Sancita la fine dell'accordo del '93

I nodi da sciogliere nell’imminente futuro: distribuzione della produttività, attraverso un sistema di contrattazione di secondo livello più realistico e capillare, maggiore flessibilità e, al contempo, maggiore tutela nel mondo del lavoro
L'accordo raggiunto fra Fim, Fiom, Uilm e Federmeccanica, per il rinnovo del biennio economico del contratto nazionale dei metalmeccanici, è stato il frutto di una trattativa lunga e travagliata, durante la quale non solo si sono scontrate due opposte aspettative salariali, ma sono anche emerse questioni normative ostiche e delicati problemi di relazioni industriali.
 
Innanzitutto alla richiesta sindacale di un congruo aumento salariale, giustificata da elementari ragioni di recupero del potere di acquisto e di redistribuzione del reddito, l'associazione delle imprese ha contrapposto l'esigenza di contenere il costo del lavoro, a fronte della perdurante crisi del settore manifatturiero. Tale posizione in termini negoziali si è tradotta nella strenua difesa, da parte di Federmeccanica, del protocollo del 1993, la cui pedissequa e restrittiva applicazione avrebbe portato a un incremento dei minimi di soli 60 euro.

Le nostre rivendicazioni si basavano, però, sulla convinzione che di quell'accordo fossero venute meno alcune condizioni obiettive, nonché sulla constatazione che di fatto si sono interrotte le procedure di concertazione, essenziali per il suo corretto funzionamento. L'applicazione delle regole del Protocollo del '93 avrebbe condotto, infatti, a una politica di contenimento salariale iniqua nei confronti dei lavoratori e controproducente per l'intera economia, afflitta non più da tensioni inflative, bensì da un calo dei consumi e della competitività. Similmente non crediamo nella possibilità della nostra industria di competere attraverso la mera riduzione dei costi, ma ravvisiamo l'impellente necessità di puntare sulla qualità dei prodotti e sull'efficienza dell'organizzazione aziendale. Da questa divergenza di prospettive è derivato un impasse di dieci mesi, durante la quale il confronto si è andato ulteriormente complicando di spinose questioni normative, sul tema della competitività.

Alla fine, grazie ad un atteggiamento sindacale al contempo risoluto e concreto e grazie alle lotte ed ai sacrifici dei lavoratori metalmeccanici, è stato raggiunto un risultato positivo ed equilibrato, di notevole valore politico. L'intesa, difatti, prevede 100 euro di aumenti medi e sei mesi di slittamento della vigenza contrattuale, 320 euro di una tantum, nonché un elemento perequativo di 130 euro da erogare nel 2007 a coloro che non hanno elementi retributivi aggiuntivi rispetto ai minimi tabellari, a iniziare naturalmente da quei lavoratori che, non avendo la possibilità di ottenere il secondo livello di contrattazione, sono esclusi dalla ripartizione della ricchezza.
 
Anche per quanto concerne l'apprendistato, il mercato del lavoro e la flessibilità sono state individuate soluzioni ragionevoli e coraggiose, pur nei limiti imposti dalla natura economica dell'appuntamento negoziale.

In particolare, è stato regolamentato dettagliatamente l'apprendistato professionalizzante, istituto di accesso al lavoro che viene incontro alle esigenze sia dei dipendenti sia degli imprenditori. Con la sua diffusione, favorita da cospicui vantaggi contributivi, auspichiamo che l'inserimento dei giovani in azienda avvenga attraverso un percorso lineare, formativo e naturalmente finalizzato alla stabilizzazione.
Le novità contrattuali più importanti, coerenti con l'ambizioso assetto della normativa legale, sono l'ampliamento dell'ambito di ricorso all'istituto, il miglioramento del trattamento salariale, l'onere di conferma del 70% degli apprendisti assunti e la rimodulazione dei piani formativi.
 
La parte normativa più originale dell'accordo sottoscritto con Federmeccanica è, però, quella "sperimentale", relativa alla flessibilità dell'orario di lavoro ed al contenimento della precarietà.

In vero la discussione era partita malissimo, poiché dal versante datoriale si proponeva un mero scambio fra salario e flessibilità, tanto più inappropriato, quanto più importanti erano gli argomenti proposti. Consideravamo comunque indispensabile un confronto sul tema della competitività e del migliore utilizzo degli impianti, dato che l'impresa costituisce un valore non meno per i lavoratori che per i capitalisti, ma la flessibilità della prestazione doveva essere per sua natura trattata congiuntamente alla precarietà sul lavoro. Inoltre, poiché ci si trovava pur sempre nell'ambito di un rinnovo del biennio economico, qualsiasi innovazione non poteva assumere il carattere della stabilità, tutt'al più poteva tracciare un percorso utile al prossimo appuntamento negoziale, quello del rinnovo sia economico sia normativo.

Sulla base di queste considerazioni, Fim, Fiom, Uilm e Federmeccanica hanno concordato in via sperimentale di estendere a tutte le imprese del settore metalmeccanico, e non più solo a quelle stagionali, la possibilità di ricorrere all'orario di lavoro plurisettimanale, secondo la procedura di confronto con le Rsu già prevista nel nostro contratto. In parallelo è previsto l'insediamento di una commissione, che affronti il problema del contenimento della precarietà. L'ambizione di fondo è operare una progressiva convergenza fra due modelli al momento antitetici: un lavoro precario poco tutelato e molto flessibile e un lavoro stabile, ma fondamentalmente rigido.
Se la commissione non addiverrà ad alcun risultato, decadrà anche l'estensione sperimentale all'intero settore metalmeccanico dell'orario plurisettimanale.
 
Il successo di questo percorso evidentemente faciliterebbe il prossimo rinnovo contrattuale. L'esito positivo è subordinato a una duplice condizione: da una parte i sindacati devono riconoscere che nella nostra economia è insita un'istanza di dinamicità, che non può rimanere evasa per evidenti ragioni di competitività; dall'altra le imprese devono rinunciare a utilizzare la flessibilità come un mezzo per trasferire il rischio dal capitale al lavoro, poiché il trasferimento del rischio risulta illegittimo, se osservato da una posizione liberale, ingiusto, se vissuto da una prospettiva sociale, irrazionale, se considerato da un punto di vista economico.

In definitiva, sono soddisfatto della conclusione della trattativa non solo perché essa ha portato ai lavoratori metalmeccanici un aumento di 100 euro, ma anche perché, a dispetto delle difficoltà, essa ha affrontato tutti i temi posti sul tavolo, fornendo indicazioni utili all'incipiente discussione sulla riforma del sistema contrattuale.
 
Questa trattativa ha innanzitutto dimostrato l'obsolescenza dell'accordo interconfederale del '93, inoltre ha individuato i nodi da sciogliere nell'imminente futuro: distribuzione della produttività, attraverso un sistema di contrattazione di secondo livello più realistico e capillare, maggiore flessibilità e, al contempo, maggiore tutela nel mondo del lavoro.

E' stata felicemente risolta da Fim, Fiom e Uilm anche la questione della consultazione democratica dei lavoratori, con un accordo che, pur salvaguardato la sovranità delle singole organizzazioni, traccia un percorso unitario di azione rivendicativa e di coinvolgimento diffuso. Dopo anni di firme separate, è stato così possibile ritrovare l'unità sindacale.

L'unità sindacale è un valore e come tale non deve mai essere data per scontata; l'unità, infatti, non è un presupposto da cui partire, bensì un obiettivo, da perseguire con tenacia e realismo. Del resto che vi siano delle divergenze fra i soggetti che operano nella vita sindacale è affatto naturale, così come in questa occasione è accaduto alla controparte, evidentemente divisa al proprio interno da differenti opinioni sull'andamento della trattativa. Una volta raggiunta, però, l'unità garantisce un'azione rivendicativa più intensa, come hanno dimostrato le tenaci lotte dei lavoratori metalmeccanici.

Purtroppo, nelle ultime fasi della trattativa, a causa dell'inutile tentennamento degli industriali, le proteste si sono inasprite ed hanno comportato spiacevoli disagi per i cittadini. Bisogna sempre ricordare che la pace e l'armonia sociale sono il frutto di politiche accorte e lungimiranti; il disprezzo, quanto meno la noncuranza, per i diritti di due milioni di lavoratori è causa naturale di malesseri e di comprensibili moti di protesta.
 
Da questa vicenda contrattuale dobbiamo anche trarre un severo insegnamento: la difficoltà di portare a felice conclusione un negoziato in assenza di un sistema di relazioni industriali funzionale e condiviso, nonché l'indifferenza di una politica sempre più latitante dai problemi concreti dei cittadini.

Per quanto concerne quest'ultimo aspetto, possiamo quanto meno osservare che la classe politica gradualmente si ritira dalla gestione delle dinamiche sociali e che quindi una maggiore responsabilità investe i corpi intermedi. Anche alla luce di ciò, dodici mesi di vacanza contrattuale non possono rappresentare la normalità, sono il segno di una crisi che va risolta. Vi è addirittura chi mette in dubbio l'importanza del contratto nazionale di lavoro e chi denunzia una eccessiva ampiezza del contratto dei metalmeccanici.

Evidentemente il contratto nazionale rappresenta una conquista preziosa, a cui i lavoratori non possono rinunziare proprio quando la globalizzazione rende l'ambito nazionale semmai troppo angusto. Piuttosto si dovrebbe incominciare a parlare con maggiore vigore di contratto europeo. Naturalmente ciò non significa che tutto vada disciplinato centralmente in una sorta di furia regolamentatrice. La Uilm anzi sostiene la necessità della contrattazione territoriale. Solo attraverso quest'ultima potremo conseguire un sistema di secondo livello diffuso, poiché la ridotta dimensione media delle imprese italiane realisticamente impedisce una contrattazione aziendale capillare.
 
Infine, per quanto concerne il contratto dei metalmeccanici, mi sembrerebbe del tutto irrazionale smembrare l'unico contratto di vasta applicazione, mentre si denunzia da ogni parte il numero eccessivo di contratti collettivi esistenti. L'esigenza di discipline adeguate alle peculiarità di settore può essere soddisfatta attraverso allegati specifici.

Per inaugurare un nuovo corso di relazioni industriali, non basta un intervento meramente formale, ma occorre anche una maturazione culturale. Il coraggio, dimostrato, di saper affrontare le questioni nel merito è foriero di buone speranze, ma sussiste ancora dentro il sindacato, il mondo imprenditoriale e politico una forte diffidenza verso la bilateralità e, più in generale, verso il modello di relazioni industriali partecipativo. E' indispensabile, in proposito, che la politica faccia la propria parte, varando una riforma del mercato del lavoro e del Welfare a gestione tripartita.
Deve essere chiaro, però, che partecipazione e riformismo non sono sinonimi di moderatismo e che il conflitto non può essere mai eliminato, bensì può addivenire ad utile sintesi, quando si adotta come proprio orizzonte culturale l'interesse della società nel suo complesso.
Mercoledì, 8. Febbraio 2006
 

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