‘Ai più precari questa riforma non dà niente’

Il portavoce dell’Associazione XX maggio denuncia i punti critici non risolti, o addirittura aggravati dal disegno di legge del governo, che riguardano i lavoratori atipici non subordinati. “Per noi solo bastonate”

Si tende a dare per inteso che, salvo la controversia sull’Art. 18, il resto delle misure decise dal governo in materia di mercato del lavoro sarebbero accettabili e buone. Proviamo a spiegare perché le cose non stanno in tale maniera.

Primo punto: ancora una volta si favoleggia di far del bene ai parasubordinati ed agli iscritti alla gestione separata INPS unicamente aumentando l’aliquota previdenziale. L’incremento dell’aliquota previdenziale, senza provvedimenti volti ad accrescere i compensi, costituisce soltanto un palliativo, concentrando il peso dei nuovi aumenti soltanto sui lavoratori, che si ritroveranno con un reddito netto ulteriormente più basso. 15 anni di continui incrementi dell’aliquota contributiva hanno dimostrato ampiamente che le imprese scaricano sui lavoratori tutto il peso dei nuovi aumenti semplicemente tenendo fermo il compenso lordo. Si continuano a ignorare centinaia di studi e documenti che dimostrano che fino ad oggi è successo questo, colpendo e danneggiando solo i più deboli cioè i lavoratori atipici. Se si continua su questa strada non si è più in buona fede. Si cercano ancora una volta i soldi dai più deboli per finanziare gli ammortizzatori ai lavoratori dipendenti.

Secondo punto: è vero che per ridurre il ricorso all’abuso dei contratti atipici si deve far costare di più il lavoro parasubordinato e a partita iva individuale ma quella dell’aliquota previdenziale è, oramai, la parte meno rilevante della differenza fra il costo del lavoro atipico e quello dipendente. La vera differenza sul costo del lavoro la fanno i livelli retributivi che per i lavoratori atipici, a parità di lavoro, sono più bassi del 30% - 40%. Se non si regolano contrattualmente i compensi degli atipici facendoli retribuire di più dei dipendenti non si disincentiverà mai l’abuso di questi contratti e senza una regolazione collettiva non ci sarà mai quel controllo sociale indispensabile per ridurre effettivamente gli abusi. Si sono mai chiesti i professori come mai dove sono presenti le regolazioni collettive e i sindacati gli abusi sono a livelli fisiologici, mentre dove non ci sono esplodono soprusi e sfruttamento?

Infine, il differenziale tra i contributi previdenziali della gestione separata INPS e quelli dei dipendenti è solamente del 6%, mentre il differenziale degli altri contributi sociali (malattia, maternità, assegni familiari, indennità disoccupazione, cassa integrazione, formazione) varia dal 7% al 10%, in meno rispetto ai dipendenti, a seconda delle dimensioni dell’impresa. E’ un differenziale maggiore di quello previdenziale. Il suo adeguamento darebbe benefici ai lavoratori, ma di questo  non si ragiona mai.

Terzo punto: si finge di ritenere che con qualche aggiustamento normativo si risolva il problema di molti abusi. In realtà essi potranno continuare sotto forma d’impresa individuale, di società ad un euro, di finta cooperativa ecc. oppure nelle stesse forme di oggi, contando sul ricatto occupazionale per evitare contenziosi legali. La protezione universale non esiste. Per i contratti atipici non subordinati non è previsto nessun ammortizzatore sociale, non è previsto l’accesso ai fondi per la formazione continua, non è previsto nemmeno l’accesso ai nuovi fondi bilaterali di protezione sociale. Sono esclusi da tutto.

Il punto più preoccupante però è che si teorizza che i veri collaboratori, le partite iva individuali, le imprese individuali, gli associati in partecipazione, ecc. (2.600.000 lavoratori) anche quando sono veri non hanno bisogno di tutele in caso di malattia, maternità, infortunio, ammortizzatori sociali, regolazione dei compensi e dei tempi di pagamento, ecc.


Quarto punto: prosegue l’ingiustizia sociale e la schizofrenia normativa a danno dei più deboli. Infatti i parasubordinati iscritti alla gestione separata sono assimilati ai dipendenti dal punto di vista fiscale e dal lato previdenziale. Saranno allineati ai dipendenti avviandosi al 33% di aliquota previdenziale, ma rimangono autonomi quando si calcolano i minimali per accreditare i contributi. Questa ingiustizia fa perdere in media 4 mesi di anzianità contributiva ogni anno effettivo di lavoro. Non sono dipendenti quando i datori di lavoro devono pagare i contributi sociali per malattia, maternità infortuni, formazione e disoccupazione. Per tutte queste cose hanno soltanto un contributo dello 0,72%, contro il 7% che paga una piccola impresa per un dipendente o il 10% di una grande impresa. Il risultato è che hanno diritto a prestazioni risibili o addirittura nulle come nel caso dell’indennità di disoccupazione e della formazione.

Quando un datore di lavoro (in qualità di sostituto d’imposta) trattiene dai collaboratori i contributi da versare all’INPS e poi non li versa cosa succede? Al datore di lavoro niente e l’INPS rinuncia persino a recuperare i soldi dei contributi non versati, mentre al lavoratore vengono negate le prestazioni sociali perché l’INPS (che è andata in causa fino alla cassazione per farselo confermare) li considera lavoratori autonomi.

Per le partite iva iscritte alla gestione separata o per i giovani professionisti iscritti alle casse previdenziali “ordinistiche” è ancora peggio perché, anche formalmente, si fanno carico di tutti i contributi e hanno pochissime o nessuna protezione sociale.

A raddrizzare queste ingiustizie, però, non pensa nessuno anche se costerebbe poco o niente.

Quinto punto: complessivamente la nuova ASPI costa di più alle imprese e copre per meno tempo i lavoratori soprattutto quelli sopra i 50 anni o residenti al sud. Con la riforma delle pensioni si è spostato di molti anni il limite per andare in pensione, ma si riducono le protezioni sociali se un ultra 50enne perde il lavoro. Altra ingiustizia nei confronti di precari e stagionali: si aumenta da 11 a 13 settimane il limite per avere la disoccupazione a requisiti ridotti. Questo sembra un piccolo aggiustamento che in realtà rischia di lasciare fuori decine di migliaia di stagionali che già a fatica riescono a lavorare regolarmente per 78 giornate. Il rischio è di ritornare agli anni 80 dove non conveniva regolarizzarsi perché il lavoratore non aveva nessun vantaggio e la stragrande maggioranza dei lavori stagionali erano in nero.

Ulteriore mazzata è la previsione che i contributi figurativi che lo stato deve versare nei periodi di disoccupazione non saranno conteggiati se il lavoratore non raggiunge i 35 anni di contributi. Chi frequenta precari e stagionali sa benissimo che sarà un limite irraggiungibile e creerà solo risparmi per lo Stato sulla pelle dei più deboli.

La domanda è: chi rappresenta veramente e chi difende questa parte sempre più grande del mondo del lavoro nel tavolo governo / parti sociali?

La risposta al momento è tristemente semplice: nessuno.

 

*Andrea Dili è Portavoce dell’Associazione XX maggio

Venerdì, 6. Aprile 2012
 

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