Piove sul più eurocentrico dei diritti nazionali. Piove a dirotto; anzi, diluvia. Per questo, da parecchio tempo i giuristi del lavoro della mia generazione si sentono come Noè quando lesse il bollettino delle previsioni meteorologiche. In realtà, stanno peggio. Mentre il venerabile patriarca sapeva di poter contare sullappoggio del Signore, e difatti ritrovò presto il sorriso, i giuristi del lavoro della mia generazione stentano a ritrovare il buonumore. Non sanno nemmeno se un giorno rivedranno i colori dellarcobaleno.
Nemmeno il mio stato emotivo è brillante come una volta. Infatti, mi sto persuadendo che, se non mi sbagliavo a pensare che quando un europeo parte per lAmerica Latina si accinge ad un viaggio più nel tempo che attraverso lo spazio, mi sbagliavo a ritenere che, giunto a destinazione, gli sarebbe sembrato di avere compiuto un salto allindietro di svariati decenni, come se fosse sbarcato nel passato del Vecchio Continente. La verità è che, nel corso dellultimo quarto del 900, sono accadute troppe cose troppo in fretta. Non alludo soltanto alla caduta del Muro di Berlino, che probabilmente costituisce lepicentro del sommovimento tellurico che ha scosso lintero pianeta. Non alludo soltanto alla de-industrializzazione e alla terziarizzazione della società. Allo sviluppo del capitalismo finanziario, alla globalizzazione delleconomia e dei mercati. No; non alludo soltanto ai macro-mutamenti. Mi riferisco piuttosto alle micro-discontinuità che li accompagnano come uno sciame dapi, senza permettere di decifrarne la portata e capire se si tratta di scosse di assestamento o del preludio di un cataclisma ancora incompiuto. Ecco, comunque, una sommaria descrizione delle macerie che stanno ricoprendo la superficie del diritto del lavoro, non solo italiano, e la cui stratificazione dimostra che lintero diritto del lavoro novecentesco viene trattato come uneredità da accettare con beneficio dinventario.
1. I valori del libero mercato, che di solito non erano glorificati dalle costituzioni elaborate nel secondo dopoguerra nei paesi che promossero la costruzione dellUnione europea, sono egualmente entrati nei rispettivi ordinamenti interni.
2. Una volta condivisa dalla generalità degli operatori giuridici, la presunzione favorevole alla subordinazione si è sgretolata: il lavoro si declina al plurale e quello autonomo sta riprendendo quota. Ovunque.
3. Anche se il legislatore non ha smesso di condividerla, la presunzione favorevole allindeterminatezza della durata del rapporto di lavoro subordinato si è nei fatti rovesciata. Se prima era retorico dire che i neo-assunti entravano a far parte di una grande famiglia ed erano tenuti a condividerne lesprit maison, adesso è realistico dire che si sentono come foglie dun albero, dinverno.
4. Il principio legale della corrispondenza tra il soggetto economico che utilizza la manodopera e quello che ha la titolarità dei relativi rapporti di lavoro è stato spezzato.
5. Sebbene la sua inderogabilità sia sempre stata una tigre di carta, adesso la norma di legge nasce talvolta per dettare regole più di pongo che di ferro; ad imitazione del soft-law comunitario, dove come dice Giuliano Amato cè più leggerezza che diritto. Paradigmatica è la parabola della legislazione attinente al tempo di lavoro: con le sue rigidità segnò la nascita del diritto del lavoro ed è diventata la più flessibile.
6. Da assoluto che era, o si credeva che fosse, il valore della stabilità del rapporto di lavoro si è relativizzato. Insidiato dal revisionismo di politiche governative e di orientamenti giurisprudenziali animati più che dallintento di aiutare limpresa ad abbassare il costo del lavoro dallostilità ideologica verso la disposizione-simbolo dellortodossia lavoristica novecentesca: quella che obbliga il datore di lavoro a reintegrare il dipendente ingiustamente licenziato. Per certo, se Italo Calvino fosse ancora tra di noi e gli raccontassimo le vicissitudini dellistituto della reintegrazione che ha stimolato unautentica rivolta dei fatti contro la norma scritta, lo scrittore concluderebbe che il congegno della stabilità reale assomiglia più al suo Cavaliere inesistente che al suo Barone rampante. Certo, nessuno di noi poteva ragionevolmente aspettarsi che, gracile comera, listituto della reintegrazione avrebbe fornito un valido spunto per riscrivere la deprimente storia processuale dellesecuzione forzata degli obblighi di fare. Ma pensavamo che la sua soccombenza si sarebbe prodotta al temine di un epico duello a viso aperto con un avversario leale e identificabile. E invece successo che la sconfitta si è consumata un poco alla volta, per sfinimento e per mano di una moltitudine imprecisabile di sconosciuti; neanche il fuoco amico gli ha risparmiato colpi mortali.
7. La presunzione che il sindacato, soltanto perché è considerabile un baluardo della democrazia del paese, non potesse non praticare al proprio interno regole ispirate (come vorrebbe anche
Sarà perché nel corso di questi anni in Europa è successo tutto ciò, e molto altro ancora, fatto sta che, durante il mio ultimo soggiorno in America Latina, non accarezzavo più il biglietto di ritorno come si accarezza un talismano. Averlo in tasca non mi procurava più la sensazione di superiorità al limite della supponenza che avevo condiviso in precedenti occasioni. Al contrario, mi sono sorpreso a rimproverarmi il ritardo nel capire che lo sbarco in un qualunque paese dellAmerica Latina può destare in un europeo la sensazione di trovarsi in un giorno imprecisato del futuro prossimo della stessa Europa. E ciò perché, mi sono detto, è proprio nel suo luogo dorigine che il diritto del lavoro assomiglia, più che alla biblica arca, ad un vascello fuori controllo, senza nocchiero né timone.
Se è improbabile che contributi propositivi adeguati possano venire dai più spaventati custodi dellortodossia lavoristica novecentesca che eccellono nelluso paralizzante della memoria, nemmeno sono affidabili gli aneliti modernizzanti che portano a progettare per il diritto del lavoro un futuro che di memoria ne ha troppo poca o non ne ha per niente. Anzi, un documento presentato di recente dalla Commissione europea non è altro che uninsistita e calorosa esortazione rivolta al ceto professionale dei giuristi del lavoro per sollecitarli a partecipare ad una gara destinata a designare il più bravo, intendendo per tale quello che saprà indicare con più speditezza e meno remore dove ha cominciato a sbagliare tutto.
La gara però è meno appassionante, ed anche meno affollata, di quel che si immaginavano gli autori del documento. E ciò perché, viste le reazioni, non sembrano molti i giuristi inclini a riconoscere causa ed inizio di una singolare sequela di errori nelladesione prestata allopinione per cui il diritto del lavoro del 900 non sarebbe mai diventato uno dei pochi indubbi esempi del progresso della cultura giuridica, se il contratto di lavoro che ne è stato il nucleo fondativo non si fosse congedato dal diritto delle obbligazioni per assoggettarsi, nel persistente silenzio della legge, ad una normazione che ne mimava le movenze, ne emulava il ruolo e ne mutuava la sostanza autoritaria, ma segnava linizio duna fase nuova. La novità consisteva in ciò: moltitudini di produttori subalterni si impadronivano del potere contrattuale senza il quale il diritto che dal lavoro stava prendendo nome e ragione non sarebbe mai stato in grado di pensare in grande, più in grande di quanto fossero disposti ad ammettere interpreti persuasi che la sua progettualità si esaurisse nellingentilire letica degli affari.
Confesso che mi ha sempre intrigato la domanda consistente nel sapere perché il contratto collettivo si sia guadagnato un largo favore legislativo assai più in fretta di quanto non sia stato possibile al conflitto collettivo. Anzi, quello italiano è un caso emblematico: da noi, la più intensa valorizzazione legale del contratto collettivo coincide addirittura con la repressione penale dello sciopero.
La mia risposta è che le classi dirigenti riconobbero nel contratto collettivo uno strumento di governabilità preferibile a quello legislativo. Adatto per cambiare mentalità, stili e modelli di vita col consenso delle stesse collettività costrette ad adattarsi al nuovo che avanzava e, al tempo stesso, tuttaltro che imprevedibile quanto ad esiti. E ciò perché concedeva agli hommes de travail la facoltà di interloquire, e la possibilità di contare, nello stesso momento in cui non gli permetteva di alzare troppo la voce.
Come dire che il contratto collettivo è stato la creatura normativa del 900 più coccolata dallestablishment, dopo il comprensibile sconcerto iniziale, perché si seppe valutarne adeguatamente unattitudine che è inscritta nel suo DNA. Lattitudine è quella propria degli strumenti di pedagogia di massa perché educa a metabolizzare ciò che intimorisce, lo rende fisiologico e lo normalizza: la coabitazione tra un potere aziendale unilaterale e un contro-potere collettivo che, quanto a unilateralità, ne vorrebbe altrettanta. Daltronde, lidea stessa di contrattualità si suiciderebbe se fosse scollata dalla consapevolezza della necessità di una mediazione strutturata per impedire la radicalizzazione del conflitto sociale senza precedenti generato dal capitalismo di mercato.
Si direbbe che la contrattazione collettiva ha superato il test. E ciò sebbene non fosse semplice provare che il riformismo è preferibile allincendiaria profezia secondo cui lumanità non ha niente da perdere tranne le sue catene e, al tempo stesso, accelerare la deriva di concezioni che celebrano lelogio della figura del padre-padrone. Ce lha fatta come la sua natura le consentiva: provando cioè che limpossibilità di realizzare la liberazione completa e definitiva dalle catene non pregiudica né laspettativa dei comuni mortali di essere (un po) più liberi e (un po) meno poveri né lo sviluppo del sistema capitalistico. Non a caso, nella critica delle diseguaglianze sociali destinata a prendere gradatamente la forma del diritto del lavoro che conosciamo, la pars construens non è inferiore alla destruens e proprio nello sforzo di non farsi intimidire dalla coazione a contemperare, come la definì Giorgio Ghezzi, risiede il fascino del diritto del lavoro.
Tuttavia, la più rilevante posta attiva del bilancio della secolare esperienza si è venuta accumulando perché il popolo degli uomini col colletto blu e le mani callose non ha tardato a riconoscere nella contrattazione il vettore capace di trasferire nellordinamento dello Stato una concezione globale e totalizzante del lavoro, eccentrica rispetto alla dimensione produttivistica e mercatistica. Infatti, come dirà il maggiore studioso della rivoluzione industriale, nella cultura della classe sociale prodotta dalla Grande Trasformazione il lavoro era soltanto un altro nome per designare unattività umana che si accompagna alla vita stessa, che non è prodotta per essere venduta, e lorganizzazione del lavoro soltanto unaltra espressione per designare le forme di vita della gente comune.
Si ha certamente ragione a ravvisare, in compagnia dei migliori giuristi, nella qualificazione del lavoro come bene economico valutabile con criteri di mercato il punto di snodo decisivo che, nellevoluzione del pensiero non solo giuridico, ha segnato il passaggio da un indistinto status di sottomissione servile ad una relazione contrattuale presuntivamente paritaria tra soggetti astrattamente eguali. Ma, non senza domandare scusa per il ritardo, bisognerebbe anche denunciare gli effetti distorsivi della politica del diritto sponsorizzata da una giusprivatistica le cui categorie logico-dogmatiche e tecnico-concettuali le permettono di omologare il lavoro dedotto in contratto alloggetto di una delle prestazioni pattuite; punto e basta.
In effetti, una concezione parcellizzante e scarnificante, depersonalizzante e demotivante come questa solidale con linteresse dellimprenditore ad imporre alla manodopera comportamenti funzionali alle esigenze dellorganizzazione produttiva ed a reprimere tutti gli altri è insopportabilmente riduttiva al limite dellinsignificanza. Rendendo irriconoscibile linsieme di valori cui si richiama implicitamente il lavoro, contestualmente isterilisce il suo diritto nella stessa misura in cui lo immunizza da contaminazioni esterne e perciò lo rende ininfluente sulla trasformazione della società e dello Stato.
Viceversa, il diritto del lavoro non è più la provincia minore di un impero, quello del diritto privato appartenente alla tradizione romanistica ed alle codificazioni dell800, proprio perché ha dilatato la sua sfera dinfluenza e, staccandosi dal territorio delezione, si è risituato in un luogo senza identità. Unidentità che non era predefinita né forse si smetterà mai di definire. In realtà, il diritto del lavoro è un non-luogo cui non è bastato un secolo di storia per trovare la collocazione più appropriata nello statuto epistemologico delle scienze sociali che se ne contendono legemonia culturale.
So bene che non è questa loccasione più favorevole per smuovere i sedimenti di acque profonde. Ma non posso trattenere un moto dinsofferenza. Indispettisce infatti che la dislocazione scientifico-culturale del diritto del lavoro dipenda fondamentalmente dalla vischiosità di unorganizzazione accademica del sapere che innalza steccati dove dovrebbero erigersi ponti di collegamento, nonché dallopportunismo carrieristico che consiglia a quanti desiderano entrare nei ruoli universitari di desistere dallopporsi alla monocultura di una giusprivatistica affamata di cattedre. Spiace, del pari, dire che il fascismo giuridico è stato il solo momento in cui si sia tentato di cambiare il corso delle cose. Non cè riuscito, e anzi ha peggiorato la situazione. Sta di fatto però che ha comunque incentivato il diritto del lavoro a scavalcare la collinetta che precludeva la visibilità di cosa ci fosse al di là di un contratto a prestazioni corrispettive che comporta la cessione di un tempo di vita, predisponendolo così ad intercettare, in un habitat più favorevole, levoluzione del costituzionalismo moderno, interagire con essa ed esercitare una pressione determinante in direzione della rifondazione democratica dello Stato nellOccidente capitalistico.
Peccato che la demonizzazione del fascismo giuridico che caratterizzò la ripresa degli studi sul diritto del lavoro in età repubblicana abbia finito per complicare alla dottrina il compito di spiegare un perché e un come:
- perché la tensione emancipatoria si sia sviluppata ben oltre la sfera del lavoro che i paradigmi disciplinari della giusprivatistica identificano in un mero accrescimento del diritto civile, e
- come sia ormai irrilevante che lemancipazione sia partita proprio da qui, nellampia misura in cui il diritto del lavoro, per quanto bisognoso di adattamenti, è diventato un elemento costitutivo della civiltà che caratterizza il Vecchio Continente, sia pure limitatamente ai paesi dellEuropa centro-settentrionale e meridionale.
E questo, come scrisse Federico Mancini, langolo di mondo ove i legislatori, qualunque sia la concezione del mondo (liberale, cattolica, socialista e, sì, anche fascista) cui abbiano di volta in volta aderito, si sono sempre proposti di modificare la condizione delluomo che vende la sua forza lavoro. Hanno cioè maturato più speditamente che altrove e sotto governi di differente od anche opposto colore la consapevolezza che limpatto delle regole del lavoro eccede il quadro delle relazioni che nascono da un contratto di diritto privato. Insomma, avevano presente ciò che i tecnocrati di Bruxelles e dintorni tendono a trascurare: nel rapporto di lavoro sono coinvolti anche interessi extra-patrimoniali della persona la lesione dei quali deteriora proprio lo status di cittadinanza esaltato dagli stessi tecnocrati.
Infatti, se è incontestabile che lemarginazione sociale comincia con lesclusione dal lavoro, soltanto unesagerazione misticheggiante può portare a ritenere che là dove il lavoro viene svolto con le caratteristiche di alienità (rispetto al risultato immediato della prestazione come rispetto alla gestione dellorganizzazione produttiva) che connotano la subordinazione non vi sia la necessità di rimuovere, per usare limpegnativo lessico dei padri costituenti, gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano di fatto la libertà e leguaglianza dei cittadini. Ostacoli che, per esemplificare,
Intorno ad essi, viceversa, lUE sembra interessata a promuovere un clima culturale ed unopinione pubblica quanto più è possibile favorevoli. Secondo i tecnocrati di Bruxelles e dintorni, la soglia di accettabilità di cui peraltro non forniscono indicatori di alcun genere per individuarla con la desiderabile concretezza è destinata ad alzarsi adottando regimi normativi che spostano fuori del rapporto di lavoro le tutele fruibili dal cittadino-lavoratore. Il loro comune denominatore viene identificato nella flexi-security.
Lossimoro non è demenziale. Piuttosto, nasce dalla illimitata fiducia che, per incentivare loccupazione, bisogna ridurre gli standard protettivi. Viceversa, vi sono obiettivi la condivisione dei quali dipende anche dal metodo impiegato per raggiungerli. La democrazia, per esempio, è certamente considerabile un bene in sé o, se si preferisce, il male minore. Ciononostante, chiediamoci che razza di idea se ne stanno facendo gli irakeni o gli afgani. Analogamente, cè da chiedersi che tipo di socializzazione possa ottenersi generalizzando prassi dominate dallindividualismo di mercato e se sia sensato dirsi che qualunque contratto di lavoro, anche il più scandaloso, evita lo scandalo del non-lavoro, con ciò rivitalizzando fino a ridicolizzarla la decrepita formula qui dit contractuel dit juste. Si faccia invece un discorso di verità. I proto-liberali lo facevano, dopotutto. Nei loro codici civili, cera un progetto di società. Nei loro repertori giurisprudenziali circolava unutopia che un suo fascino lo aveva e, in questi ultimi anni, lo ha rinverdito. Nel cuore, se non anche nella testa, dei loro intellettuali darea giuridica, almeno di quelli che facevano opinione, vibrava una speranza che si vergognava di morire: gli uomini in età matura e capaci di intendere di volere devono avere la massima libertà contrattuale e i loro accordi, se liberamente raggiunti, sono sacri.
Si dica, allora, con la medesima franchezza che lossimoro comunitario annuncia la costruzione di un ordine sociale in cui quel poco o quel tanto di eguaglianza sostanziale che il 900 ha fatto entrare nellassetto normativo del r