Contrattazione e salari si discutono insieme

La storia recente insegna che sono stati efficaci gli accordi in cui si sono affrontati i problemi a tutto campo, mentre quelli parziali, come il "Patto di Natale", sono rimasti lettera morta. E' quindi sbagliato parlare di "due tempi"
La riforma degli assetti contrattuali è quanto mai attuale, per tutte  le motivazioni evidenziate ulteriormente dall'ultima stagione di rinnovi contrattuali, in particolare del contratto dei metalmeccanici. Per la Cisl essa, dunque, è una priorità. Da non intendersi ,tuttavia, come fatto a sé stante bensì come azione inserita in una rinnovata politica sindacale che rimetta al centro le relazioni tra le parti sociali e ricostruisca un nesso stretto tra politica contrattuale e politica economica attraverso il rilancio di una incisiva concertazione sociale con le istituzioni pubbliche.

Infatti l'imprescindibile e necessaria tutela dei salari ( e delle pensioni) dei lavoratori  può essere realizzata solo all'interno di una rigorosa politica di tutti i redditi e attraverso una più efficace politica contrattuale.

Sembra essere un po' artificiale la tesi sostenuta in un recente articolo da Pierre Carniti (vedi) secondo cui prima è necessario parlare di salari e poi (forse) di modello contrattuale.
Quando si parla di salari non c'è un prima e un dopo: serve la concertazione sociale e serve una riforma della contrattazione, come del resto dimostrano in modo inequivocabile le esperienze storicamente verificatesi con gli accordi del 1983/84 e del 1992/93. Accordi che da una parte affrontavano le politiche di controllo dei redditi su vari piani (prezzi, tariffe, fisco, spesa sociale)  e dall'altra intervenivano in modo diretto sulla contrattazione collettiva, nel 1983 stabilendo rigidamente le modalità di conclusione dei contratti nazionali allora bloccati, nel 1984 con la politica di anticipo sull'inflazione predeterminando la scala mobile, nel 1992 decidendo la fine della scala mobile, nel 1993 disegnando la nuova struttura della contrattazione.

Non c'è mai stato, dunque, un prima e un dopo ma sempre si è determinato un nesso stretto tra politica economica e contrattazione. Anzi potremmo dire  che quando gli accordi interconfederali hanno riguardato la contrattazione collettiva hanno avuto in parallelo la forza per poter esigere l'applicazione di provvedimenti di politica economica (come avvenne nel 1984 e nel 1993) mentre è successo che ponderosi ed impegnativi accordi concertativi che hanno eluso la questione contrattuale (come il patto di Natale del 1998) in breve tempo siano caduti nel dimenticatoio, rendendo sterile l'azione del sindacato nel suo complesso.
 
L'articolo di Carniti avanza una ulteriore e più forte motivazione  sul perché sia necessario " parlare di salari". L'assunto  in sostanza è che la perdita di quote nella distribuzione del reddito complessivo  verificatasi in questi anni a danno del lavoro dipendente deriva dall'accordo del 1993 che avrebbe fissato regole sbagliate nella determinazione dei salari e non avrebbe permesso la realizzazione di una adeguata politica di contenimento dei prezzi e delle posizioni di rendita.

Le questioni sono, in realtà, più articolate. Indubbiamente l'accordo del 1993 non poteva (né può) valere all'infinito. Come si ricorderà era prevista  una sua revisione dopo cinque anni, che, purtroppo, non  venne  realizzata per veti contrapposti e speculari di Cgil e Confindustria  nel 1998.

Comunque fino al 2000/2001 quell'accordo ha sostanzialmente tenuto, con il mantenimento del potere d'acquisto delle retribuzioni contrattuali. Nel periodo 1993-2004 sia nel comparto privato che in quello pubblico gli incrementi retributivi sono stati  del 35% circa, di pochissimo inferiori all'incremento dell'indice dei prezzi al consumo per la collettività nazionale che  è stato del 36%. La piccola differenza matura  dal 2002, da quando cioè  non viene più praticata la concertazione, esplicitamente abbandonata dal governo. L'accordo del 1993 da allora ha perso  progressivamente la sua efficacia fino a ridursi a vago riferimento per i rinnovi contrattuali costretti ad un "fai da te" sull'inflazione  faticoso e alla fine insoddisfacente per tutti, come ben dimostrano  le difficoltà nel rinnovare i contratti, gli effetti negativi sulla domanda interna, sui consumi, sulla distribuzione del reddito tra le famiglie di lavoratori (- 2,1%) e quelle con capofamiglia indipendente (+ 11,7%) nel periodo 2002-2004. 

Se si vogliono stabilire delle responsabilità, quindi, esse non vanno ricercate nella concertazione sociale ma proprio nell'esatto contrario, nel fatto cioè che essa venne abbandonata proprio nel momento più delicato, quando con l'avvento dell'euro e il change over  si è determinata la crescita incontrollata delle rendite commerciali ed immobiliari e si è allentata la politica di equità fiscale attraverso ripetuti condoni e concordati fiscali. L'insieme di questi fatti ha sicuramente avvantaggiato  il lavoro autonomo a danno del lavoro dipendente. 
  
Altri fattori hanno, poi, determinato i processi di distribuzione del reddito in questi anni.
Non possono essere sottovalutate le grandi trasformazioni intercorse con  la internazionalizzazione dell'economia, i fenomeni di liberalizzazione (e privatizzazione) dei grandi monopoli, la crisi della grande impresa, la bassa crescita europea e la crescita zero italiana, la struttura dei rapporti di lavoro, con l'avvento dal 1996 in poi delle tipologie di lavoro flessibili, via via incrementatesi nel tempo.

Tutto questo ha inciso direttamente ai fini della determinazione dei redditi da lavoro dipendente, anche a causa del progressivo rallentamento della contrattazione collettiva.
Fenomeno che, dalla seconda metà degli anni '90, si è manifestato in tutta Europa con una accentuata tendenza alla moderazione salariale e con accordi che in molti paesi hanno scambiato sostegno allo sviluppo e alla competitività  con più bassi incrementi retributivi.

Occorre, poi,  guardare dentro  alla composizione interna della quota del reddito al lavoro dipendente. Secondo  i dati della Banca d'Italia tra il 1993 e il 2004 i salari reali sono aumentati del 5,2% meno della produttività, cresciuta del 12,2%. In particolare ciò ha riguardato il settore privato con i salari reali al + 3,6% e la produttività al + 12,6%. In effetti, come rileva anche Carniti, la quota del reddito da lavoro dipendente cala di circa cinque punti  passando dal 70% del 1993 al 65% del 2004. Se si scende al dettaglio ci sono, tuttavia, delle sorprese.
 
La quota di reddito al lavoro dipendente tiene nei settori manifatturieri e nel commercio. Diminuisce, in qualche caso moltissimo, in settori come trasporti, telecomunicazioni, poste, energia/acqua/gas, dove  si realizza una contestuale crescita dei profitti. Si tratta di settori in cui è stata maggiore la  presenza di impresa pubblica, "nei quali le profonde ristrutturazioni dovute ai vincoli del bilancio pubblico e al vasto programma di privatizzazioni intrapreso negli anni '90 hanno determinato una rapida crescita  dell'efficienza produttiva e una dinamica più moderata del costo del lavoro. I guadagni in termini di efficienza e la crescita contenuta  del costo dei fattori produttivi non si sono riflessi in un proporzionale rallentamento della dinamica dei prezzi, traducendosi in un aumento della redditività." (Torrini 2005)

Stabilito quindi che la politica sindacale in questi anni ha dovuto affrontare situazioni complesse ed articolate, possiamo tornare al quesito iniziale. Tutto è risolvibile con una rinnovata politica di concertazione che gestita con rigore, delimitata nei contenuti e definita nella sua durata temporale punti a riequilibrare  il rapporto tra lavoro dipendente e rendite nella distribuzione del reddito?

Essa è necessaria  ma non sufficiente. La sofferenza che si è determinata sui salari  dipende anche dalla struttura della contrattazione e dai limiti che nel suo dispiegarsi , si sono progressivamente aggravati. Tra i principali ricordiamo:

- negli ultimi anni sono saltate le tempistiche contrattuali, con slittamenti temporali in tutti i settori e sempre più pesanti nei settori privati ma ancor più nel settore pubblico.

- il mancato sviluppo della contrattazione decentrata ha influenzato negativamente la crescita dei salari  ed ha impedito una adeguata  redistribuzione della produttività.

- le politiche salariali vedono una sempre maggior diffusione di forme di salario individuale  e l'accrescimento di una sfera autoreferenziale, poco trasparente, nelle remunerazioni dei livelli dirigenziali/manageriali più elevati.

In sostanza si sta  configurando in modo sempre più evidente  un indebolimento  del ruolo del sindacato come autorità salariale (qualitativa e quantitativa) e per altro verso una preoccupante erosione del perimetro in cui si esercita la contrattazione, stante la struttura sempre più frammentata delle imprese,  con estesi processi di terziarizzazione.
E' di vitale importanza per il sindacato arginare questi fenomeni, impedire che diventino strutturali e per questo è necessario che, al più presto, la contrattazione collettiva  recuperi  un ruolo di regolazione di questi fenomeni.

Anche perchè gli effetti sono particolarmente marcati nei confronti delle giovani generazioni. Secondo i dati della Banca d'Italia sui bilanci delle famiglie italiane, poste uguali a cento le retribuzioni mensili medie dei lavoratori maschi in età compresa tra 45 e 65 anni nel 1986, le retribuzioni dei giovani tra i 15 e i 30 anni, impegnati a tempo pieno, nello stesso anno erano pari ad 80.  Nel 2002, invece, questo valore era sceso a 70. Per le donne lo stesso rapporto è sceso dall'86 al 77 %. Si tratta di dati molto rilevanti che misurano sotto il profilo salariale  gli effetti della flessibilizzazione dei rapporti di lavoro e della frammentazione ulteriore della struttura delle imprese nel settore produttivo ma ancor più nel variegato mondo dei servizi.

Per tutti questi motivi, allora, occorre mettere in campo una strategia sindacale che punti esplicitamente a realizzare un nuovo accordo tra le parti sociali  e con il governo, che sostituisca innovandolo quello del 1993 e che, come quello, sia articolato su diversi capitoli:

- una rinnovata  e ben mirata concertazione sociale  con obiettivi precisi in materia di politica di tutti i redditi, di riduzione del peso fiscale sul lavoro dipendente, di controllo di prezzi e tariffe, per combattere le forme di rendita speculativa in tutti i settori, anche con  la liberalizzazione degli ordini professionali. Tutto questo per rilanciare lo sviluppo, l'innovazione, la modernizzazione del nostro sistema economico per poter reggere la sfida competitiva dell'economia internazionale.

- un rilancio della relazioni sindacali tra le parti sociali e la riforma degli assetti contrattuali che, senza smantellare il contratto nazionale, sposti il baricentro verso la contrattazione decentrata per poter effettivamente contrattare la distribuzione della produttività laddove essa si realizza e preveda una diversa durata del contratto nazionale (tre o quattro anni) nella quale salvaguardare il potere d'acquisto delle retribuzioni  rispetto all'inflazione.

- le politiche del lavoro con l'obiettivo di una stabilizzazione dei rapporti di lavoro,  la diffusione della formazione continua come diritto di ogni lavoratore, la copertura di tutti i settori e  di tutti i lavori con  ammortizzatori sociali che sostengano il reddito nelle transizioni lavorative, la parificazione contributiva di tutte le tipologie di lavoro dipendente, parasubordinato ed autonomo così da contrastare le consistenti pratiche abusive instauratesi in questi anni. In sostanza va costruito un nuovo Statuto dei Lavori.

-  la definizione per via negoziale del nodo controverso della rappresentanza delle organizzazioni sindacali nei luoghi di lavoro.
Venerdì, 24. Febbraio 2006
 

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