Afghanistan: che ci stiamo a fare?

Il ruolo delle ONG e la confusione fra iniziativa umanitaria e intervento militare. Il ritorno dei talebani. L'oppio e la miseria dei contadini. La necessità di una conferenza internazionale che coinvolga i paesi dell'area.
Sono passati sei mesi dal voto parlamentare sulle missioni militari. In Afghanistan, la partecipazione italiana all'operazione Isaf (International Security Assistance Force) continua senza che il governo abbia ottenuto in sede Nato le necessarie e chiare risposte alla domanda principale che oggi si impone con urgenza: che ci stiamo a fare? L'operazione Isaf non è nata come azione di guerra. Anche se funzionale alla strategia americana, essa non aveva il compito di combattere qualcuno, ma di permettere l'avvio della nuova fase politica sostenendo e tutelando le nuove istituzioni centrali.
 
Se c'è stato un limite, esso può essere identificato nell'incapacità o la non volontà di assicurare una presenza militare più ampia, non limitata alla sola area di Kabul ma diffusa da subito su tutto il territorio per assicurarne la sicurezza e garantire pace e protezione alle popolazioni. Le province, schiacciate dalla prepotenza dei war lords o insidiate dall'influenza talebana, avevano infatti bisogno, in quella fase delicata, in quella fase delicata, di una significativa presenza esterna protettiva per permettere il cambiamento. Non si è avuto il coraggio di farlo. È mancata soprattutto la volontà del governo americano che voleva riservarsi una piena libertà di azione sul territorio, senza vincoli e mediazioni degli alleati. Mancanza che non è stata senza conseguenze. Si è data priorità all'operazione di guerra Enduring Freedom, la guerra "ai terroristi", rispetto all'operazione di tutela e sicurezza Isaf, lasciando così sul territorio mano libera al dilagare di poteri mafiosi, del malaffare, della coltura dell'oppio, favorendo in alcune regioni il ritorno e la "tutela" dei taliban.
 
I militari di Enduring Freedom, proiettati contro Bin Laden e i capi taliban, hanno agito duramente, con regole operative molto "robuste".  Bombardando di continuo e senza nemmeno chiedere autorizzazioni al governo, hanno spesso colpito civili innocenti, in particolare nelle province centro e sud orientali. Le stesse perlustrazioni nei villaggi sono brutali. In questo modo Enduring Freedom ha gettato interi villaggi nelle mani dei taliban e destabilizzato l'autorità di Karzai e delle amministrazioni provinciali. Non ha importanza che il piano fosse diverso, e cioè: i militari americani colpiscono i taliban (spesso solo presunti) nei villaggi, successivamente la polizia afgana interviene a bonificare la zona, infine l'amministrazione civile pianifica gli interventi che servono agli abitanti e alla comunità (scuole, pozzi, ecc). La realtà è stata ed è purtroppo tragicamente diversa. I poliziotti, mal equipaggiati ed addestrati, guadagnano 75 dollari al mese: il saccheggio dei villaggi diventa l'occasione per arrotondare il salario. E dopo di loro non arriva alcuna amministrazione civile a provvedere alle opere necessarie al villaggio. Tornano invece i taliban, forti come prima, che a loro volta incutono terrore uccidendo maestri, chiudendo scuole e imponendo le loro ossessioni.
 
Quando nel 2003 Isaf/Nato, sempre su mandato delle Nazioni Unite, ha finalmente iniziato ad operare nelle province del nord per poi estendersi a quelle occidentali, la situazione era ormai compromessa. La sovrapposizione tra Enduring Freedom e Isaf è stata inevitabile. Come inevitabile è stata la confusione tra le due operazioni agli occhi degli afgani. E' proprio questa confusione che ha portato le Ong italiane finora a rifiutare di operare nella provincia di Herat dove risiede il contingente italiano del Prt (Provincial Reconstruction Team, squadre provinciali di ricostruzione).
 
A cinque anni dalla fine della guerra, incominciano ad apparire le prime avvisaglie di una possibile sconfitta delle truppe Nato, come quella subita dai Sovietici nell'89 o, prima ancora, dai Britannici nell'800 e agli inizi del '900. Ancora una volta, è stato dimostrato che è più facile fare una guerra (sempre più con bombardamenti aerei per non subire danni e vittime) che non gestire il momento più delicato e difficile, quello del dopo guerra. La comunità internazionale dimostra, troppo spesso, di non avere alcuna strategia o idea precisa in merito, ma di procedere per tentativi per lo più carenti se non errati. È la mancanza di capacità politica che, con regolarità, si manifesta nella gestione delle crisi e delle situazioni di post-conflitto.
 
Procedere ora in Afghanistan solo per dovere di alleanza, in una inevitabile escalation militare "di contrattacco" che potrebbe non avere limiti prevedibili, piuttosto che nella realizzazione di una progettualità politica multilaterale più ampia possibile, chiara negli obiettivi e partecipata, condivisa dagli afgani e realizzata coinvolgendo e responsabilizzando gli afgani, dotata dei mezzi necessari e adeguati alla difficilissima realtà, potrebbe portare ad una dolorosa e catastrofica fine. A pagarne le conseguenze sarebbe, ancora una volta e prima di tutti, la popolazione afgana.

La lotta al terrorismo in Afghanistan ha avuto, in un primo momento, una visione e strategia politica ma, invece di essere perseguita con decisione, è stata purtroppo dimenticata o comunque gestita male od in modo gravemente insufficiente. L'azione è stata concentrata sulla caccia a Bin Laden e ai suoi complici (facendo l'errore di chiamare guerra, attuandola, un'operazione finalizzata a cercare, trovare e rendere inoffensivi terroristi in gran parte mescolati alla gente) e sulla sola tutela del governo centrale. Si è così ignorato quasi completamente il territorio afgano e le sue esigenze di sicurezza, di cambiamento e di ricostruzione. Non vi è stato controllo del territorio, nelle campagne, sulle vie di comunicazione, nelle grandi città. Le prepotenze tribali, i loro piccoli ma feroci dittatori e i taliban sono stati lasciati liberi di riorganizzarsi. Questi ultimi, in particolare, hanno riempito negli anni il vuoto politico e militare, captando e assecondando il senso di frustrazione della gente nelle aree più difficili.
 
Tutte le più importanti promesse sono rimaste deluse: costruire la democrazia, ricostruire il paese garantendo i servizi essenziali, avviare lo sviluppo. Le città sono sovrappopolate, il lavoro rimane scarso per milioni di profughi che vi fanno ritorno, poche o nulle le opportunità per i giovani in un paese con il 45% della popolazione sotto i 18 anni, per nulla sostenuta la ricostruzione della società civile. L'inutile guerra in Iraq (ma anche la crisi con l'Iran, il Medio Oriente) ha sottratto all'Afghanistan risorse, denaro, attenzione, impegno e militari. Non avere ricostruito con rapidità quanto distrutto dai taliban e dalla guerra è stato un gravissimo errore politico della comunità internazionale. Ancora oggi, solo il 23% della popolazione accede all'acqua potabile e molte canalizzazioni sono rimaste distrutte o danneggiate; il 10% beneficia dell'energia elettrica e a Kabul un milione di persone su tre, a giorni alterni e solo per poche ore al giorno. Rimangono da ricostruire scuole, case, ospedali, strade. Venti anni di conflitti avevano distrutto ogni istituzione governativa e sociale e i 909 milioni di dollari in aiuti assicurati nel 2002 corrispondono appena ad una ventesima parte dei 20 miliardi di dollari allocati all'Iraq dopo la guerra.
 
I taliban sono ritornati nelle province del sud e l'insicurezza e la paura si sono propagate: sono in mezzo alla gente e con essa si confondono; affiggono proclami che invitano ad uccidere chi lavora per il governo o gli stranieri. Erano sì fuggiti, ma non erano stati sconfitti. Lo si sapeva, ma è stata comunque ridotta progressivamente la presenza militare nell'area per riorganizzarsi e rafforzarsi: hanno avuto cinque anni per farlo. L'arrivo della Nato nelle province del Sud ha dato avvio, anche se in modo incerto, alla lotta alla droga e alla coltivazione del papavero. Ciò ha significato, per migliaia di persone, la perdita di un reddito regolare, anche se spesso pagato "in natura" con parte della stessa produzione. L'effetto è stato anche il rafforzamento dei taliban, visti come alleati - pur non desiderati - per riuscire a riappropriarsi della coltura dell'oppio e, con essa, della propria fonte di sussistenza.
 
Kandahar e Helmand sono le due province con la maggiore produzione di eroina di tutto l'Afghanistan, dove i contadini coltivano il papavero per sopravvivere. Dal 2005 i taliban hanno stretto alleanza contro il governo con ogni probabilità con parte delle stesse autorità locali coinvolte nel traffico della droga. Altre province, altri contadini, altri trafficanti e altre autorità locali sono ormai dominate da questa fonte di reddito e di profitto. L'Afghanistan produce il 90% dell'oppio mondiale, ma non esiste una strategia chiara, comune e condivisa, sia a livello afgano che internazionale, su come affrontare il problema. Sembra assurdo, ma è così.
 
Da un lato, l'Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine, Unodc, considera inevitabile l'abbandono delle coltivazioni, pur riconoscendo che ben 2,9 milioni di afgani, il 12,6% della popolazione, vivono dell'economia dell'oppio. Riconosce inoltre che solo l'1,9% dei coltivatori non ha riscontrato problemi una volta abbandonata la coltura del papavero a seguito delle distruzioni delle coltivazioni, mentre il restante 98,1% non riesce più a mantenere la famiglia, ad avere prestiti e si trova costretto a trasferirsi in altre zone per riprendere la coltivazione della droga. L'Unodc afferma giustamente che il problema non è militare ma sociale e propone un significativo ed immediato rafforzamento degli aiuti per lo sviluppo, considerando che il rientro nella legalità possa avvenire solo con un processo di crescita alternativo alla ricchezza dell'oppio e di miglioramento delle condizioni di vita e di benessere.
 
Dall'altro lato, esperti e politici suggeriscono di non ripetere esperienze come quella colombiana e propongono l'acquisto delle migliaia di tonnellate di oppio per essere usate dalla medicina, data la carenza di morfina per la terapia antidolore ancora non sufficientemente sviluppata. In questo modo si continuerebbe a garantire lavoro e reddito alla gente pur combattendo i trafficanti in modo efficace. La produzione è giunta nel 2006 in Afghanistan a 6100 tonnellate (4.600 t. nel 1999, calo a 200 t. nel 2001; ripresa a 4.100 t. nel 2005). Si tratta di 6.100.000 kg che, a 110 $ al kg, prezzo garantito dai narcotrafficanti, rappresenterebbero un costo complessivo di 671 milioni di dollari. Un costo inferiore al finanziamento di 700 milioni di dollari approvati dal Senato Usa per "combattere la massiccia produzione afgana d'oppio".

Sta di fatto che la mancanza di un strategia comune e di coerenti e decise azioni contro il narcotraffico, senza negare alle popolazioni la possibilità di sussistenza, stanno favorendo i narcotrafficanti che, grazie agli inesauribili profitti, assumono sempre più potere, corrompendo le pubbliche amministrazioni e favorendo l'alleanza con le forze talebane, finanziandole e sostenendole in funzione antigovernativa per garantirsi la continuità e il rafforzamento della loro condizione di potere.  
 
Anche se Afghanistan e Iraq rappresentano due situazioni totalmente diverse, incominciano ad esserci preoccupanti segnali di progressiva irachizzazione del contesto afgano. La popolazione di Kabul ha imparato a stare alla larga da qualsiasi mezzo delle truppe straniere. La strada Kabul-Jalalabad è colpita più volte al mese e al sud è guerra aperta. Le grandi speranze suscitate dalla sconfitta del regime talebano si stanno spegnendo e cresce nella popolazione la percezione degli stranieri come invasori. Le forze armate americane e quelle Nato sono ormai sempre più chiamate a confrontarsi, come in Iraq, con le conseguenze delle loro stesse azioni: con i civili innocenti che continuano a subire gravi e ripetuti "effetti collaterali" che producono morte e con i rivoltosi che reagiscono a ciò che viene percepito come ingiustizia.
 
La Nato ha ora assunto nelle province meridionali e orientali, anche se in modo subdolo, il compito di Enduring Freedom, la guerra contro il terrorismo. Proprio nel momento in cui l'Afghanistan non è più il focolaio del terrorismo globale ma un paese dove qualcuno cerca di abbattere un regime ritenuto incapace e corrotto sorretto dagli stranieri. Qualcuno forse anche peggiore delle attuali massime autorità, ma che presumibilmente non ha nulla da spartire con il terrorismo.
 
I ministri della Difesa della Nato hanno approvato il 28 settembre scorso a Portorose, Slovenia, la quarta fase della missione Isaf che prevede l'allargamento operativo alle province orientali al confine con il Pakistan, assumendo così la piena responsabilità della sicurezza dell'intero territorio afgano.  11.250 mila militari americani di Enduring Freedom  sono passati così sotto comando Isaf/Nato che, a partire dal febbraio 2007, sarà assunto dal generale americano Dan McNeil. E' il compimento della fusione delle due operazioni e la conferma definitiva della loro confusione agli occhi degli afgani e dei paesi dell'area (pur rimanendo ancora un nucleo di Enduring Freedom composto dai rimanenti 8000 militari americani). Secondo i dati Nato (ottobre 2006), l'operazione Isaf sull'intero territorio afgano è composta di 31000 militari di 37 paesi (USA 11250, Gran Bretagna 5200, Germania 2750, Olanda 2100, Canada 1800, Italia 1800, Francia 700, Romania 750, Spagna 625, Turchia 475…)
 
Il gen. David Richards, comandante Isaf, ha affermato che per vincere i taliban ci vogliono dai tre ai cinque anni. Se si tratta di anni di azione militare, di "guerra" ai taliban, a nostro avviso il generale sbaglia. Sarebbe sufficiente osservare quanto successo in Iraq, ma anche lo stesso recupero e rafforzamento dei taliban in Afghansiatn. Solo da una nuova Conferenza internazionale sull'Afghanistan sotto l'egida dell'Onu, che veda coinvolte le istituzioni e rappresentanze afgane e i paesi confinanti e centro-asiatici oltre a quelli occidentali, potrà uscire la nuova e condivisa volontà politica, la nuova strategia e il nuovo impegno per la ricostruzione, la sicurezza e il rafforzamento delle istituzioni rappresentative. Delegare alla sola Nato, cioè all'Alleanza militare occidentale, il compito di accompagnare il cammino dell'Afghanistan garantendone la sicurezza, è per l'Onu un segno di debolezza e per i paesi centro-asiatici qualcosa di inaccettabile.
 
Con la mozione votata dal Parlamento il 27 luglio 2006 il governo italiano si è impegnato a promuovere nelle sedi internazionali, Onu e Nato in particolare, una riflessione sulla strategia politica e diplomatica in Afghanistan e una verifica costante dei risultati raggiunti. L'Italia partecipa all'operazione Isaf/Nato con circa 1800 militari (un migliaio su Kabul, 800 su Herat), buona parte dei quali, quelli a Kabul, senza diretta responsabilità di comando. Un generale italiano coordina il comando dei Prt delle quattro province della regione ovest: Herat, a comando italiano; Farah, americano; Badghis, spagnolo; Ghor, lituano.
 
I Prt , con l'ambigua definizione di "squadre di ricostruzione", hanno in realtà il compito di "concorrere al processo di espansione della Nato in Afghanistan" (ministro Parisi). Sempre secondo i documenti ufficiali, il Prt è una struttura mista composta da unità militari e civili. La componente civile del Prt in verità non è riferita alla sua composizione ma a quella parte di attività che va sotto il nome di cooperazione civile-militare. Si tratta dello sviluppo di una nuova strategia dovuta al cambiamento dei teatri operativi della Nato nei nuovi contesti internazionali di crisi, che viene attuata tramite una nuova struttura di comando, la Cimic (Civil-Military Cooperation). Non è quindi la "componente civile" del Prt che svolge le attività di ricostruzione di ambulatori, scuole, ospedali, pozzi, sistemi idrici… , cosa di per sé già problematica dal punto di vista della fedeltà ai principi umanitari, ma sono gli stessi militari della struttura Cimic a farlo in relazione con le autorità civili locali e utilizzando i loro mezzi logistici e di sicurezza.
 
Da qui nasce l'ambiguità e la confusione che le Ong umanitarie continuano a denunciare, fino ad esprimere gesti estremi come decidere di rinunciare a svolgere attività nelle aree adiacenti ai Prt. Le Ong devono in ogni caso salvaguardare la loro autonomia, indipendenza, neutralità umanitaria e laddove non c'è chiarezza, dove non c'è severa distinzione tra i compiti, gli spazi, le attività dei militari e quelle delle Ong, dove la sfera umanitaria viene inquinata da strumentalizzazioni ed è subalterna ad altre finalità, allora le organizzazioni non governative si sentono obbligate a prendere le distanze, fino ad allontanarsi da tali contesti. Una netta distinzione si impone in questo ambito, al fine di evitare ogni sorta di confusione tra l'azione militare e quella delle organizzazioni civili, in particolare quella delle organizzazioni umanitarie e di sviluppo.
 
Uno dei più gravi errori è stato quello di avere sottovalutato l'importanza e l'urgenza degli aiuti alla popolazione e per la ricostruzione del paese. Se alcune infrastrutture importanti sono state realizzate, le condizioni di povertà della gente sono invece le stesse e le aspettative sono rimaste deluse, mentre si è lasciato spazio ad ogni forma di prepotenza, di illegalità e di corruzione. Il senso di frustrazione si è diffuso, favorendo lo sviluppo di forze antigovernative e in alcune aree il ritorno dei taliban. Occorre ribaltare la direzione di marcia, dando priorità a tipologie di intervento finalizzate ai bisogni della gente, più efficaci e meno costose di quelle militari. Aumentare e qualificare l'azione di cooperazione da parte della Comunità internazionale, e quindi anche da parte dell'Italia e dell'Europa, deve divenire la preoccupazione dominante e la prova della reale assunzione di responsabilità.
 
Lo sforzo italiano di aiuto e di cooperazione, come quello di qualsiasi altro paese, non avrebbe la necessaria efficacia se non collegato e coordinato con quello dell'insieme dei paesi e delle organizzazioni internazionali. Anche per definire questo piano coordinato di aiuti visibili ed efficaci e di interventi di ricostruzione e di sviluppo, l'auspicata Conferenza internazionale sull'Afghanistan dovrà essere realizzata quanto prima. Il coinvolgimento e l'assunzione di responsabilità del più ampio numero di paesi insieme alle Autorità afgane e le decisioni politiche che ne scaturiranno devono essere accompagnate, questa volta davvero, da un piano preciso e circostanziato per aiutare l'Afghanistan ad uscire dal baratro in cui si trova da ormai troppi anni.
 
Affermare che l'indispensabile assunzione di responsabilità deve comportare una forte, decisa e riconoscibile azione di cooperazione significa anche assicurare i necessari finanziamenti per poterla realizzare. Le promesse costantemente disattese o solo parzialmente attuate creano sfiducia, frustrazioni e reazioni negative. Specie se si mettono a confronto (e gli afgani lo fanno, come noi) i fondi spesi per le attività militari con quelli spesi per la ricostruzione. Il costo delle operazioni militari è stato dal 2002 ad oggi di circa 82 miliardi di dollari, nove volte di più di quanto è stato speso per finanziare lo sviluppo, 7,3 miliardi.
 
A livello regionale, il problema non è solo il Pakistan. Anche l'Iran ha un forte peso, insieme agli altri vicini come India, repubbliche centro-asiatiche, Russia che non gradiscono la presenza americana e stanno finanziando propri movimenti di contrasto. Sarebbe dovuto essere compito vitale della Nato, che ha assunto il compito della sicurezza e della stabilità in Afghanistan curare i rapporti con i paesi vicini, il Pakistan e l'Iran in particolare. È necessario che nella regione cambi radicalmente la strategia politica occidentale, americana ed europea. La prima dovrà aprirsi al dialogo regionale e alla partecipazione multilaterale preferendo la diplomazia, il negoziato e la politica alle armi, la seconda dovrà convincersi che non può più rifiutare di assumere il proprio ruolo e le proprie responsabilità politiche e dovrà presentarsi con un'unica voce e strategia politica.
 
Occorrerà cioè riuscire ad attenuare le contrapposte strategie politiche nella regione che suscitano e alimentano instabilità, favorendo il jihadismo globale e il fondamentalismo: gli scontri tra Afghanistan e Pakistan, gli interessi e l'ambigua posizione di quest'ultimo verso il paese vicino, le influenze del conflitto indo-pakistano, gli interessi dell'Iran, della Russia, dell'India, delle Repubbliche centro-asiatiche, la mal sopportata presenza americana nella regione, le differenze geostrategiche tra Usa e Ue e tra gli stessi paesi Ue.
 
La Conferenza internazionale non potrà trovare soluzioni a così profonde diversità ma, se gestita bene e con la partecipazione attiva dei paesi confinanti e di quelli dell'area, potrà ottenere la loro collaborazione per porre severi argini alle infiltrazioni jihadiste, anche nel loro stesso interesse. Essa potrà dare inoltre indirizzi utili per una visione rinnovata dell'Afghanistan e della regione, come realtà che riguarda anche i nostri destini futuri e non solo i nostri interessi immediati.

(Nino Sergi è presidente della Organizzazione non governativa Intersos)
 
 
 
 
 
 
 
 
 
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Venerdì, 19. Gennaio 2007
 

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