Caro Prodi, pensa anche al 'cuneo delle rendite'

Se il lavoro dipendente ha perso terreno nella distribuzione del reddito, specie negli ultimi anni, ciò è dovuto anche ai privilegi e ai monopoli che ordini professionali e imprese difendono con le unghie. Una questione determinante anche per la competitività italiana
Nella distribuzione del reddito il lavoro dipendente perde costantemente terreno a vantaggio delle rendite. Si tratta indifferentemente di rendite immobiliari, o finanziarie; da profitti in settori protetti, oppure da lavoro nelle attività presidiate da barriere all'accesso. Cioè quelle organizzate in "ordini professionali".
 
La diminuzione della quota di reddito per il lavoro dipendente è iniziata una quindicina di anni fa. Ma, nell'ultimo quinquennio, con il governo della destra, i segnali di un tendenziale arretramento sono diventati un vero e proprio ruzzolone all'indietro. Perciò aumentare i salari, ridurre le rendite ed eliminare gli sprechi della spesa pubblica (incluse alcune cosiddette "grandi opere", la cui utilità per il Paese non è sempre chiara, mentre chiarissima è quella di chi le costruisce) è quindi il primo compito di un nuovo governo che voglia davvero cercare di guarire l'Italia dai suoi guai.
 
Alcune proposte dell'Unione come: il riequilibrio della tassazione tra redditi da lavoro e rendite; la riduzione di 5 punti del "cuneo fiscale"  (meglio però se selettiva e comunque limitata ai settori labour intensive); la riduzione del vantaggio economico fiscale del lavoro precario rispetto al lavoro stabile; costituiscono misure che vanno nella direzione giusta.
 
E' bene sapere però che ridimensionare il peso e le pretese delle rendite non è un risultato che si ottiene facilmente. Nel pozzo di S. Patrizio delle rendite si pesca infatti di tutto. Ci sono le rendite immobiliari sulle quali le cronache dei mesi scorsi sono state illuminanti. La cosiddetta "bolla immobiliare", alimentata anche con ingegnosi imbrogli, è alla base dell'improvviso e miracoloso arricchimento patrimoniale dei vari Ricucci, Coppola e Statuto. Ci sono poi le plusvalenze miliardarie "esentasse", realizzate con acrobatiche operazioni finanziarie (incluse attività di aggiotaggio ed insider traiding,  non sempre scoperte e perseguite) che hanno fruttato migliaia di miliardi su cui non è stata pagata una lira di imposta. Una autentica vergogna, che in un paese serio avrebbe comportato la cacciata a "furor di popolo" del ministro delle Finanze che lo ha permesso.
 
Ci sono inoltre i profitti.  Il 2005 passerà alla storia dell'economia italiana per due cose: la "crescita zero" ed il boom dei profitti di banche ed imprese. In effetti, se si prendono in considerazione gli utili delle 15 maggiori imprese (tra quelle che hanno già reso noti i conti del 2005) si fa una interessante scoperta. Gli utili sono cresciuti dai 14.933,09 milioni di Euro del 2004 ai 23.391,44 milioni di Euro del 2005.  Con un aumento percentuale del 56,84 per cento. Guardando un po' più nel dettaglio si scopre che: gli istituiti di credito hanno messo a segno un più 60 per cento; le utilities un più 30 per cento; gli editoriali un più 20 per cento (compresa l'azienda del "povero" Berlusconi, che è infatti passata dai 500 milioni di profitti del 2004 ai 601 del 2005). 
 
Non è necessario essere economisti per capire che se l'economia non cresce ed  in compenso aumentano rendite e profitti il loro aumento può avvenire solo a spese di qualcun altro. Nel caso dell'Italia il conto è stato pagato dai salari. Ed è stato pagato sia con la perdita di potere d'acquisto (particolarmente per alcune categorie del settore privato), che con la crescita delle quota del lavoro precario in sostituzione di quello stabile. Infine c'è il fenomeno (già segnalato su Eguaglianza & Libertà, vedi qui) dei cambiamenti nella distribuzione del reddito delle famiglie, con la diminuzione della quota relativa al lavoro dipendente e l'aumento di quella del lavoro indipendente. Poiché quest'ultimo aspetto è rimasto finora ai margini, per non dire al di fuori dal confronto elettorale. mi sembra necessaria  qualche ulteriore riflessione.
 
Come sappiamo, tra gli "indipendenti" un posto di rilievo hanno le "professioni" per le quali accesso e tariffe sono saldamente presidiati dagli "ordini". Della necessità di "riformare" gli ordini si parla da decenni. Però senza alcun costrutto. Nella legislatura appena conclusa una proposta di legge è stata presentata dal sottosegretario Michele Vietti, ma non è approdata a nulla. Tuttavia sarebbe improprio parlare di occasione mancata. Per la buona ragione che la proposta Vietti si limitava ad aggiustamenti formali a cui corrispondeva un rifiuto di cambiamenti sostanziali.
 
Per onestà si deve anche riconoscere che pure la proposta contenuta nel programma dell'Unione rimane largamente al di qua delle esigenze. Una conferma arriva anche dalla riunione che si è svolta nei giorni scorsi tra Prodi ed i rappresentanti delle "professioni" e delle associazioni dei "nuovi soggetti professionali". In quella occasione il leader dell'Unione ha  tenuto a rassicurare gli uni e gli altri dichiarando che il centrosinistra "non abolirà gli ordini professionali", ma riformerà il settore sulla base di "un sistema duale"; fondato su "ordini professionali riformati" e sul riconoscimento delle "nuove associazioni professionali". In sostanza, da quel che si è capito, rimarranno in vita gli "ordini" ai quali si dovrebbe aggiungere un qualche riconoscimento delle "nuove associazioni professionali". Naturalmente si possono capire tutte le cautele (e le promesse) elettorali. Ma è arduo pensare che lungo questa strada si possa incontrare la soluzione del problema.

Oltre tutto, cosa siano queste "nuove associazioni" ce lo spiega il CNEL. Nel 2003, il Consiglio Nazionale dell'Economia e del Lavoro ha infatti inviato al Parlamento un disegno di legge per il "riordino delle professioni attualmente non regolamentate" istituendone contemporaneamente l'elenco. Ebbene, consultando l'elenco delle 155 associazioni iscritte al 31 dicembre 2004 all'albo del CNEL si possono fare curiose scoperte. Ci si imbatte infatti in organizzazioni assai pittoresche come: il Centro Italiano Astrologia; l'Associazione Italiana Mediatori Familiari; la Società Italiana Armonizzatori Familiari; il Reiki Amore Universale; l'Associazione Italiana Terapia Occupazionale; l'Associazione Italiana Professionisti Conoscenza; la Federazione Italiana Shiatzu; e numerose altre sigle esoteriche che raggruppano "attività professionali" della cui utlità, senza offendere nessuno, si dovrebbe sinceramente dubitare. Tra le organizzazioni registrate dal CNEL manca infatti soltanto la "Guardia Nazionale Padana", che in compenso risulta però già inserita nella lista delle associazioni che potranno beneficiare del 5 per mille. Vale a dire la torta di 270 milioni di Euro istituita dal ministro Tremonti per la felicità di parentes et clientes
  
Con questi lumi di luna è piuttosto improbabile che si riesca a riordinare ed ammodernare le professioni ed a contrastare le rendite di posizione, come sarebbe invece necessario, per una ripresa non effimera della crescita economica del Paese.  La ragione del mio scetticismo è presto detta. Gli ordini professionali sono 28 (record mondiale!) con 1.637.115 iscritti. La cosa curiosa è che tra questi alcuni risultano iscritti a ordini relativi a professioni che nel frattempo sono scomparse. Mi riferisco, ad esempio, a quello degli spedizionieri doganali, che è sopravvissuto alla scomparsa delle dogane. Oppure a quello degli agenti di Borsa, che è resistito alla soppressione delle "grida" e alla costituzione delle SIM.
 
Si può pensare che questa tendenza alla immortalità di "ordini ed albi" origini dal fatto che, nella maggior parte dei casi, le radici degli "ordini" affondano nell'Italia medioevale  e delle corporazioni. Oppure, più banalmente, con il fatto che oltre un terzo dei parlamentari esercita una professione ed è iscritta ad un "ordine", verso il quale mantiene un riconoscente "occhio di riguardo". In generale comunque, la strenua difesa degli ordini da parte degli iscritti si spiega con un impulso alla conservazione. Si spiega cioè con la paura individuale e collettiva di fronte ai processi di modernizzazione e cambiamento. Il nuovo preoccupa per istinto naturale. Spaventa ancora di più se costringe a passare da un rassicurante sistema di protezione ad uno di competizione. Soprattutto quando si pensa, o si teme, che il cambiamento possa mettere in discussione uno status sociale che assicura un corrispondente rendita economica. Da qui la resistenza verso ogni innovazione, percepita come intollerabile minaccia a storiche guarentigie.

Eppure sono sempre più evidenti i motivi per avviare una urgente azione di disboscamento degli ordini esistenti e di ridefinizione dei compiti per quelli che si ritiene debbano sopravvivere. Il primo è che gli ordini sono stati pensati ed organizzati per difendere i professionisti; non i cittadini ed i consumatori. Sicché quelli che rimarranno in vita dovranno attrezzarsi per assolvere a compiti del tutto diversi. Due in particolare: garantire un controllo adeguato della formazione (che deve essere permanente non solo iniziale); assicurare in modo severo il rispetto della deontologia. Mentre non potrà che essere del tutto bandita la pretesa di fissare tariffe vincolanti. Pretesa, di solito, contrabbandata come garanzia di qualità. Presunzione talmente infondata da non essere presa in alcuna considerazione da nessun altro paese del mondo occidentale.

Ma c'è anche un motivo pratico che è bene non trascurare. La liberalizzazione delle professioni nel resto dell'Europa è già avvenuta ed inoltre si è ormai consolidata un'idea integrata, globale dell'attività professionale. In effetti, quando un'azienda si rivolge ad uno studio professionale vuole trovare allo stesso tempo: l'esperto per le acquisizioni; il tecnico per valutare gli impianti; il consulente per i bilanci, e così via. Come in tutti i campi, anche in questo i ritardi si pagano. Così, intanto che da noi si  alzano barricate per difendere ordini ed albi e si resiste alla necessità di rivedere l'organizzazione degli studi professionali, la fascia alta del mercato delle prestazioni professionali finisce altrove. Del resto, basta fare mente locale alle Opa, alle fusioni, alle operazioni di nuove acquisizioni, per rendersi conto che per il ruolo di consulenti vengono quasi sempre utilizzati gli studi inglesi, americani, o di altri paesi europei. Comunque, raramente italiani.

Il risultato è che in un settore cruciale dei servizi, come le prestazioni professionali, scontiamo il fatto che le chiacchiere sulla competitività e sull'efficienza restano il modo più a buon mercato per dissimulare la realtà. In effetti (se si escludono i lavoratori dipendenti, soprattutto del settore privato, che hanno dovuto pagare una parte significativa dei costi dell'aggiustamento economico-produttivo) l'Italia resta un paese nel quale la cultura del protezionismo continua a fare premio su quella della concorrenza. In effetti, dalla grande azienda alle banche, dai servizi alle professioni, nessuno ama competere e tutti confidano nella protezione, nei monopoli, nei cartelli, nelle corporazioni. Adesso però dobbiamo sempre più fare i conti con le frontiere ed i mercati aperti. Se non si interviene tempestivamente sarà difficile riuscire ad arrestare il declino; frenare lo scivolamento all'indietro.
 
Tanto più che l'atteggiamento chiuso, protezionistico delle professioni si somma a quello di un capitalismo che, a sua volta, si è formato e cresciuto in una cultura protezionistica. Ed, anche per questo, oggi è sempre più rarefatto ed asfittico. Non è un caso che, mentre altrove il capitalismo è diffuso e anonimo, da noi corrisponde sempre ad alcune grandi famiglie che si ritrovano dappertutto. Nelle industrie, nelle banche, nelle assicurazioni, nei giornali. Imprese che riescono a controllare senza nemmeno l'incomodo di tirare fuori i soldi necessari. Siamo, in sostanza, rimasti prigionieri della vecchia cultura del "Salotto buono" di Mediobanca, o della sua variante caricaturale (quella dei "furbetti del quartierino"), che riflette un paese incapace di rinnovamento, poco articolato sul piano del potere economico, dove sono sempre di più quelli amano giocare a Monopoli e sempre di meno quelli che sanno fare nuovi progetti industriali.
 
In un contesto del genere il primo compito del nuovo governo non può che essere quello di cercare di fermare un declino economico, altrimenti irreversibile. A questo scopo, sul piano congiunturale, può essere opportuno intervenire sul "cuneo fiscale". Attenzione però. Se la competitività della quale c'è bisogno viene ricercata soprattutto nel contenimento dei costi, non ci saranno molte speranze di far uscire il Paese dai guai. Soprattutto se fossero rinviati (o, peggio, accantonati) gli  interventi strutturali. A cominciare da quello sul "cuneo delle rendite". Condizione imprescindibile per un recupero di efficienza e competitività
 
Venerdì, 24. Marzo 2006
 

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