La politica del lavoro oltre i 'cento giorni'

Il nuovo governo non ha preso in questo campo provvedimenti immediati, ma questo, viste le ipotesi in campo, non sembra affatto un male. Sarebbe auspicabile che il confronto fra le parti sociali portasse a superare provvedimenti discutibili, come quello del "cuneo", a vantaggio di altre con maggior valore strategico
A circa due mesi dall'avvio del governo dell'Unione, pare ormai evidente che, in materia di lavoro, non vi sarà alcuna "politica dei cento giorni": il governo non sembra apprestarsi a varare in tempi brevi nessuna misura specifica, neppure quelle, previste dal programma dell'Unione, che, pur di modesto rilievo pratico, avrebbero potuto (e potrebbero ancora) segnare comunque il passaggio ad una nuova stagione. Non è necessariamente un male: evidentemente si sta riflettendo, per poi muoversi in maniera più meditata.
 
Si sta riflettendo sul da farsi, a quanto pare, anche a proposito del progettato intervento sul cuneo fiscale: quantunque l'enfasi con cui la proposta, di per sé estranea al programma dell'Unione, è stata lanciata durante la campagna elettorale avrebbe lasciato immaginare che la riflessione in proposito fosse stata fatta prima della sua formulazione. Evidentemente così non è stato. Non diversamente si potrebbe spiegare come mai, nel dopo-elezioni, sia emersa una molteplicità di possibili finalizzazioni della riduzione in parola. Riepilogando, la riduzione del cuneo potrebbe: a. essere introdotta "a pioggia", in favore esclusivo di tutte le imprese; b. essere introdotta "a pioggia", ma ripartendone il beneficio, in proporzione da stabilirsi, fra imprese e lavoratori; c. essere introdotta in favore delle sole imprese innovative, per sostenerne l'impegno nel campo della ricerca e dell'applicazione delle più moderne tecnologie; d. oppure in favore delle sole imprese esportatrici, quelle più direttamente esposte alla competizione globale; e. essere finalizzata al sostegno delle imprese operanti nelle aree regionali deboli; f. essere utilizzata come premio-incentivo per le imprese che assumono a tempo indeterminato.

Sarebbe anche possibile, naturalmente, una combinazione fra alcune delle indicate finalità, per non dire della complicazione ulteriore rappresentata dalle componenti del carico contributivo su cui incidere (aspetto già ripetutamente trattato su E&L). L'ipotesi di un intervento a pioggia, nonostante le insistenze delle imprese, pare aver perso terreno, a fronte delle obiezioni, ampiamente condivisibili, del governatore della Banca d'Italia e del ministro dell'Economia. Si dovrebbe trattare, dunque, di un intervento selettivo. Va peraltro ricordato che le misure selettive, a differenza di quelle generali, rischiano di essere riguardate dalla Commissione europea come aiuti di Stato, in forza dei discutibilissimi criteri con cui la Commissione medesima amministra le regole comunitarie in materia di concorrenza. Non essendovi dubbio che chi le propone sia di ciò consapevole, si deve allora supporre che la proposta si accompagni all'intenzione di aprire, se del caso, un duro negoziato con la Commissione: tanto più che a ciò sembrerebbe essersi rinunciato a proposito del rispetto dei criteri (temporali) del Patto di stabilità, come pure la riforma del Patto, attuata nel 2005, avrebbe invece forse consentito di fare.
 
Quanto alla possibilità di utilizzare la riduzione del cuneo in funzione di incentivo alle assunzioni stabili, resta poi da chiarire se la misura andrebbe a cumularsi, o meno, con la progettata reintroduzione del credito d'imposta per la medesima finalità. A quest'ultimo proposito, si ha l'impressione che alcuni esponenti del nuovo governo facciano affidamento un po' troppo esclusivo sugli incentivi economici alle imprese per sostenere l'impegno di contrastare la precarietà del lavoro. Vale la pena di ricordare allora, in primo luogo, che lo strumento del credito d'imposta, varato dal precedente governo di centrosinistra sul finire della tredicesima legislatura, non operava in maniera indiscriminata, limitandosi a sostenere le assunzioni a tempo indeterminato di lavoratori svantaggiati e, in misura maggiore, nelle aree regionali deboli. Gli incentivi economici all'occupazione stabile, d'altro canto, si inserivano in un contesto normativo assai più stringente rispetto alla possibilità di stipulare contratti di lavoro a termine.
 
Se si vuol rispettare lo spirito, oltre che la lettera, del programma dell'Unione in tema di lotta alla precarietà del lavoro, proprio da qui allora varrebbe la pena di partire: ponendo le mani ad una riscrittura delle regole in tema di lavoro a termine fissate dal decreto legislativo n. 368/2001. E' vero che attorno agli effetti di precarizzazione di tale disciplina circolano opinioni divergenti. Quelle minimizzatrici, in ogni caso, non tengono conto che effetti del genere, sempre che non si siano già prodotti, potrebbero assai probabilmente prendere corpo nel corso del tempo, ove la disciplina in questione dovesse restare immutata e mettere radici più profonde. L'elevazione notevolissima dei 'tetti' percentuali alle assunzioni a tempo determinato, consentita da molti dei più recenti contratti collettivi, del resto, è addebitabile proprio allo sfavorevole contesto normativo in cui oggi è costretta a muoversi l'azione sindacale in materia; così come la tendenza, che sembra già riscontrarsi, a un maggior tasso di permanenza nel lavoro a termine da parte degli stessi lavoratori è ragionevolmente imputabile all'evanescente disciplina delle assunzioni successive ("a catena") introdotta nel 2001, in palese violazione, oltre tutto, della direttiva comunitaria di riferimento.
 
La rivisitazione della disciplina del lavoro a termine dovrebbe accompagnarsi ad una parallela riformulazione di quella del lavoro interinale (l'attuale somministrazione a tempo determinato), introdotta dal decreto legislativo 276/2003 (attuativo della cosiddetta legge Biagi). Quanto al nesso fra legge Biagi e precarietà, nel programma dell'Unione si è espressa l'intenzione di cancellare le forme più discutibili di impiego del lavoro, come il job on call (lavoro intermittente) e lo staff leasing (somministrazione a tempo indeterminato). L'obiettivo è sicuramente condivisibile, non solo per ragioni simboliche, stanti le potenzialità di precarizzazione effettivamente riconoscibili nei due istituti in questione. Allo stato, peraltro, si può parlare al riguardo di mere potenzialità: la traduzione in pratica dell'obiettivo prefigurato non darebbe, a bocce ferme, un particolare contributo alla battaglia contro la precarietà, dal momento che, com'è ampiamente noto, job on call e staff leasing risultano praticamente inutilizzati da parte delle imprese. Ben altro impatto avrebbe un intervento sul lavoro interinale, riportando la disciplina relativa ai caratteri che le erano stati impressi nella tredicesima legislatura. Quella attuale, infatti, pare aver favorito un notevole incremento quantitativo delle missioni di durata breve e brevissima: utile per gonfiare le statistiche sull'occupazione, nel momento stesso in cui il mercato del lavoro si riempie di lavoretti e lavoricchi.
 
Quanto al contratto d'inserimento (di per sé anch'esso un contratto a tempo determinato), di cui pure il programma dell'Unione prevede la cancellazione, in questo caso l'indicazione appare forse troppo secca. L'esistenza di uno strumento negoziale atto ad agevolare l'accesso al mercato del lavoro degli appartenenti a determinate "fasce deboli" non sembra, in effetti, censurabile come tale. Quel che va ripensato, semmai, è il modello normativo accolto dal d. lgs. n. 276, in particolare per quanto attiene alla caratterizzazione necessariamente temporanea dei rapporti di lavoro in questione. Occorrerebbe dunque, in primo luogo, ridefinire in maniera più puntuale i "gruppi a rischio", meritevoli di sostegno da parte del legislatore, essendo ben noto che l'efficacia delle misure di agevolazione all'assunzione tende a decrescere quanto più si amplia la platea dei potenziali beneficiari; riconoscendo poi, in secondo luogo, gli aiuti pubblici all'assunzione soltanto nel caso in cui quest'ultima sia effettuata a tempo indeterminato.
 
Nella legge Biagi, e più in generale nella produzione normativa in materia di lavoro della passata legislatura, vi sono altri aspetti, dei quali poco si parla, che meriterebbero di essere fatti oggetto di interventi puramente e semplicemente abrogativi: rapidamente e a costo zero per la finanza pubblica e, al tempo stesso, con elevata capacità espressiva della volontà di imprimere un nuovo corso al diritto del lavoro. E' il caso dell'istituto della certificazione dei rapporti di lavoro, assolutamente strampalato dal punto di vista giuridico e che, così come risulta congegnato, può solo rispondere alla funzione pratica di rendere più difficile ed impervio per i lavoratori l'accesso alla tutela giurisdizionale dei diritti; come pure della conciliazione monocratica, affidata agli ispettori del lavoro dal decreto legislativo 23 aprile 2004, n. 124, con evidente distorsione di quella che dovrebbe essere la loro funzione istituzionale di controllo sul rispetto delle regole in materia di lavoro.
 
Per affrontare in maniera convincente la questione della tutela dei diritti, che forse scalda poco i cuori, ma pure resta di cruciale rilievo se si vuole che le tutele, astrattamente riconosciute ai lavoratori, non corrano il rischio di rimanere scritte sull'acqua, sarebbe necessario, d'altra parte, rovesciare l'ordine delle priorità fissato dal programma dell'Unione, collocando in primissimo piano una tematica cui nel programma si fa accenno quasi di sfuggita, in fondo alla lista delle cose da fare. La riforma del processo del lavoro, in effetti, è necessaria in generale e, in maniera particolarmente evidentemente, per le controversie più delicate, quali quelle in materia di licenziamenti e trasferimenti. E' appena il caso di notare che, all'indomani della vittoria elettorale dell'Unione, sono ricominciate a circolare, con la puntualità d'un orologio svizzero, proposte riguardanti la materia della flessibilità in uscita. 
 
Al di là del merito delle proposte in questione, occorre riconoscere che gli attuali tempi medi di durata del processo del lavoro producono un effetto di appesantimento dei costi del licenziamento, di per sé estraneo alla ratio protettiva sottesa alla disciplina dello Statuto dei lavoratori. Una nuova disciplina del processo del lavoro, comprensiva d'una procedura speciale d'urgenza per le controversie in materia di licenziamenti e trasferimenti (secondo le indicazioni tracciate nella tredicesima legislatura dalla Commissione Foglia), risponderebbe alle esigenze sia delle imprese, sia dei lavoratori (che sono, a guardar bene, i primi ad essere messi in difficoltà dalla lunghezza non preventivabile dei tempi del processo) e rappresenterebbe il modo migliore per difendere la disciplina di tutela nei confronti del licenziamento illegittimo dagli attacchi che, si può star certi, continueranno ad esserle portati dai liberisti di ogni sponda.
 
Resta sullo sfondo il problema della riforma del sistema degli ammortizzatori sociali: il quale, peraltro, rischia di essere ridotto ad una mera figura retorica, cui assegnare un ruolo di primo piano al momento della stesura di un programma, per poi degradarla prontamente al ruolo di comparsa quando si tratta di passare dal dire al fare. Non si può non osservare, peraltro, che la riforma in questione appare davvero assolutamente necessaria ed urgente. Se è vero, infatti, che un problema cruciale dell'economia italiana è quello della ricollocazione di parti significative dell'apparato produttivo nella divisione internazionale del lavoro, non può sfuggire che un sistema efficiente ed equo di ammortizzatori sarebbe lo strumento indispensabile per affrontarlo, contenendo per quanto possibile le ricadute sociali che processi del genere inevitabilmente comportano. 

La riforma degli ammortizzatori sociali non si può però fare a costo zero: l'intervento che sarebbe necessario comporta l'impiego di risorse ragguardevoli. Di quale entità? Grosso modo, probabilmente, la stessa, ma fors'anche qualcosa di meno, che occorrerebbe per attuare la riduzione di cinque punti del cuneo fiscale (alla quale si dovrebbero destinare 10 miliardi di euro secondo i calcoli di F. Roberto Pizzuti): con la differenza che, in questo caso, la finalità di politica economica e sociale della misura sarebbe chiara, incontrovertibile e, soprattutto, idonea ad innescare una prospettiva di sviluppo o, almeno, a contribuire a contrastare la tendenza al declino.

Davvero non sembra un male allora che, rispetto alle questioni sociali e del lavoro, si sia rinunciato ad una "politica dei cento giorni". Soprattutto per gli interventi che comportano l'impiego di risorse pubbliche, in un contesto di grande difficoltà per il bilancio dello Stato, sarebbe auspicabile che, attraverso un più ponderato confronto fra governo e parti sociali, si sappiano evitare scelte avventurose, privilegiando quelle in grado di guardare al futuro.
Venerdì, 14. Luglio 2006
 

SOCIAL

 

CONTATTI