Gallino: il lato oscuro della flexicurity

Nel suo ultimo saggio ("Il lavoro non è una merce - Contro la flessibilità") il sociologo torinese ripercorre le vicende che hanno portato 8 milioni di italiani ad avere un lavoro instabile e, tra l'altro, smitizza il cosiddetto "modello danese" oggi così di moda tra molti economisti e politici

La dottrina della flexicurity, ovvero “il volto umano” della flessibilità, esce piuttosto malconcia dall’ultima ricognizione di Luciano Gallino sui numeri e sulle vite dei lavoratori precari. Non già perché non sia auspicabile correggere la stabile provvisorietà di fasce sempre più imponenti di occupazione giovanile con il rimedio della formazione continua, dell’aggiornamento professionale e di ammortizzatori sociali efficaci e non compassionevoli.

 

Ci si può impegnare sul fronte della legislazione e della contrattazione sindacale per “evitare che la precarietà dell’occupazione rechi con sé la precarizzazione della vita personale e familiare”. Si può “anteporre la sicurezza dell’occupazione alla sicurezza del posto”. Si può contrastare l’idea che solo“una maggior libertà legale di licenziamento” garantisce un approvvigionamento così elastico della manodopera da restituire alle imprese la competitività perduta cui attingere per la ripartenza del ciclo virtuoso dell’occupazione. Si possono fare anche nozze con i fichi secchi, dice Gallino, ma muove due sostanziali obiezioni.

 

La prima: ha torto chi sostiene che il sovraccarico di norme democratiche, legislative e sindacali volte alla tutela dell’impiego sia divenuto un ostacolo da rimuovere perché la continuità dell’occupazione non dipenderebbe dal protezionismo neocorporativo dei sindacati, ma dal “possesso di conoscenze ed esperienze che mantengono elevato, ad ogni età, il tasso di occupabilità dell’individuo”. Ha torto perché la diffusione delle prestazioni flessibili in Europa ha prodotto una stratificazione delle condizioni lavorative e sociali a forma di clessidra. Nella parte alta, poche centinaia di migliaia di lavoratori hanno il privilegio di salari elevati, formazione continua, occupazione stabile. Ma nella parte bassa della clessidra, “i due terzi o i tre quarti del totale delle forze di lavoro occupate da un’impresa” entrano ed escono da un contratto all’altro, da un subappaltatore all’altro.

 

La forte polarizzazione delle professioni verso l’alto e verso il basso è una tendenza che già Nicola Cacace aveva colto nel suo “Oltre il 2000” edito nel 1993 da Franco Angeli. Ma Cacace era ottimista quando scriveva che “la scuola, la formazione continua” e la “cultura di base” avrebbero permesso anche al manovale di trovare lavoro più facilmente “se più istruito”. Gallino oggi spiega che cinque milioni di precari per legge sono imprigionati in mansioni ripetitive e dequalificanti per le quali nessun imprenditore ha interesse ad investire in termini di formazione continua. E la variabilità degli orari e dei luoghi di lavoro, di istruzione, di tempo libero porta la famiglia a non riunirsi più attorno al desco tutti i giorni, anzi la delocalizza insieme con l’impresa. Una volta desertificata la “progettabilità della vita”, sono anche minacciati i legami di coesione sociale che rendono armonica la convivenza di una comunità a dispetto dei ricorrenti conflitti sociali, politici e culturali tipici di una società moderna e multietnica. Lo sviluppo economico calpesta così lo sviluppo umano: eppure manager come Sergio Marchionne hanno appena spiegato alla Conferenza Internazionale organizzata il 16 febbraio a Torino dal ministero del Lavoro che “la competitività si può stimolare con gli investimenti, con le strategie, con le scelte manageriali, ma si realizza soltanto con le persone. Le aziende trovano la loro forza nei collaboratori capaci e motivati”.

 

La seconda obiezione sta in una critica sferzante del caso danese che da più parti viene indicato come il modello cui ispirarsi per importare in Italia un mix vincente di flessibilità e di sicurezza. Le rilevazioni statistiche danesi includono tra gli occupati i lavoratori collocati anticipatamente in pensione insieme con i molti che seguono corsi di riqualificazione: così il tasso di disoccupazione scende al 6 per cento del 2005 mentre ammonterebbe al doppio. Inoltre, Gallino chiede dove si possono trovare i soldi per versare ai disoccupati un assegno di 19.400 euro annui e per organizzare un corso di addestramento professionale ogni anno a vantaggio di due milioni di loro e dei loro formatori (l’equivalente italiano del 13 per cento delle forze di lavoro in Danimarca). Un po’ duro sostenere la praticabilità di un simile programma fiancheggiando l’odio popolare contro il prelievo fiscale che in Danimarca è al 50 per cento del Pil, mentre in Italia è al 43 per cento, con tutti i suoi sprechi.

 

Infine, Gallino non sfugge all’appuntamento con il nodo scorsoio della globalizzazione. Il sociologo torinese nota che le imprese europee ed americane “hanno messo in concorrenza tra di loro poco più di mezzo miliardo di lavoratori aventi retribuzioni elevate ed ampi diritti, con un miliardo e mezzo di lavoratori aventi retribuzioni irrisorie”. In Cina, un metalmeccanico costa un dollaro e mezzo all’ora per 60 ore settimanali, contro i 37 dollari orari di un suo collega tedesco. Sono dunque loro, le 100mila corporations transnazionali, non il destino cinico e baro ad aver distrutto il valore del lavoro. Loro hanno ristrutturato la produzione “in modo da sfuggire all’ingombro del diritto del lavoro occidentale”. Loro lo hanno polverizzato, non la mano invisibile e neutra del mercato. Loro lo hanno costretto a prendere la forma di una finta imprenditorialità che è maschera beffarda di una condizione di estrema debolezza contrattuale: ti illude di essere libero, ma in realtà ti condanna a subire ricatti sempre più pesanti. E sono ancora loro, la Camera di Commercio americana di Shangay e la Camera di commercio europea di Pechino ad aver osteggiato un progetto di legge che nel 2006 introduceva in Cina minimi salariali addirittura di 75 centesimi di dollaro l’ora, l’indennità di licenziamento, il diritto alla contrattazione. Rigorosamente anticomuniste, le multinazionali occidentali si sono rivelate molto sensibili all’invito di Deng Xiaoping ad “arricchirsi” gioiosamente e hanno negoziato l’annacquamento del progetto con una fervida attività di lobbying, resa convincente da accorate minacce di delocalizzare le produzioni. 

 

Una politica attiva del lavoro, sul piano mondiale e nazionale, dovrebbe colmare il divario di diritti che separa i lavoratori occidentali da quelli dei paesi emergenti, aumentando le retribuzioni e i diritti del miliardo e mezzo oggi sprofondato in condizioni semischiavili. Le notizie che Federico Rampini ci ha portato dalla Cina (“Repubblica” del 28 febbraio) parlano di mercati del lavoro all’ingrosso andati deserti, di crescente potere contrattuale dei lavoratori, di una specie di Statuto dei lavoratori che dall’inizio dell’anno regolamenta i licenziamenti, istituisce la liquidazione, obbliga la retribuzione degli straordinari.

 

Forse il vento sta cambiando, ma la strada è maledettamente lunga. Nel frattempo, Dio protegga i lavoratori cinesi dai loro protettori comunisti, visto che il nostro movimento sindacale europeo ogni tanto celebra qualche solenne liturgia, ma gira un po’ a vuoto quanto ad efficacia della sua azione internazionale. E’ come Davide contro Golia, ma deve ancora trovare la fionda e la pietra.

 

Luciano Gallino
Il lavoro non è una merce. Contro la flessibilità

Laterza, pp. 184 – 14 euro

Lunedì, 10. Marzo 2008
 

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