Legge 30, come uscire da un fallimento

Non solo non ha fatto aumentare l'occupazione né stimolato l'economia, ma le infinite forme di contratti "flessibili" (a parte quelli a progetto) sono stati scelti da neno del 2% delle imprese. Per prima cosa bisogna fare un po' di pulizia, affidandola alla contrattazione fra le parti
Una puntualità straordinaria, quasi sorprendente. Che gli opposti schieramenti non avrebbero perso tempo nell'issare i propri vessilli attorno alla "legge Biagi" era prevedibile. Ma Luca Cordero di Montezemolo non ha nemmeno aspettato la fine della campagna elettorale e, ancora sotto schiaffo per la sceneggiata di Vicenza, ha rotto il riserbo (mettendo a repentaglio la conclamata equidistanza dai contendenti) e ha lanciato il monito-marchio di fabbrica: "La legge Biagi non si tocca". Per un alfiere del dinamismo imprenditoriale uno slogan da far impallidire De Maistre. Dal canto suo Guglielmo Epifani ha scelto il momento più delicato e denso di tensioni istituzionali attorno alla vittoria elettorale appena raggiunta di un soffio per ricordare al popolo e ai governanti (in pectore) che agli atti del congresso della CGIL sta non già il superamento di quella legge, come riassunto dal Programma dell'Unione, ma la sua cancellazione.

La legge 30/03 è in vigore ormai da due anni e mezzo. E' pur vero che manca all'appello (e ormai ci si può fare una croce sopra) il monitoraggio che il ministero del Welfare era tenuto a presentare: a chi ne regge le sorti sono sembrate preferibili minacce vagamente voodoo ("la maledizione ricada su chi profanerà la memoria di Marco Biagi"). Ci sono però dati e analisi ormai in gran copia per metterne bene a fuoco, oltre ai presupposti di valore, gli effetti. Su questo sito sono stati ospitati numerosi contributi (mi permetto di segnalare anche il volume collettaneo di Accornero, Trentin e molti altri: "La legge Biagi. Anatomia di una riforma", Editori Riuniti).
 
Riassumiamo di nuovo: non ha contribuito a far crescere l'occupazione (il tasso di occupazione, cresciuto ininterrottamente fino al 2003, da allora si è fermato e nel 2005 è ancora il 57,5%); non ha dato una spinta all'economia (quelli che spiegano la stasi dell'occupazione con le difficoltà dell'economia sono gli stessi che teorizzavano la necessità della riforma del mercato del lavoro perché la sua eccessiva rigidità impediva la crescita dell'economia: con le nuove regole, dal 2003 abbiamo la crescita zero mentre l'economia mondiale faceva segnare un exploit come raramente si era visto); nello specifico dei rapporti di lavoro, le "nuove" tipologie di lavoro nel loro insieme (a parte i contratti a progetto) sono state adottate da meno del 2% delle imprese italiane; l'apprendistato riformato (altro che centralità della formazione) è andato calando mentre i CFL sono stati aboliti e il contratto di inserimento non ha neppure visto la luce.
 
Viceversa il contratto a progetto, che doveva porre un argine alle co. co. co. dirottando verso il rapporto di lavoro dipendente quelle elusive e truffaldine, è diventato il rapporto di lavoro di gran lunga prevalente nei servizi (più del 50% dei nuovi assunti) e nell'industria tende ad eguagliare il contratto a termine che resta la tipologia contrattuale prevalente ma appare in calo (vedi Inchiesta ISAE del 13/4/06, www.isae.it), con buona pace delle previsioni di Pietro Ichino e delle vibrate proteste mosse allora da Confindustria (adesso, invece, guai a chi lo tocca?); infine il ricorso ai canali informali di reclutamento anziché cedere il passo alle agenzie di intermediazione (pubbliche o private) liberalizzate dalla legge 30/03, è aumentato, sia pur di poco, restando la modalità preferita dalle imprese (nel 71% dei casi secondo la stessa Inchiesta ISAE).

Una legge inefficace, dunque, che ha però fatto danni enormi sul piano culturale. Perché ha fatto passare l'idea che i rapporti flessibili fossero del tutto equivalenti e intercambiabili con quelli standard, contro una delle acquisizioni più importanti del cosiddetto modello sociale europeo, contro il comune sentire e contro le speranze dei giovani, della parte di società su cui si dovrebbe fondare la costruzione del futuro. Perché ha proposto come modello di relazioni tra governo e parti sociali quello feudale del vassallaggio, contro un secolo e mezzo di conquiste delle democrazie moderne.
Di questa legge i datori di lavoro vogliono ora fare un tabù? Dobbiamo considerare intoccabili sul piano del principio (e dell'ideologia) quegli stessi istituti che gli imprenditori in carne ed ossa si guardano bene dall'adottare nelle loro imprese per i danni che produrrebbero? Insensato.

Ma non appare molto più ragionevole porre al primo posto la sua cancellazione (o il suo sinonimo, l'integrale riscrittura, che evoca una terrificante sessione quinquennale di esercizi retorici e accademici attorno a codici e codicilli) quando occorre prima di tutto ripristinare le condizioni (materiali, culturali, politiche) da un lato per ridare dignità e prospettive al lavoro, stabilizzarlo, valorizzarlo nella sua concretezza (a partire dal rilancio dell'impegno formativo), dall'altro per liberare le relazioni tra le parti sociali, tra le grandi associazioni che con la loro rappresentatività devono essere protagoniste della dinamica sociale, dallo stato di minorità e di sudditanza in cui le si è volute relegare in questi ultimi anni.

Il programma dell'Unione contiene qualche indicazione chiara di priorità: incentivare (di nuovo) la stabilizzazione del precariato nella forma del rapporto dipendente standard; sradicare le forme elusive (a partire dal contratto a progetto) cancellandone alla radice il "vantaggio competitivo", del tutto ingiustificato; fare (finalmente) la riforma degli ammortizzatori sociali.

Afferma poi che si dovrebbe ripulire il catalogo delle flessibilità dalle bizzarrie e dalle iniquità più evidenti. Aggiungerei che si dovrebbe affidare quest'opera alla contrattazione, augurandomi che nessuna delle parti sociali si spaventi di questa prospettiva. So bene che due condizioni, che dovrebbero avere un valore preliminare, non sono invece date: una norma di principio per cui la legge non possa regolare i rapporti di lavoro in termini difformi da ciò che stabiliscono autonomamente le parti sociali, purché (è la seconda condizione) sia certa/certificabile la loro rappresentatività rispetto a coloro cui quelle regole si applicano. So anche di avere con ciò evocato i due macigni forse più grossi sulla strada dell'applicazione della Carta Costituzionale. Non penso si debba alzare bandiera bianca dopo sessant'anni, ma penso anche che per sessant'anni (a parte gli ultimi cinque) la sostanza di quei principi sia stata (per lo più) fatta salva. Riproviamoci.
Venerdì, 5. Maggio 2006
 

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