Sicurezza sul lavoro, voltare pagina

Cinque punti fondamentali da cui cominciare per affrontare quella che è una vera emergenza nazionale: ogni giorno, comprese le domeniche, avvengono ben 275 infortuni, 3,7 dei quali mortali

C’è voluta la strage alla ThyssenKrupp di Torino perché, seppure tardivamente, si incominciasse a prendere coscienza che la “sicurezza” del lavoro è una “emergenza nazionale”. Da tempo lo aveva rilevato il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Purtroppo però i suoi richiami non avevano suscitato, almeno finora, discussioni ed iniziative capaci di correggere il corso nefasto delle cose. Lo ha ribadito in questa dolorosa circostanza il presidente del Consiglio Romano Prodi, aggiungendovi l’amara constatazione che è difficile incolpare solo il “fato”. Perché anche le imprese hanno dirette responsabilità. Ha quindi annunciato un immediato esame e la sollecita approvazione dei decreti attuativi della legge delega sulla sicurezza proposta dal ministro Damiano ed approvata nell’agosto scorso.

 
Che sia una emergenza lo dicono soprattutto le cifre degli infortuni e delle morti sul lavoro. Indicative di uno sterminato corteo di vittime, di vedove, di orfani, di sofferenza, di dolore. In effetti ogni giorno, sabato e domeniche comprese, ci sono 275 infortuni, dei quali 3,7 mortali. Una vera e propria ecatombe a cui purtroppo non ha corrisposto una presa di coscienza ed una reazione adeguata. Anche perchè una informazione troppo spesso disattenta, sciatta, e non di rado anche subalterna al potere economico, tende sbrigativamente a liquidare queste vicende (naturalmente con un inchino di rito per le vittime ed i loro “superstiti”)  attribuendone la responsabilità al caso, alla fatalità, all’imprudenza. Circostanze che possono anche verificarsi, ma che non spiegano l’insieme dei drammi che si consumano ogni giorno.

 

Dopo l’incendio che è costato la vita a cinque operai, mentre due continuano a lottare tra la vita e la morte, la Thyssen ha negato qualsiasi violazione degli standard di sicurezza nello stabilimento di Torino. Ma le corali testimonianze dei lavoratori hanno smentito risolutamente che nel disastro Thyssen possa entrarci in qualche modo il “fato” o peggio la “temerarietà” degli operai. C’entrano invece, e molto, le responsabilità dell’azienda. La cosa può sollevare qualche stupore. Perchè nel suo codice etico la ThyssenKrupp dedica ben tre articoli alla “salute e sicurezza” dei propri dipendenti. Essa si impegna infatti ad assicurare “condizioni di lavoro rispettose  della dignità individuale ed ambienti di lavoro sicuri e salubri” e ad adottare e mantenere “adeguati sistemi” per “prevenire e reagire a possibili situazioni di rischio”.

 
Sappiamo bene però (e questo caso costituirebbe appunto una clamorosa conferma) che un conto sono i proclami e le buone intenzioni, altro sono i comportamenti concreti, determinati da esigenze di produzione e da calcoli di profitto. In queste fattispecie concrete, per “gli uomini di mondo”, il “codice etico” lascia il passo ad una condotta moralmente meno prescrittiva. Appunto quanto si sarebbe verificato alla Thyssen. Dove l’azienda (secondo il professor Giuseppe Berta), in attesa di portare i propri impianti nel Terzo Mondo, ha di fatto portato il Terzo Mondo in corso Regina a Torino. Al punto che le pompe antincendio non erano in grado di pompare, gli estintori erano ormai estinti ed il sistema di allarme non era in condizione di allertare nessuno. I sindacati aziendali sostengono di aver ripetutamente denunciato alla direzione aziendale la condizione comatosa dei sistemi di prevenzione e di sicurezza. L’aspetto che sorprende è che nessuna eco delle loro denunce sia mai arrivata alla magistratura e che nemmeno l’ispettorato del lavoro si sia mai attivato a seguito di segnalazioni circostanziate. Sebbene, sostengono alcuni, anche qualora le segnalazioni fossero arrivate, non è chiaro quali esiti avrebbero potuto produrre. Dal momento che qualcuno di quegli ispettori (stando a quanto qualche giornale ha attribuito al procuratore aggiunto di Torino Raffaele Guariniello) risulterebbe consulente della Thyssen. Cioè dell’azienda che avrebbero invece dovuto controllare. Se questa notizia dovesse trovare conferma costituirebbe una ulteriore prova del fatto che alla base di molti guai italiani c’è sempre una intollerabile miscela di cialtroneria, di irresponsabilità, di incredibile mancanza di morale.
 
Naturalmente ora tutti si aspettano che sia percorsa fino in fondo la strada che porta all’accertamento delle responsabilità  ed alla punizione di chi, per dolo o negligenza, ha permesso la tragedia. E’ una aspettativa più che comprensibile. Anche se, purtroppo, l’epilogo nella maggior parte dei precedenti non incoraggia particolari attese. Tocca comunque alla magistratura stabilire, con scrupolo, diligenza e soprattutto in tempi utili, la sanzione per i colpevoli di questa drammatica vicenda. Tocca invece alle parti sociali ed alla politica adottare le misure necessarie per impedire  che venga perpetuata una intollerabile sequela di drammi.
 
A questo riguardo molte cose possono e debbono essere fatte. Intanto bisogna mettersi in testa che è difficile (per non dire impossibile) tenere assieme la volontà di competere con i costi cinesi ed aspirare contemporaneamente agli standard di sicurezza degli scandinavi. Si pone quindi un problema  di priorità e di comportamenti coerenti. In proposito, contrariamente a quanto avviene in altri campi del lavoro, l’America può offrire una lezione interessante. A partire dalla metà degli anni ’90, negli Stati Uniti si è infatti verificata una spettacolare diminuzione degli incidenti sul lavoro. Coloro che hanno analizzato questa evoluzione sono giunti alla conclusione che tre fattori abbiano avuto un ruolo decisivo.
 
Il primo è costituito dalla elezione, all’inizio degli anni novanta, di un nuovo gruppo dirigente del sindacato AFL-CIO (American Federation of Labour-Congress of Industrial Organization). Appena eletta, la nuova presidenza ha infatti lanciato una campagna con al centro la riforma delle condizioni di lavoro e la sicurezza. Il secondo riguarda l’utilizzazione intensiva della “società dell’informazione”. Grazie a forum su Internet, che garantiscono l’anonimato dei partecipanti, è stato possibile smascherare  le “aziende nocive”. A seguito di queste iniziative una legge (approvata nel 1995) ha obbligato le amministrazioni a rendere pubbliche le informazioni di cui dispongono, in particolare per quanto riguarda la sicurezza e gli incidenti sul lavoro. Il terzo è il prodotto delle tensioni sul mercato del lavoro americano che  si sono significativamente verificate alla fine degli anni novanta. La difficoltà ad assumere personale (soprattutto qualificato) sembra abbia indotto diverse aziende a cercare il modo migliore per destare il loro interesse. Parecchie di loro sarebbero perciò giunte alla conclusione che uno degli elementi decisivi di concorrenza nelle assunzioni fosse quello di offrire migliori condizioni di lavoro e di sicurezza rispetto ad altre imprese.
 
La combinazione di questi tre fattori ha fatto sì che, mentre nel periodo 1984-1994, si era registrato un netto aumento degli incidenti sul lavoro, nel decennio successivo si sia invece determinata una diminuzione spettacolare, che ha ridotto gli incidenti di oltre un terzo. Insomma, mettendo assieme un ruolo più incisivo del sindacato, dello Stato e della società dell’informazione, l’esempio americano dimostra che combinando in termini efficaci modalità complementari di intervento è possibile ottenere risultati importanti. Il punto che merita di essere rimarcato è che, nel caso americano, la soluzione del problema non è passata per la ricerca di una intesa preventiva circa il metodo migliore da adottare, ma da una eccezionale convergenza di realizzazioni pratiche intorno al medesimo obiettivo.

 

Volendo trasporre l’esempio americano nella realtà italiana si devono però fare i conti con una duplice difficoltà. La prima è che noi italiani, per mentalità e cultura, siamo meno pragmatici degli americani. La seconda è che la questione della sicurezza del lavoro non è finora stata assunta come una priorità nazionale. La soluzione  del primo problema è certamente complicata e lunga. Perché le mentalità sono come le abitudini. Non si riesce mai a buttarle dalla finestra. Semmai si può  cercare di spingerle per la scala. Un gradino alla volta. Il che, naturalmente, richiede tempo. Tempo di cui non disponiamo, in presenza appunto di una “emergenza nazionale”. La seconda questione, almeno teoricamente, potrebbe risultare più abbordabile. La condizione perché ciò possa accadere è che si apra un dibattito pubblico, non effimero, sul lavoro. Lavoro inteso come elemento decisivo di identità, di appartenenza. Come mezzo per fare fronte alle esigenze personali e familiari. Perciò rispettare la dignità  del lavoro significa, innanzi tutto, rispettare l’integrità della salute e della vita dei lavoratori. Significa quindi rifiutare condizioni di lavoro che, alla Thyssen come in tante altre aziende, comportano costi umani e sociali assolutamente intollerabili.

 
A partire da questa presa di coscienza c’è un lungo elenco di questioni che potrebbero essere affrontate ed auspicabilmente risolte. Primo, l’Ianil registra ormai da anni un importante attivo di bilancio. Attivo che viene annualmente accantonato presso il Tesoro, dove è custodito quello che, nel frattempo, sarebbe diventato un vero e proprio “tesoretto”. Sebbene pare che l’ex ministro del Tesoro, Tramonti, l’abbia fatto sparire con un semplice gioco di prestigio. Subordinandolo cioè ai “saldi di finanza pubblica. Se così fosse si tratterebbe di una sorta di “esproprio proletario” che sindacati ed imprese non dovrebbero assolutamente subire. Anche perché quelle risorse (in tutto, o almeno in parte) potrebbero essere utilizzate nella promozione di una massiccia campagna di informazione, prevenzione e controllo sulle condizione di lavoro.
 
Secondo, le norme in materia di sicurezza sul lavoro (in particolare quelle contenute nella legge delega dello scorso agosto) sono assolutamente essenziali. Soprattutto se poi saranno fatte rispettare. Ma probabilmente potrebbero essere conseguiti anche risultati più significativi integrandole con una logica incentivante. Vale a dire, premiando le aziende che ottengono un miglioramento delle condizioni di lavoro e di sicurezza con una diminuzione degli infortuni e penalizzando le altre.
 
Terzo, naturalmente una politica incentivante, da sola, non risolve. Occorre infatti accrescere contemporaneamente anche la cultura della sicurezza. Benissimo quindi il proposito di promuovere una campagna sulla sicurezza del lavoro anche nelle scuole. Tuttavia, ciò che serve soprattutto è un rapporto più stringente tra sindacato ed aziende. Purtroppo le cose a questo riguardo non stanno andando bene. Il recente rapporto Cnel sulla contrattazione sostiene infatti che nell’ultimo decennio c’è stata una vera e propria caduta della contrattazione aziendale. Al punto che ormai riguarderebbe soltanto meno del dieci per cento delle aziende. Risultato: la sicurezza si è trasformata in una incombenza sostanzialmente gestita in proprio dalle aziende. Incombenza dalla quale il sindacato è, di fatto, rimasto escluso.
 
La spiegazione che i dirigenti sindacali hanno fornito di questo discutibile sviluppo è che dovendo impegnarsi ad assicurare, in una situazione assai problematica, il posto di lavoro e la tenuta del salario è stato inevitabile che altre questioni (per quanto importanti) finissero in secondo piano. Per di più, a complicare il quadro, si è aggiunta pure la frammentazione dei processi produttivi (esternalizzazioni, appalti, e quantaltro) e del mercato del lavoro (precari, stagionali, immigrati). I quali, già estremamente preoccupati per il mantenimento del posto di lavoro, non sono in condizione di sollevare problemi relativi alle condizioni di lavoro. Tutto vero. Resta però il fatto che la sicurezza non può non essere assunta come una priorità sindacale. Perché se così non fosse non si capirebbe come potrebbe mai diventare una priorità del Paese.
 
Quarto, c’è una disputa aperta circa il peso che condizioni di lavoro stressanti, turni lunghi ed ore di straordinario hanno sulla frequenza degli incidenti. Nell’attesa che si possa arrivare a valutazioni condivise, sarebbe utile prendere atto che non è stata una idea geniale la decontribuzione delle ore straordinarie. Perché quando le ore straordinarie costano meno di quelle ordinarie, come attualmente succede, è inevitabile che le aziende per ridurre i costi si orientino ad aumentare le ore straordinarie anziché il numero dei lavoratori ad orario normale. Quinto, le notizie di possibili collusioni tra controllori a controllati alla Thyssen dovranno trovare riscontro negli atti della magistratura. Nel frattempo sarebbe utile promuovere una inchiesta amministrativa (a Torino, come in altre parti d’Italia) per recidere i legami collusivi e fraudolenti (dove esistono) e comunque rassicurare tutti della assoluta autonomia ed indipendenza degli organi di controllo.
 
Ovviamente l’elenco delle domande e delle questioni in materia potrebbe essere assai più lungo. Ma se almeno soltanto queste incominciassero ad avere una risposta sarebbe un sicuro segnale al Paese che sulla vita e la sicurezza dei lavoratori si è finalmente deciso di voltare pagina.

                                                                                                           

Lunedì, 17. Dicembre 2007
 

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