Sei domande sull'Afghanistan

Per decidere se rimanere o andarsene servono risposte a problemi posti non dalla sinistra radicale, ma dal capo della missione Onu nel paese, da Jacques Chirac, dall'ex capo di stato maggiore britannico e dal suo successore... Con una domanda aggiuntiva per i media italiani
E va bene. E' difficile, forse è impossibile, addirittura - chi sa? - anche sbagliato dire andiamocene dall'Afganistan. Però, prima di autorizzare di nuovo il finanziamento della missione, il Parlamento dovrebbe esigere alcune risposte, almeno, ad alcune domande. Qui ne elenchiamo sei. Potrebbero essere almeno il doppio, si intende.

Lasciamo pure da parte quelle complessivamente riassunte benissimo  nell'intervento del presidente di Intersos, un organismo di volontariato che in Afganistan è presente - ed utile - davvero da anni (Nino Sergi, Afganistan: che ci stiamo a fare?). E quelle che impone, ormai, il dibattito internazionale e alle quali nessun governo di quelli che lì sono andati risponde se non con considerazioni di facciata (la figuraccia…, le promesse...: di chi poi? quando? discusse con chi?) senza mai dire veramente i perché. Allora, e rifacendoci a domande e rilievi di merito posti da autorevolissimi interlocutori, americani ed europei, in questi mesi, qualche risposta bisognerebbe trovare, prima di dire sì di sicuro, ma anche, certo, prima di dire di no.

1. Per primo, Tom Koenigs, il diplomatico tedesco a capo della missione delle Nazioni Unite nel paese, ha spiegato di non essere affatto d'accordo - ed è utile prenderne nota per costringere chi dei nostri avanza proposte ad approfondire - con la valutazione che della guerra stanno dando NATO ed americani: o più esattamente gli uomini che, a Kabul, parlano per gli americani, anche se formalmente, ed ovviamente, il segretario generale Jaap de Hoop Scheffer, olandese, parla per la NATO e non per la Casa Bianca.

Koenigs non ci sta. Scrive il Guardian (18.11.2006):  "Il capo delle Forze ONU: la NATO non può sconfiggere i talebani con la forza". "Oggi - dice Koenigs - alla NATO sono molto ottimisti: pensano di poterla vincere, questa guerra… Ma, qui, non c'è alcuna soluzione facile… Loro pensano che le Forze armate nazionali afgane ce la possano fare. E hanno ragione. Ma possono farcela loro, a mille condizioni, non noi. Perché, contro un tipo di insurrezione come quella afgana, nessuna forza di intervento internazionale ce la può fare".

Non sarebbe meglio, allora, parlarne, delle condizioni dello stare a Kabul, della logica dello stare a Kabul, se sia utile stare stare - e, allora, come stare - a Kabul? al di fuori di ogni sventolio di bandiere, di ogni indignazione anche sacrosanta magari - contro le cantilene oscene contro i morti di Nassiria, ad esempio - usate tropo spesso per coprire scelte che razionali non sono.

E poi - la domanda delle domande - non è neanche sul perché della non volontà politica (New York Times, 28.11.2006, editoriale, "Ciondolando verso Riga"). Il vertice della NATO di Riga del 28-29 novembre non ha visto nessuno, in pratica, se non chi non conta e finora a parole, dire sì a nuove truppe da inviare a Kabul. La domanda è un'altra: ma che c'entra l'Organizzazione per il Trattato del Nord-Atlantico (del Nord-Atlantico! creato, se ricordiamo bene - e ricordiamo bene - al solo scopo di opporsi all'Unione Sovietica: all'Unione Sovietica!) con l'Afganistan?

2. Da parte del governo italiano, si ritiene o non si ritiene sensata, non solo magari geo-strategicamente ma anche politicamente, la proposta che al vertice di Riga ha avanzato Chirac: che la NATO, come tale, dovrebbe invitare l'Iran (l'Iran!, avete capito bene) a far parte di un suo (suo, della NATO) gruppo di contatto di Stati e di istituzioni multilaterali per coordinare la missione in Afganistan (Financial Times, 28.11.2006, M. Arnold, D. Dombey e R. Morarjee, "Chirac cerca un ruolo afgano nella NATO per l'Iran in Afganistan")…

3. E' vero o non è vero che questa, nei fatti e al di là degli imbellettamenti tentati più o meno da tutti, è stata l'unica risposta che, a Riga, ha ottenuto Bush dopo aver chiesto agli europei di impegnarsi di più in Afganistan? O più esattamente, che l'unica offerta non nuova, in verità, ma reiterata è quella della volenterosa (e cortigiana) Polonia, di mille nuovi soldati che, però, arriverebbero a febbraio o a maggio del 2007, forse, e solo se a pagare i costi della spedizione sarà qualcun altro: cioè, gli americani stessi?(The Economist, 16.9.2006)…  E perché, allora? non sarà perché tutti hanno capito che chiedeva loro, in sostanza, di sostituirsi lì alle sue truppe?

4. Sapeva quel che diceva, o era un povero imbelle che dava fiato a borborigmi inani, Sir Peter Inge, già capo di stato maggiore e fieldmarshal dell'esercito britannico, quando ha detto papale papale che, in Afganistan, le forze armate britanniche "rischiano la sconfitta di brutto" (Observer, 22.10.2006, M. Townsend e P. Beaumont, "La Gran Bretagna sta rischiando la sconfitta in Afganistan")?

5. Forse che aveva ragione il suo successore come capo di stato maggiore, Sir Richard Dannatt (anche lui, purtroppo, solo alla vigilia del pensionamento), quando ha dichiarato al Daily Mail, giornale dell'establishment quanto nessun altro, che è ora di andarsene, subito, appena possibile, dall'Iraq  (12.10.2006, T. Shipman,  "Il capo dell'esercito dichiara guerra a Blair: 'Dobbiamo andarcene dall'Iraq, presto' "), ma con un ragionamento che è trasponibile tale e quale anche all'Afganistan, perché, semplicemente, la presenza delle truppe britanniche nel paese - lui parla solo per loro, si capisce - non fa altro che "esacerbare" tutti i problemi di sicurezza: in effetti, osserva, ci siano ridotti ad essere "solo una delle tante tribù…".

Dobbiamo capire, ha spiegato Dannatt, che "siamo in un paese islamico e che il punto di vista che hanno qui degli stranieri, specie degli stranieri in armi nel loro paese, è assai chiaro". Certo, in questo paese "gli stranieri sono anche invitati e sono ben accolti quando sono invitati, ma noi non lo siamo sicuramente stati a suo tempo da chi viveva in questo paese. La nostra campagna militare del 2003, in effetti, per entrare ha sfondato la porta.  Il consenso dei primi momenti, se mai c'è stato, s'è trasformato prima in tolleranza, in sopportazione forzata e, adesso, in intolleranza". In rivolta. E in Afganistan, per riprendere il nostro discorso, proprio come in Iraq…

6. Ed è possibile ottenere le risposte giuste - certo, ponendo nel posto giusto, in Parlamento, le domande giuste… - sulla reticenza e la renitenza del Pakistan a sostenere con convinzione gli alleati americani e gli altri in Afganistan? O la risposta giusta già è nota? E' quella di cui ha parlato qualche mese fa il presidente del Pakistan, il generale Musharaff, confessando che, nel 2002, a nome di Bush il vice segretario di Stato, Richard Armitage, ed il direttore della CIA George Tenet - gli dissero in faccia che se non li avesse sostenuti militarmente nella guerra all'Afganistan, anche il Pakistan "doveva prepararsi ai bombardamenti e ad essere risbattuto indietro, all'età della pietra" (intervista alla CBS statunitense, "60 minutes", 21.9.2006, "Gli USA minacciarono di bombardare il Pakistan).

Domanda suppletiva, magari, da fare non in Parlamento, questa, ma nelle redazioni dei grandi giornali d'informazione italiani: ma perché di queste notizie - e notizia, come dicono alla prima lezione nelle scuole di giornalismo, non è che il cane morda l'uomo ma che l'uomo morda il cane (e qui di morsi, da Musharraff a Sir Richard Dannatt ne sono stati dati parecchi, no?) in Italia non se n'è mai saputo niente?
Martedì, 30. Gennaio 2007
 

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