Israele, la Palestina e noi

Con la dissennata politica di Bush gli Stati Uniti hanno perso la possibilità di essere mediatori credibili della crisi. Tocca all'Europa provare a risolvere i problemi di quello che per noi è il "Vicinissimo Oriente"
Forse ci sta arrivando anche Bush. A capire che la sua famosa, e fallita, alleanza dei moderati nel Medio Oriente non può che passare per la cruna stretta della pace tra arabi e israeliani. Sempre che l'alleanza dei moderati, in sé e per sé, sia l'obiettivo per cui qui vale la pena lavorare. E a capire che,, come ha scritto di recente l'ex ministro degli Esteri israeliano Shlomo Ben-Ami, di qui - dal prendere di petto e cercar di risolvere quel conflitto - passa alla fine la stessa credibilità dell'America in quella regione

Ecco perché, dopo anni di distratta noncuranza - in realtà, di mano libera e di copertura ad Israele per tutte le sue più sconsiderate avventure: dalla passeggiata sulla spianata delle moschee di Sharon, a dire il vero subito "coperta" anche da Clinton (i democratici, sul nodo israelo-plaestinese, sono altrettanto ciechi dei repubblicani), alla guerra in Libano di Olmert - adesso Bush ha rimandato laggiù a fare la spola il segretario di Stato, Condoleezza Rice.

Ma non ha ancora deciso di fare il passo obbligato - che per lui sarebbe umiliante, però - di chiedere udienza ai siriani, a Bashar al-Assad, non fosse altro che per verificare l'attuale sua offensiva di pace. Insiste, invece, sulla vecchia road map che gli americani stessi hanno lacerato al di là, ormai, di ogni possibile ricucitura.

L'unica idea nuova che, con molta cautela, la Rice ha avanzato è quella di "auspicare" il via, dopo qualche passo in avanti, anche solo di facciata, verso una specie di Stato palestinese dai "confini provvisori". Che si aggiungerebbe così allo Stato di Israele - i cui confini sono deliberatamente indefiniti per volontà della stessa Israele, aggiungendo incertezza a incertezza. Il punto, su cui torna ad insistere  Slomo Ben Ami, è che il nodo va risolutamente tagliato.
 
E proprio il fatto che siamo di fronte a due debolezze estreme, si apre lo spazio a qualche speranza. Intanto, la debolezza del governo israeliano, esposto a qualsiasi spallata dall'interno, a qualunque inchiesta che un Parlamento scontento e riottoso va aprendo e sta per aprire sull'incompetenza e gli errori della condotta della sua ultima guerra nel Libano, sulla corruzione d'ogni tipo che alligna all'interno dei suoi vecchi partiti - tutti vecchi, anche quelli nuovissimi: col nepotismo del vecchio primo ministro, i sospetti che aleggiano sul nuovo, il mobbing e le mani allungate del presidente della Repubblica…
 
Una debolezza e una dipendenza totale, poi, dall'amministrazione america che sta subdolamente ma apertamente espropriando i governi di Israele della loro sovranità: economica ma anche diplomatica, politica, morale e, perfino, militare. Infatti - e la guerra del Libano, con la necessità del ponte aereo messo in funzione dopo solo sei giorni di combattimenti, ha appena finito di dimostrarlo - se Washington blocca l'invio dei pezzi di ricambio, l'80 per cento degli armamenti di Israele va in crisi. Dipendenza da questo governo americano, certamente il più ciecamente filoisraeliano di sempre, ma anche il più chiuso a qualsiasi idea nuova che non nasca dalla ristretta congrega dei (e delle) signorsì, cioè i famigli più stretti del boss. Come dimostra la misera fine del piano Baker - per quanto, o forse proprio perché, bipartisan, di altissimo livello e costruito su grandi e riconosciute competenze.

Poi c'è l'immane debolezza del governo di coalizione palestinese che si regge, tra un eccidio e l'altro autoinflitto, sull'equivoco di dichiarazioni e lettere d'intenti che gli uni interpretano diversamente dagli altri, e con l'Autorità di Mahmoud Abbas sotto perpetuo scacco d'una maggioranza di governo democraticamente eletta, cioè del tutto corrispondente ai canoni prescritti dalla "comunità internazionale" (in chiaro, cioè, dall'America di Bush) - canoni poi, non rispettati, non avendo dato l'esito desiderato. Maggioranza, dunque, a Hamas, acronimo di "Movimento di resistenza islamico": movimento che - capolavoro di lungimiranza - americani e israeliani aiutarono a crescere e finanziarono come appendice dei Fratelli musulmani in Palestina, con alla testa lo sceicco Yassin, per opporlo al Fatah di Arafat ("Movimento di liberazione palestinese"), considerato troppo laico e di "sinistra".

C'è una letteratura ormai nota ma molto istruttiva a documentare il fatto. Non la creazione endogena di Hamas, che non esiste, ma l'aiuto fornito sbagliando tutto dal Mossad e dalla CIA: un fenomeno di cecità che fa il paio solo con il cortotermismo con cui, per oltre un decennio, gli apprendisti stregoni dei servizi di intelligence - ossimoro eclatante - USA inventarono - qui sì - e tennero su al-Qaeda, la "Base", di Osama bin Laden. Una documentazione sintetizzata autorevolmente da una facile ricerca su due quotidiani israeliani di impostazione politica opposta, e di facile accesso perché pubblicati in inglese, come Ha'aretz e il Jerusalem Post: basta digitare insieme Hamas + CIA + Mossad per trovare, letteralmente, decine di testimonianze e di prove che dimostrano il fatto con grande dovizia di dettagli e di testimonianze assolutamente al di sopra di ogni sospetto.

Ecco, a questo punto, la novità vera è che, forse, perfino nelle tetragone file di Hamas, in quelle altrettanto caparbie e, forse, ancora più miopi di questa Amministrazione americana, in quelle, un poco più accorte, dei servizi segreti di Israele e in alcuni settori dello stesso governo emerge prepotente l'evidenza che per fare la pace è col nemico che bisogna trattare. Col nemico vero, quello cui e con cui fai la guerra ogni giorno. Non quello che ti scegli da solo…
Oggi, sul tavolo sono incontri, più o meno ravvicinati e più o meno riservati, e pubbliche dichiarazioni e il rilancio del piano saudita del 2002… C'è stato, e neanche USA e Israele l'hanno potuto ignorare questa volta, il vertice della Lega araba... Ci sono stati anche i viaggi - le navette quasi a ripetizione - persino apparentemente vane, della Condoleezza Rice in Medio Oriente . E molte indicazioni sembrano, in modi diversi, concorrere a riesumare, dopo la sepoltura che la banda Bushotti di più stretta osservanza aveva decretato al piano Baker iracheno, proprio la ripresa dì una "diplomazia attiva" nella regione da parte americana. Smentita in apparenza da mille altri contraddittori fattori, ma rafforzata proprio dal fallimento palese d'ogni altra tattica e strategia: l'impotenza verso l'Iran, se non si ricorre - e poi catastroficamente, avvisano tutti gli esperti - al militare; il fallimento dell'ultima "impennata" in Iraq.

Perfino la perplessa disponibilità, proclamata e insieme contraddetta, di parte israeliana a considerare la "possibilità" di parlare - giammai di trattare, si capisce: Olmert ha detto di voler discutere sulla possibilità di trattare con gli arabi per arrivare a discutere del piano saudita: non di discuterlo! ma ci arriverà… - e perfino, chi sa?, di arrivare a parlare domani (pubblicamente, perfino, chi sa?) con qualche palestinese "cattivo".

Il fatto è che Israele ha le spalle al muro. O prosegue sul vicolo cieco, e costosissimo sotto ogni profilo, delle soluzioni unilaterali e fallimentari - il blitz fallito in Libano, il ritiro da Gaza che, non concordato e improvvisato, ha aperto la strada alla fase attuale, caotica ed anarchica; o sceglie l'opzione di lavorare a un piano di pace comprensiva, come si dice, che annetta e modifichi tanto la road map americana quanto quella saudita, e che sia discusso e ratificato da una conferenza internazionale con tutti i contendenti veri. E tutti - tutti - quelli che stanno dietro di loro.

Le condizioni che aprono una strada, un percorso, possibile a una soluzione esistono e sono chiare. La prima è che, se una soluzione agibile si vuole cominciare a cercarla non può non radicarsi ormai che nel rispetto di alcune condizioni generali - per riassumere: la pari dignità delle parti in conflitto e l'adesione all'unico modello specifico che finora qui ha funzionato, quello dell'accordo di pace tra Israele ed Egitto di tanti anni fa. Una pace vera e comprensiva nel e per il Medio Oriente - una pace duratura, non una tregua effimera soggetta a ogni incidente e ogni provocazione - deve partire di qui, dal nodo Palestina, e basarsi su alcuni, pochi, elementi che qui possiamo appena tratteggiare: - i soggetti e insieme gli oggetti del problema, arabi e israeliani, vanno trattati equamente e ugualmente; -  sul piano interno come su quello internazionale, devono essere le ragioni del diritto, non quelle della forza, a definire l'agire sia dei governi che dei membri delle comunità di ogni paese coinvolto. Solo così può diventare agibile l'unica base di una soluzione in grado di funzionare: lo scambio di una pace piena per la terra occupata. Così come nel 1979 venne messa sul piatto della bilancia e dello scambio la restituzione del Sinai contro il riconoscimento politico e diplomatico, e rapporti normali, dell'Egitto - il più grande paese arabo - con Israele.

Certo, l'accettazione piena - i rapporti umani e d'affari, l'amicizia: diciamo come tra Italia e Svizzera - è obiettivo più duro da raggiungere; ma col tempo, partendo di qui, può anche realizzarsi. Se si accetta chel'unica soluzione possibile su cui continuare poi a costruire un futuro di pace è incardinata
 sulla restituzione dei Territori occupati dal 1967 - certo, con la necessaria duttilità e gli aggiustamenti anche territoriali dettati, in pratica, dalla durezza della storia e dal buon senso.
Il do ut des sarebbe l'accettazione e il riconoscimento politico di Israele, la pace con tutto il mondo arabo, almeno con tutti gli Stati arabi e tutti i movimenti popolari realmente radicati sul territorio. Certo, per definizione, non con al-Qaeda: che, appunto, però radicato non è, mentre minaccia di poterlo cominciare a diventare solo se gli si lascia lo spazio della reciproca negazione e delle condizioni che maturano dall'oppressione della disperazione continua. Ma almeno altrettanto importante, e più importante forse, sarebbe che questo scambio fosse trattato, contrattato, negoziato e non unilateralmente deciso ed imposto da una parte sull'altra.
Insomma per avere la pace bisogna che Israele si "rassegni" - tra virgolette -a smettere di essere ormai una potenza militare occupante. Perché il nodo vero, qui, è proprio l'anima di Israele.

Come ha scritto una delle voci magari discordanti ma anche tra le più rispettate del giornalismo israeliano, commentatore di Ha'aretz, i cittadini di questa democrazia a due livelli, uno per gli ebrei ed uno per i non ebrei, non devono stancarsi di raccontare, di raccontarsi, "di questo cancro che ci rode, più minaccioso per noi di qualsiasi terrorismo: l'occupazione militare  di un altro popolo" (Le Monde, 5.9.2006, Gideon Levy, intransigeant chroniquer du malaise israélien). Un'occupazione che, in pratica e senza soluzione di continuità, va avanti da quarant'anni: la più lunga occupazione militare del dopo colonialismo. La ragione fondamentale che fomenta paura, sospetto, odio e fanatismo.

Il nodo, in realtà, poi, è ancora più stretto. Perché, oltre all'occupazione - e radicato proprio nelle condizioni inevitabili che un'occupazione militare impone a chi la subisce come a chi la esercita - viene fuori l'altro aspetto del cancro profondo che corrode Israele. Quello cui accennava Gideon Levy. Il fatto è che gli ebrei di Israele, la maggioranza del popolo israeliano, devono finalmente vedere e capire che, per mettere fine allo stato di guerra coi palestinesi e con gli arabi più in generale, bisogna prima che rinuncino a discriminare, sotto diversi aspetti - insieme ai milioni di palestinesi militarmente schiacciati dall'occupazione - anche il milione di arabi che  cittadini di Israele sono essi stessi.

Devono smetterla non solo di discriminarli per legge, ma anche di pretendere che accettino - per essere cittadini leali - di essere discriminati.Anche perché questo aspetto di Israele nel mondo di oggi non è più accettabile. E non sarà più molto a lungo accettato. Dirlo con chiarezza, con onestà e in amicizia a Israele è il contributo vero che l'Europa, non malgrado ma anche e proprio per le responsabilità che su di essa incombono per il suo recente passato - il nazismo, il fascismo, l'antisemitismo - può dare.

Israele, insomma, come ogni altro Stato sovrano del mondo, ha diritto di essere riconosciuto e di vivere in pace, nel rispetto dei propri confini. Ma ha bisogno per essere così riconosciuto da tutti di definire una volta per tutte, come ogni altro Stato del mondo, i propri confini, geografici e politici. Di qui bisogna partire per trovare la chiave di una soluzione possibile. Di qui e dall'adozione del modello egiziano, quello praticato a Camp David nel 1979 col trattato che porta le firme di Anouar al-Sadat - che portò ad Israele il riconoscimento e la pace con l'Egitto; e da Menahem Begin - che all'Egitto restituì, appunto, il Sinai.

Oggi, è diventato chiaro, però, che non c'è più la condizione in base alla quale l'America di Jimmy Carter era accettata come honest broker, come mediatrice se non proprio al di sopra delle parti, come attore interessato comunque a garantire alle parti un'equa condizione negoziale. Da questo punto di vista - dell'equanimità, almeno percepita come possibile - gli Stati Uniti di Bush, ma ieri anche quelli di Clinton, hanno perduto ogni credibilità. Semplicemente perché al di sopra delle parti non sono ormai da anni . E negli ultimi anni sempre di meno.

E' vero, solo pochi anni fa anche gli Stati Uniti di Bush scelsero, per una volta, di associarsi all'Europa, nella ricerca di una qualche via d'uscita dal conflitto israelo-palestinese e, insieme, formularono un documento solenne come la road map. Era la fine di aprile 2003 ed era appena cominciata la guerra all'Iraq. Ma, dentro l'amministrazione Bush, almeno al segretario di Stato Colin Powell stava diventando chiaro quanto profondo si facesse già il rischio di un possibile impantanamento americano e quanto importante fosse, allora, acquisire una qualche benevolenza araba nei confronti dell'avventura mesopotamica. Con queste motivazioni - non di equità, dunque, non di giustizia, non di necessità della pace per tutti ma di pura opportunità "opportunistica" (cfr. M. Englar, Colin Powell, African-American Biographies, Raintree, 2005) - Powell, in quella che resta come la sua unica - ma apparente - vittoria sul nucleo duro dei Bushotti puri e duri, convinse un Bush riluttante a coinvolgere almeno pro-forma anche Francia e Germania, oltre alla fidatissima Gran Bretagna, nel tentativo di trovare lo spazio per concentrare le forze americane in Medio Oriente su quella che era diventata la battaglia principale, l'Iraq.

Di tutto aveva in effetti bisogno l'America, per combattere in un paese che da liberato stava rapidamente diventando occupato, meno che di farsi nuovi nemici tra gli arabi - non solo i regimi, anche e soprattutto le popolazioni - della regione. Ma era una strategia fasulla. Perché Washington rendeva insieme e subito chiaro, nei fatti e anche nelle proclamazioni, che di onorare e far onorare fino in fondo l'impegno preso e sottoscritto solennemente da tutti - la road map che, per l'appunto, prevedeva proprio una trattativa da pari a pari tra le parti direttamente interessate, l'ANP e Israele - non aveva proprio alcuna intenzione. E' un fatto. Basta che qualcuno, a casa loro o vicino a loro, recalcitri (Israele, o l'opinione pubblica statunitense, filoisraeliana - è  proprio il caso di dirlo - ciecamente e a prescindere) e tutto si blocca.
E' stato il caso manifesto del Libano. Si vedano su Haaretz del  18.7.2006, S. Rosner e S. Shamir: Il Senato(americano) presenta una risoluzione (totalmente bipartisan) che sostiene Israele (senza remore di alcun tipo: proporzionalità, diritto internazionale, quant'altro…) e condanna gli Hezbollah: senza remore di alcun tipo… neanche il fatto che, comunque, gli Hezbollah a casa loro stanno, che i bombardamenti contro le popolazioni civili  sono usati da sempre, da entrambe le parti,  su scala e con capacità micidiali largamente diverse, che i rapimenti di soldati nemici erano stati costume, fino ad allora, più di Israele che dei suoi nemici…
 
Ma noi, l'Europa, che quest'area ce la troviamo alle porte, abbiamo un interesse  vitale alla pace e, dunque, a quella pace. Perché questo è il nostro cortile di casa, questo è il Mediterraneo, questo è il luogo principe dove l'Europa - se vuole, se può, se sa - deve esercitare la sua "politica di vicinato", annunciata solennemente nel 2004 dall'Unione europea ad accompagnare, integrandolo e qualche po' tentando di bilanciarlo, il suo allargamento ad est. Altrimenti…, lasciamo perdere, rassegnamoci al rischio e aspettiamoci una conflagrazione più larga: sperando che, anche se inevitabilmente sarà catastrofica, almeno sia limitata. Questo per l'Europa… Immaginate, poi, per l'Italia che se vuol contare - o tornare a contare - qualcosa nel mondo è qui che deve anzitutto farlo.

Del resto oggi, nel 2007, è chiaro anche ai sicofanti più retrivi che è tramontato il sogno descritto con eloquenza enfatica nel 1990 da Charles Krauthammer, uno dei fondatori della scuola di pensiero neo-cons, in un saggio famoso sul "momento unipolare" di cui, diceva, avrebbe goduto l'America a lungo.
Era l'epoca in cui Fukuyama, altro neo-cons, andava scrivendo il suo famosissimo "La fine della Storia": lui che, ora pentito - nel prender atto di quanto clamorosamente sbagliasse (sono stato male interpretato, dice) - spiega che non voleva dire, in realtà, proprio la fine…Sentenziava Krauthammer per conto suo, e lui non ha mai rivisto il suo giudizio continuando a tifare per la continuità necessaria di Bush, che "la vera struttura geopolitica del mondo del dopo-guerra-fredda… è un singolo polo di potere politico e consiste negli Stati Uniti che si insediano all'apice dell'occidente industrializzato".

Ecco, il tramonto di questo "momento unipolare", se mai c'è stato, è un fatto del quale ormai prendere atto. A questo non ci spinge l'utopia delle anime belle (anche se utopia, secondo Tommaso Moro, non è necessariamente il luogo che non c'è, ma anche il luogo che "non c'è ancora"…) ma un indispensabile realismo coniugato, si capisce, anche alla necessaria cautela.

Perché è interesse nostro aiutare il mondo e, anzitutto, chi nel mondo è nostro condomino nello stesso "cortile di casa" - questo Mediterraneo qui, questo Medio che per noi è, però, un Vicinissimo Oriente - ad uscire dal pozzo in cui affonda da troppi anni. Per farlo, aggregato di medie e piccole potenze che siamo - come annotava, acido, Mao nel Libretto rosso, l'Europa in fondo è solo "una piccola penisola del continente asiatico" - ma potenzialmente un aggregato qualitativamente diverso dagli altri coi quali il pianeta s'è sperimentato finora.
E non ce lo diciamo da soli: ce lo ricordano il Terzo e il Quarto mondo, spesso; e cominciano a dirlo anche i cervelli più lucidi del nostro, del primo. Facendo suo lo slancio dei new global, Stiglitz ha appena scritto, col ragionamento stringente del premio Nobel dell'economia forse oggi più illustre e sensato, che "un altro mondo è possibile. Ma che adesso tocca all'Europa, per arrivarci, mettersi in prima fila".

Non è ragion sufficiente, secondo chi scrive, che l'America non voglia e Israele neppure. In fondo Israele dovrà "rassegnarsi". E' stato il più illustre degli ebrei dell'ultimo secolo, forse, Albert Einstein, che in una dura polemica col primo primo ministro di Israele, David ben Gurion - proprio sul modo in cui, scriveva, stava condannando a nascere lo Stato di Israele: isolato e nemico di tutti nella propria regione - ad ammonire che, in fondo, "ripetere e ripetere lo stesso processo, nella speranza che a forza di ripetersi si arrivi così ad un risultato diverso, è una delle definizioni più calzanti della follia" .
E Einstein, come gli capitava di frequente, aveva ragione.
Domenica, 15. Aprile 2007
 

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