Al lavoro lo 0,029% della Costituzione

E' questa la cifra, in rapporto al Pil, oggi destinata alle politiche attive per l'occupazione, ossia a quelle che dovrebbero far realizzare il diritto promesso a tutti i cittadini dalla Carta fondamentale. E' lo specchio di una deriva che ha spinto il lavoro in una dimensione privatistica e mercatistica

Il diritto del lavoro ha l’abitudine di cambiare adagio, ma cambia senza soste. La sua costante evolutiva è la micro-discontinuità. Si direbbe, perciò, che ha la proprietà della creta nelle mani dello scultore.

 

Per cogliere l’orizzonte di senso della sua vicenda storica occorre in primo luogo sfuggire alla cattura cognitiva della concezione secondo la quale sarebbe il lavoro a dargli nome e ragione. Una concezione deamicisiana. Infatti, non è mai stato del lavoro se non nella misura compatibile con la sua matrice compromissoria: pur promettendo emancipazione e riscatto, è al tempo stesso un diritto sul lavoro, perché esso tende a modellarsi principalmente in rapporto alla logica dell’organizzazione produttiva, al modo di produrre e all’efficienza del produrre, alla quantità di ricchezza prodotta ed agli equilibri di potere che ne determinano la ridistribuzione. Come dire che il lavoro ha potuto acquistare in epoche risalenti la facoltà di parola a condizione di metabolizzare il divieto di alzare troppo la voce.  

 

La sindrome dell’ambivalenza, che il diritto del lavoro si porta dietro dalle origini, diventa visibile e si sviluppa soprattutto nei periodi di maggiore difficoltà dell’economia. Infatti, le ricorrenti crisi dell’economia vengono risolte prestando ascolto alle ragioni del capitale perché, si dice, in precedenza il lavoro ha fatto valere le sue con toni più vibranti del consentito.

 

Finora si è pensato che il sacrificio potesse essere anche iniquo, ma non inutile. Serviva per ridare fiato all’economia. Ma stavolta non è così. Adesso la recessione morde in eguale misura imprenditori e dipendenti: molte imprese chiudono, il settore manifatturiero si sgretola e l’intero sistema produttivo è stremato.  

 

In queste condizioni, l’errore più gravido di conseguenze consiste nel negare che la crisi attuale sia destabilizzante a causa dell’uso che se ne fa, spezzando cioè il positivo rapporto d’interazione tra economia e democrazia su cui si è costruita la storia dell’Occidente nella seconda metà del ‘900. La crisi dell’economia non è che un riflesso della crisi della dominante politica neo-liberista e l’emergenza economica è diventata un’emergenza democratica. Ciononostante, si vorrebbe tonificare la domanda di lavoro abbassando i salari e ledendo i diritti o enfatizzando artificiosamente contrapposizioni come quelle tra insiders e outsiders, per superare le quali si accredita l’idea che il diritto del lavoro inteso come diritto degli occupati fa salire il tasso d’ineffettività del diritto al lavoro di tutti gli altri e, in una prospettiva di riformismo capovolto, si propone di ridistribuire il quantum delle tutele, tosandone il presunto surplus come se per far ricrescere i capelli ai calvi bastasse rapare chi ne ha di più. Più eguali e più insicuri: ecco l’esito finale di una risistemazione normativa subalterna alle pretese dell’economia.

 

La verità è che giovani precari e vecchi garantiti sono, tutti, vittime del medesimo processo di dequalificazione economica e politico-culturale del lavoro e pagano, tutti, il carissimo prezzo della crisi. Infatti, si è generalizzata la persuasione che qualunque contratto di lavoro, anche il più scandaloso, ha il pregio di evitare lo scandalo del non-lavoro. Per questo, si sorvola sull’inquinamento delle dinamiche del mercato del lavoro provocato dal ricatto occupazionale, dimenticando che le dimensioni di quest’ultimo danno la misura dell’oblio in cui è caduta la più sonnacchiosa delle norme costituzionali: quella che “riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che ne rendono effettivo l’esercizio”.

 

Il disimpegno sul versante delle politiche attive del lavoro (con risorse che arrivano al 0,029% del Pil) e di sostegno economico a chi il lavoro lo cerca e non lo trova o lo ha perduto (persino la cassa-integrazione “in deroga”, che costituisce il principale ammortizzatore sociale, non riguarda milioni di precari) rende più devastanti gli effetti della liberalizzazione delle forme d’impiego a basso costo della manodopera, innescando un circolo che non può avere nulla di virtuoso. In assenza di indirizzi riconoscibili di politica industriale, si opta per un’organizzazione produttiva snella e leggera, facile da tirare su, ma anche da smontare come una tenda da campeggio, e comunque destinata a soccombere nella competizione globale.      

 

Quando è entrata in vigore la legge 92, nell’estate dell’anno scorso, la situazione sommariamente descritta appariva già consolidata; non solo in Italia. Difatti, ancorché riferita al lavoro, “mercificazione” non era più la parola che i padri costituenti ritenevano impronunciabile. Era stata riammessa nel linguaggio normativo dal Parlamento che, dando un principio di attuazione alle direttive del Libro bianco del secondo governo di centro-destra, nel 2003 ordinò di declinare il lavoro al plurale e legittimò incautamente la segmentazione del relativo mercato mediante uno sciame incontrollabile di contratti cosiddetti atipici.

 

Può quindi sorprendere che la legge 92 del 2012, pur essendo figlia di una stagione nella quale la flessibilità coi suoi sinonimi o derivati padroneggia il discorso pubblico e privato, esordisca riaffermando la centralità del contratto di lavoro a tempo indeterminato che nel ‘900 aveva funzionato, per intere generazioni di comuni mortali, da stella polare della tipologia negoziale avente per oggetto un facere. Però, cedo volentieri ad altri la proibitiva incombenza di spiegare come l’incipit del documento legislativo possa conciliarsi con gli enunciati successivi.

 

A me pare che, se non è una riforma senza progetto, ciò dipende unicamente dall’intento di civilizzare lo shopping contrattuale allestito dal decreto legislativo 276 del 2003, castigando alcune delle pratiche di flessibilità deviata, fraudolenta, abnorme; che peraltro la giurisprudenza aveva nel frattempo represso coi mezzi di cui dispone. Come dire che la patologia della flessibilità è combattuta perché si è convinti che ce ne sia una buona: intendendo per buona la flessibilità che abitua i comuni mortali di una certa età ad allontanarsi dalla prassi del lavoro standard cui erano stati educati e socializza le più giovani generazioni. Che non possono nemmeno considerarla una realistica alternativa, per il semplice motivo che il mercato non gliela offre.

 

Non c’è dubbio che schiodarla dalla memoria delle generazioni meno giovani non sia la stessa cosa che espellerla dall’immaginario collettivo di quelle più giovani; dopotutto, è più facile imparare che disimparare. Intanto, però, la legge 92 del 2012 interviene per rendere socialmente meno desiderabile il contratto di lavoro a tempo indeterminato, frantumando la norma-simbolo delle sicurezze giuridiche cui esso permette di accedere (sia pure limitatamente alle imprese con dimensioni occupazionali superiori ad un minimo di 15 unità). Alludo, come è ovvio, al rimaneggiamento subito dall’art. 18 della legge 300 del 1970. La reintegrazione del lavoratore ingiustamente licenziato è diventata una sanzione residuale e la sanzione che prevale nettamente è quella indennitaria. Il che fa arretrare la tutela contro il licenziamento ingiustificato ai livelli previsti dalla legge 104 del 1966 che aveva revocato la licenza di licenziare.

 

La riformulazione dell’art. 18 però merita di figurare in una galleria d’arte visiva moderna. La sua razionalità ne fa un’interessante espressione di dadaismo normativo, perché si nasconde nei risvolti di contorsioni verbali che, creando un’infinità di incertezze interpretative, finiscono per allargare lo spazio di discrezionalità del giudice. E ciò sebbene lo stesso legislatore non perda occasione per manifestargli sfiducia, rimproverandone l’inclinazione ad esercitare un controllo di legalità a suo parere invasivo e, anzi, sostanzialmente, espropriativo del potere aziendale.

 

In effetti, la diffidenza nei confronti della tutela giurisdizionale dei diritti, apertamente annunciata per la prima volta dal Libro bianco di dieci anni fa, si è tradotta nella legge 183 del 2010 che asseconda in vari modi l’emarginazione del giudice togato nelle controversie di lavoro: accresce l’onerosità del ricorso in giudizio; rafforza l’istituto della certificazione dei contratti individuali di lavoro con l’intento di blindarne l’esecuzione, limitandone la possibilità di riesame nella sede giudiziaria; sdogana l’istituto dell’arbitrato, anche se non ha un passato di cui gloriarsi, prevedendo la possibilità di richiedere al giudice privato di “decidere secondo equità”. Una scelta cui guarda con favore un legislatore contrariato dal persistere della diffusa ostilità all’idea che il diritto del lavoratore di avere diritti (per riprendere il titolo dell’ultimo libro di Stefano Rodotà) sia un fattore di rigidità regolativa irriducibilmente incompatibile con le esigenze di flessibilità della new economy.

 

Vero è che la decisione equitativa deve essere presa “nel rispetto dei principi generali dell'ordinamento e dei principi regolatori della materia, anche derivanti da obblighi comunitari”. Ma la linea-guida è più apparente che reale: la nebulosità della sua enunciazione serve più ad incentivare l’emanazione di lodi eccentrici che a verificare la ragionevolezza dei decisori. Né questo è tutto.  

Il fatto è che i “principi generali dell'ordinamento e i principi regolatori della materia” stanno per entrare nella sfera dell’indicibile e dell’inconoscibile per volontà dello stesso legislatore. C’erano. Una volta. Adesso sono a rischio.

In base all’art. 8 della legge 138 del 2011, la contrattazione “di prossimità” (ossia, aziendale o territorialmente circoscrivibile ad libitum e dunque locale) può derogare in peius sia a gran parte della legislazione del lavoro, sancendo così la caduta del predicato dell’inderogabilità delle regole prodotte dalla più blasonata delle fonti costituzionalmente legittimate, sia ai contratti nazionali di categoria, svuotandone così la storica funzione di garantire la certezza dei trattamenti economici e normativi per tutti i lavoratori del settore ovunque impiegati nel territorio nazionale.

 

La disposizione è ustionante. Tuttavia, nel complesso ha suscitato un clima più permissivo che di rigetto. Sarà perché è stata messa diplomaticamente in circolazione la voce che è tanto sgangherata che prima o poi sarà liquidata o aggiustata nelle sedi competenti. Intanto, però, è ancora lì, incistata nell’ordinamento. E i mass media, vista l’avversione manifestata dalla politica politicante e dall’establishment sindacale all’iniziativa nel frattempo avviata di promuovere un referendum per abrogarla, ne hanno oscurato totalmente l’informazione.

 

Insomma, il back-ground dell’art. 8 riposa su consensi forse imbarazzati, ma sicuramente vasti e trasversali. Come dire: non solo i governanti condividono l’idea che il lavoro rientra in maniera pressoché esclusiva nella sfera degli interessi di chi lo vende e di chi lo compra e che la regolazione dello scambio spetta a soggetti che agiscono in base ad una concezione proprietaria della contrattazione collettiva.

 

Il dato da cui partire è che la norma pesca nel profondo perché, valorizzando la dimensione privatistica, patrimonialistica e mercatistica degli interessi in gioco, interpella direttamente gli operatori giuridici: giudici, avvocati e giuristi-scrittori, in primo luogo – ma anche negoziatori sindacali, capi del personale privato e pubblico, consulenti del lavoro. Li interpella perché costoro non possono dirsi estranei al processo di de-costituzionalizzazione che ha fatto defluire ed allontanato il lavoro, le sue regole e la sua rappresentanza sociale, dalla sfera di un superiore interesse presidiato dallo Stato. Non che, ci tengo a sottolineare, l’art. 8 ne rappresenti l’inevitabile punto d’arrivo, come se si trattasse del suo necessario completamento. Propendo infatti a ritenere che si tratti piuttosto della punizione per la ritardata percezione degli effetti preterintenzionali della cattura cognitiva prodotta da un paradigma disciplinare legato ad una fase ormai superata della cultura giuridica.

 

Ad ogni modo, tutto ciò non toglie che ci siano indizi bastevoli per invogliare a storicizzare la norma, individuandone la chiave di lettura nell’estremizzazione della logica sulla quale si è costruito l’impianto politico-culturale di un’intera esperienza giuridica.

Venerdì, 15. Marzo 2013
 

SOCIAL

 

CONTATTI