetta da rigidi schieramenti confessionali e dalle posizioni che pretendono addirittura di negare la capacità di generare e possedere un’etica da parte dei non credenti. Simili posizioni derivano dal fatto che ci sono persone le quali tendono a rifiutare che determinati valori e convinzioni siano relativi a chi li professa e che di conseguenza non possono essere imposti agli altri. Ciò significa che un’etica condivisa non può che nascere dalla dialettica  delle diverse posizioni e dalla ricerca delle migliori soluzioni possibili per la convivenza sociale, attraverso una mediazione da attuarsi nel rispetto reciproco. Perché questo possa avvenire bisogna impegnarsi per fare sempre prevalere la “laicità” (che è, appunto, un metodo) rispetto al “laicismo” (che è invece una ideologia).

 

Il campo da arare e coltivare è dunque piuttosto ampio. Resta quindi da chiedersi se il centrosinistra sia adeguatamente attrezzato. Soprattutto una forza politica come il PD, che si propone di attivare le condizioni necessarie per un effettivo sviluppo democratico, non può non domandarsi quale sia, a questo scopo, anche la forma di partito, non solo più efficiente, ma anche la più appropriata, in quanto appunto la più democratica. E’ noto che in tutti i partiti moderni il leader assume, in un certo senso, il ruolo di capo di un esecutivo di cui i maggiori esponenti del partito diventano una sorta di capi dicastero. Ma come tutti gli organismi dotati di qualche potere essi possono essere nominati secondo procedure certe o incerte. Possono agire senza nessun controllo, o con un controllo maggiore o minore. Ora, perché il controllo sia, oltre che efficace, attuabile, è necessario che nomina e controllo non siano l’espressione di un “popolo” indistinto. Ma siano effettuate da quanti hanno titoli certi di legittimità. Ossia, o gli iscritti al partito o loro delegati. Presupposto che dovrebbe essere considerato ineludibile per una forza orientata: alla ricerca e ad una elaborazione collettiva di idee e di programmi, ad un dibattito vero ed adeguatamente istruito, ad un controllo effettivo dell’operato dei vertici, ed a promuovere una costante selezione capace di assicurare il loro ricambio.

 

Se invece dovesse prevalere l’orientamento di fare irrompere direttamente nella vita del partito, ed innanzi tutto nella formazione della sua leadership, componenti indistinte della “società civile”, è abbastanza facile prevedere che il risultato non sarebbe affatto quello immaginato di allargare il tasso di democraticità delle procedure, ma piuttosto  quello di abbassarlo. Perché si indurrebbero i leader a rincorre un consenso indistinguibile di stampo plebiscitario. Che mortificherebbe inevitabilmente il significato, la funzione ed il ruolo di un partito che, dichiaratamente impegnato a rafforzare la democrazia nella società, non può non essere esigente con la democrazia al proprio interno. A questo fine non aiuta molto la discussione, piuttosto evanescente, tra “partito leggero” e “partito strutturato”, perché il rischio vero è di aprire la strada al “partito liquido”. Cioè ad un contenitore di forze dai confini sfuggenti. Con il pericolo di continui personalismi, poca politica e molta impotenza e paralisi.

 

Siamo ad un punto nodale di passaggio della storia. Nel senso che ci sono le potenzialità perché la speranza civile debba essere ricostruita, ma  c’è anche il rischio che passi indietro siano compiuti. La crisi economica e sociale, ma anche politica, che il Paese attraversa è particolarmente grave. Per la prima volta dagli anni del secondo dopoguerra si è trovato qualcuno che è tornato ad agitare la bandiera della disgregazione nazionale e della secessione. E questa volta, a differenza dell’immediato dopoguerra, la minaccia non parte dalla Sicilia, ma dalle regioni più ricche dell’Italia settentrionale. Ciò che allarma non è tanto la minaccia di una alquanto improbabile realizzazione di questi progetti, né l’opportunistico ed irresponsabile consenso che essi hanno raccolto in uomini e settori della attuale maggioranza di gove

Sabato, 3. Ottobre 2009
 

SOCIAL

 

CONTATTI