Diritto del lavoro, gli errori dei revisionisti

E' sbagliato credere che non possa essere diverso dalla riproduzione di un "ordine naturale" preesistente; che sia ancillare rispetto all'economia;che la sua ragionevolezza debba essere docilità. Cambiare si deve, ma non cominciando dall'"anno zero"

Sul futuro del diritto del lavoro in Europa si manifestano laceranti divergenze. Infatti, l’economia capitalistica senza la quale il diritto del lavoro non sarebbe penetrato nell’ordinamento degli Stati liberali, sebbene non perda occasione per fargli capire che vorrebbe assoggettarlo alle sue mutate esigenze nelle forme, nei termini e nei tempi per lei più convenienti, dà spesso l’impressione di essere alle prese con le medesime difficoltà di chi volesse rimettere il dentifricio dentro il tubetto.

Ai revisionisti, visibilmente assaliti dal malessere che colse anche Noè nel leggere il bollettino meteorologico, vorrei spiegare che la matrice culturale dei contrasti è riconducibile in buona sostanza alla memoria non condivisa del passato. Riconosco senz’altro che non hanno torto a giudicare i risultati sproporzionati agli sforzi compiuti per conseguirli. Alcuni di loro, però, i più esaltati e radicali, dovrebbero avere il bon ton di astenersi dal mettere nel conto anche il costo rappresentato, in un paese anormale come il nostro, dai propositi omicidi attuati o minacciati da pazzi criminali nei confronti dei giuristi le cui proposte di disboscare qui per reimpiantare là in tempi necessariamente sfasati – intanto si disbosca, poi si vedrà – hanno una maggiore risonanza mediatica.

A questa impostazione, infatti, è impossibile aderire. Piuttosto, dovrebbero tenere presente che la vita umana è troppo preziosa per poterne immaginare il corrispettivo adeguato al suo sacrificio e che in nessun caso il pathos che tale sacrificio evoca può acquistare il peso – e surrettiziamente svolgere il ruolo – dell’argomentazione risolutiva a sostegno di una certa idea del diritto del lavoro. L’idea è quella che gli assegna un futuro senza memoria o, più esattamente, un futuro deformato da una tradizione mono-disciplinare del sapere che ha privilegiato la dimensione patrimoniale e mercatistica inscindibilmente legata al primitivo contratto di lavoro salariato che si prestò a fare da calco per modellare la società industriale.
Viceversa, sono almeno tre le ragioni per cui è mistificante ridurre al solo mercato del lavoro e alla sua flessibilizzazione il problema della cosiddetta modernizzazione del più euro-centrico dei diritti nazionali.
 
Prima: è documentabile che il diritto del lavoro del ‘900 ha cominciato presto a pensare in grande, più in grande di quanto fossero capaci interpreti persuasi che tutta la potenzialità dirompente del diritto in fieri che dal lavoro ha preso nome e ragione si esaurisse al di qua della soglia di un contratto a prestazioni corrispettive e potesse soltanto ingentilire l’etica degli affari.

Seconda: il processo di emancipazione degli abitanti di questa regione del pianeta Terra si è sviluppato ben oltre la sfera del lavoro dipendente e, pur partendo da lì, ha sospinto l’evoluzione del costituzionalismo moderno sulla strada della riprogettazione democratica dello Stato nell’Occidente capitalistico.

Terza: il deterioramento dei meccanismi e degli standard protettivi che costituiscono la struttura portante del modello sociale europeo coeteris paribus retro-agisce inesorabilmente sulla comune vita di relazione, non solo tra privati, e perciò obbligherebbe gli eredi dei padri costituenti a rivederne la convinzione che la Repubblica è fondata sul lavoro.

Riassumendo: non è vero che il diritto del lavoro sia ciò che è stato ai suoi primordi, ossia una zona periferica del diritto civile codificato; in realtà, è diventato in fretta un non-luogo, cui un secolo di storia non è bastato per ascrivere la collocazione appropriata nel sistema normativo oltre che nella mappa del sapere. Massimo D’Antona diceva che quello del lavoro è un diritto colpito da una anomalia: post-positivista, la chiamava; ma salvifica perché gli “frutta la singolare capacità di aderire al tempo dei mutamenti sociali”. Infatti, il diritto del lavoro ha sempre esibito l’anomalia col gusto dell’eretico che predilige l’anti-dogmatismo, l’anti-legalismo, l’anti-formalismo.

Ecco allora qual è l’errore dei revisionisti: credere di avere definitivamente chiuso una secolare ricerca solamente perché ritengono che il diritto – quello del lavoro incluso – non possa essere niente di più e di diverso della riproduzione di un ordine naturale preesistente al di fuori di lui; che esso abbia una vocazione gregaria e ancillare rispetto all’economia; che la sua ragionevolezza empirica sia indizio più di docilità che d’intelligenza pragmatica.

Per contro, il diritto del lavoro costituisce un eccellente esempio di come gli effetti prodotti da misure, interventi, progetti di razionalizzazione o normalizzazione apparente generano aspettative di destabilizzazione reale, il soddisfacimento delle quali comporta il superamento dell’esistente per trasformarlo in altro da sé.

Infatti, proprio questo è successo. E’ successo che, non appena la cultura pre-industriale riuscì a metabolizzare la coazione a lavorare soltanto alle dipendenze di altri, il popolo degli uomini col colletto blu e le mani callose presagì che il suo riscatto sarebbe dipeso dalla sorte della rivendicazione di transitare dalla condizione di sudditi a quella di cittadini. E’ successo che la durata virtualmente illimitata del vincolo nascente dal contratto di lavoro salariato – combattuta in origine dallo stesso legislatore come sindrome della rifeudalizzazione della società – sarebbe diventata socialmente desiderabile, e dunque sarebbe stata percepita come un valore, non appena i discendenti dell’originaria élite operaia smisero di sognare il ritorno agli stili di vita e ai piccoli privilegi del lavoro libero-professionale.

Certo, quando il capitalismo di mercato impose regole che gli permettevano di disporre di lavoro altrui senza limiti di tempo non poteva saperlo. Nondimeno, il diritto del lavoro competerà con le tradizionali politiche di governo pubblico della povertà oziosa e pericolosa, dapprima integrando le misure caritatevoli o repressive e poi sostituendole coi diritti sociali di cittadinanza. Diritti che le Costituzioni post-liberali riconosceranno al lavoro politicamente e culturalmente egemone nella società industriale nel quale si identificava senza residui la povertà laboriosa.

Pertanto, qualcosa di analogo a quel che successe ieri potrebbe succedere domani. E succederà perché flessibilità e precarietà producono effetti che eccedono i limiti di un rapporto contrattuale generato dal mercato, esattamente come in epoche risalenti gli effetti dei loro contrari non si esaurirono all’interno del medesimo ambito. Infatti, il crepuscolo del contratto di lavoro a tempo pieno, indeterminato e tendenzialmente stabile non può equivalere al ritiro del passaporto per accedere allo status di cittadinanza di cui il diritto pubblico è artefice e garante; piuttosto, espone la figura del cittadino-lavoratore ad una torsione che finirà per spostare l’accento più sul cittadino che sul lavoratore.

Insomma, se il lavoro industriale ha raggiunto l’apogeo della sua emancipazione allorché le leggi fondative delle democrazie contemporanee lo hanno trasformato nella fonte di legittimazione della cittadinanza sociale, adesso che quest’ultima non sa più di petrolio e carbone, di vapore di macchine e sudore è essa medesima che pretende di emanciparsi dalla concezione del lavoro senza il quale non si sarebbe formata. Lo fa reclamando le necessarie garanzie della sua identità malgrado la pluralità e l’eterogeneità dei tragitti lavorativi. E ciò perché, nella misura in cui nel nuovo secolo aumenterà il fabbisogno di flessibilità e precarietà, si profilerà simultaneamente il problema di sottrarre al rischio di distruzione quanto la civiltà industriale è stata in grado di procurare ai comuni mortali – in termini di coesione sociale, benessere, libertà democratiche – col contributo del diritto del lavoro del ‘900.

Come è noto, coi custodi dell’ortodossia lavoristica novecentesca mi trovo più a mio agio che con gli altri. Ciò non esclude però che possa capitarmi di censurarne la concezione meta-storica del diritto, quello del lavoro incluso, che li porta a resistere, resistere, resistere ed a rifiutarsi di prendere in considerazione qualsiasi proposta di individuare i percorsi di un accettabile riassetto regolativo nel quadro di una strategia plausibile dell’adattamento. Infatti, nemmeno gli amici custodi si mostrano capaci di apprezzare e valorizzare le caratteristiche della formazione storica del diritto del lavoro. Come vado sostenendo da anni, una sua costante è la micro-discontinuità perché la sua evoluzione è scomponibile in una sequenza di fasi caratterizzate dall’apparire di ciascuna come inizio della fine senza per ciò stesso produrre cesure che obbligano a ripartire dall’anno-zero e ricominciare daccapo. In realtà, non si trattava che della fine d’un nuovo inizio.

Sabato, 28. Aprile 2007
 

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