Leon: lo sguardo lungo di Lombardi

Ricordiamo con commozione l'economista Paolo Leon, scomparso l'11 giugno, pubblicando uno dei suoi ultimi interventi in occasione della presentazione di un libro su Riccardo Lombardi, con cui era stato in stretto rapporto. Una lucida analisi di questa fase politica che si chiude con l'invito a ripensare il cedimento al liberismo e recuperare una autentica cultura socialista
La sera dell'11 giugno è scomparso Paolo Leon, economista fra i più autorevoli e da sempre impegnato con incrollabile coerenza a favore del mondo del lavoro. Lo ricordiamo con questo suo recente intervento, il 3 dicembre scorso, in occasione della presentazione del libro di Luca Bufarale "Riccardo Lombardi - La giovinezza politica (1919 - 1949)" (Ed. Viella). Leon era sempre stato molto vicino a Lombardi di cui condivideva la visione politica. L'intervento è stato pubblicato sul sito dell'Associazione Labour.


“Molti hanno pensato che Lombardi raffigurasse gli elementi della civiltà come utopie: l’ambiente, i diritti civili, il lavoro e il non lavoro, il ruolo dello Stato, la pace, l’economia – per citarne solo alcuni. Non si trattava di utopia, sia perché alcune parti o sezioni di quelle cose erano in corso di realizzazione durante gli anni migliori del centro-sinistra (dalla nazionalizzazione dell’energia elettrica, alla sanità, all’istruzione, all’università di massa, al sistema pensionistico, alla disoccupazione, allo sviluppo del Mezzogiorno, alla ricerca) sia perché Lombardi voleva che allungassimo lo sguardo alle conseguenze delle riforme realizzate all’epoca: ci si sarebbe accorti di quanto lontano era il traguardo – socialismo o barbarie, riprendendo un motto francese, lasciava intendere che non c’è mai nulla d’irrevocabile e che dunque la lotta non è mai finita, quando si tratta dei diritti sociali e delle libertà personali: ce ne accorgiamo oggi, quando sicurezza e libertà entrano in conflitto.

Stiamo uscendo solo adesso dalla ventata reazionaria di Thatcher e Reagan, ma pochi dei residui velenosi di quella ventata sono stati spazzati via. Non li elenco tutti, ma ciascuno di noi può completarli con la propria esperienza.
Mi occupo di economia, e qui il portato della reazione di Thatcher e Reagan non è ancora eliminato, nonostante la terribile crisi del 2007-2009 (2015, per l’Italia): vuol dire che la trasformazione culturale è penetrata nel profondo della società. Sarebbe impensabile sostenere oggi che la Banca centrale non debba essere indipendente, che il profitto non sia lo scopo della società civile, che la spesa pubblica abbia effetti positivi maggiori della riduzione delle imposte, che la progressività sia essenziale non solo per la giustizia distributiva ma anche per l’economia, che esistano attività e servizi pubblici, come sanità, trasporti, istruzione, ricerca, sicurezza che non sono di mercato e non devono privatizzarsi (e che non dovrebbero essere sottoposti a tariffa), che esistano attività private da rendere pubbliche, che il PIL debba contenere i benefici dell’azione pubblica e i malefici di quella privata, che ambiente, cultura e ricerca sono più importanti dell’occupazione in quei settori, che l’organizzazione dell’impresa non debba vedere mescolati i ruoli di sfruttati e imprenditori, e che l’intervento legislativo sia necessario per garantire il diritto di chi è in posizione organicamente inferiore; che il sindacato non debba essere una lobby e lo sciopero non sia un’offesa al diritto dei cittadini, quale che ne sia la causa. Lombardi era critico del sindacato, ma era appassionato alla sua difesa, come strumento di diritti sociali.

Nei confronti dell’azione pubblica, sarebbe impensabile, oggi, una organizzazione a servizio della collettività, e non di interessi specifici, compresi quelli dei cittadini. Per questo molti diritti si trasformano in procedure burocratiche. Non molti si sono soffermati a riflettere sul perché, nonostante i progressi dell’informatica, le diverse amministrazioni ci appaiono tutte poco efficienti, molto inclini a ritenere che i diritti dei cittadini siano benefici da distribuire, dove l’omissione è la strada migliore per non incorrere in responsabilità dirette. In genere, le organizzazioni sono viste come piramidi, dove il capo, peraltro poco responsabile, è la rappresentazione dell’autorità, e i dipendenti non hanno né iniziativa né intelligenza esecutiva. Questa situazione deriva, però, in larga parte, dalla stessa politica di semplificazione, di esternalizzazione dei compiti, di privatizzazione. Analogo è il tema delle aziende pubbliche, ormai evanescenti e dove sono ancora attive, vengono assimilate a quelle private. Lombardi non pensava che lo Stato fosse un nemico da abbattere.
Saltando alla politica, sarebbe impensabile sostenere oggi che i partiti sono il veicolo della democrazia, e non i partecipanti ad una corsa da vincere, ed è anche impensabile sostenere che è spesso meglio perdere una battaglia, salvando un punto cruciale, che vincere con il solito bagaglio di opportunismo e cinismo. In generale, la cultura politica oggi non potrebbe essere più lontana dal pensiero di Lombardi.

Dopo la crisi, è però cambiato il mondo. Non c’è più la baldanza tedesca, il feroce sviluppo della Cina, il dominio delle armi americane: c’è scontro religioso, emigrazione, guerra, massacri. I mercati finanziari oscillano, ma non riproducono i fasti del passato decennio. La disoccupazione e l’inoccupazione di massa non sono state battute e, soprattutto, la distribuzione del reddito e della ricchezza sono orribilmente peggiorate. Resta la riluttanza, se non l’ostilità ad utilizzare l’intervento dello Stato nell’economia, e il potere costituito sembra fondarsi sul mercantilismo e forme surrettizie di protezionismo: la distruzione del ruolo dello Stato ha fatto dilagare la corruzione pubblica. L’Europa è indebolita, anche perché è ancora legata alle politiche thatcheriane (nemmeno quelle reaganiane) e teme la propria trasformazione in un vero e proprio Stato multinazionale. Gli stessi trattati atlantico e asiatico sono un incontro di interessi reazionari: servono a garantire una concorrenza che non rispetti diritti, ambiente, civiltà, e nella quale lo Stato più reazionario vince la gara delle esportazioni e dell’afflusso di capitali. Senza dire che i trattati che liberalizzano ogni cosa a livello internazionale, impediscono il formarsi di una cultura e una coscienza europee, e perciò sono un ostacolo all’Unione.
E’ partendo da questo arretramento assurdo, proprio quando il capitalismo degli affari è in difficoltà, che si deve immaginare di ritrovare la strada che Lombardi aveva indicato.

Dobbiamo, però, ancora capire perché i valori reazionari resistano anche dopo la crisi e, soprattutto, perché le politiche thatcheriane diano luogo piuttosto a nazionalismi fascistoidi che ad una rivolta di sinistra. Se aguzziamo la vista, osserviamo che il cosiddetto populismo dell’estrema destra reazionaria stravolge alcuni strumenti derivati dalla tradizione socialista: i nazionalisti nostrani o Europei si dedicano a favorire le masse più povere con promessa di escludere chi, provenendo da fuori, è ancora più povero, e con promesse di beneficenza pubblica, non certo come un diritto sociale; e far capire la differenza ad una cultura individualistica è molto difficile. Gli Stati, che hanno perso ruolo politico, si affiancano alle destre nazionaliste, perché, quale che sia la situazione sociale, non temono la diminutio di alcuni suoi membri (come gli immigrati), ma si rapportano solo a chi è più forte: un disastro per i valori socialisti. Forse Lombardi avrebbe detto che ciò nasce, in Italia, dalla sconfitta dei valori socialisti rispetto a quelli liberali, e che la sconfitta socialista non è che la continuazione di quella comunista.

Lombardi era un realista, anche se con lo sguardo al futuro, e ci avrebbe spinto a ricercare la ragione di ciò nel cambiamento sociale avvenuto paradossalmente anche a causa dei progressi sociali degli anni ’70, e di quelle riforme. Oggi si parla di riforme strutturali (forse appena un po’ meno negli ultimi mesi), ma si tratta di un insulto alle riforme di struttura del centrosinistra, forse la più organica ristrutturazione dello Stato e della società italiana successiva all’Unità. Le “nuove riforme strutturali” sono un’ipocrisia, e non vanno certo nella direzione di Lombardi: con questo tipo di riforme si vuole riportare la società a condizioni di ineguaglianza, con l’idea che sarebbe questa la molla, l’incentivo necessario per la ripresa economica, il benessere sociale, il progresso tecnologico e ambientale, l’efficienza pubblica: una semplificazione non solo degradante ma anche idiota della complessità dei rapporti sociali.

Lombardi avrebbe forse indicato la causa del consenso intorno a queste pseudo riforme nell’espansione della proprietà privata come effetto non desiderato delle riforme socialiste degli anni ’70: da allora, la casa in proprietà (per citare solo uno degli elementi del cambiamento proprietario) è diventata un obiettivo generalizzato, e questo è un segnale dell’assimilazione della cultura della classe lavoratrice a quella della classe proprietaria. I diritti sociali si sono trasformati in diritti individuali, ma ora il paradosso della storia è che i diritti individuali non derivano dal necessario sviluppo della persona, ma dalla ricchezza di ciascuno; e tanto più si è ricchi tanto più si è intestatari di diritti, e i poveri non sono solo poveri, ma restano ai confini della proprietà, ciò che mette in pericolo la loro dignità personale e li spinge verso un riscatto individuale, perciò nazionalista e razzista. La vana ricerca di sfuggire al Marx scienziato sociale, ha spinto la sinistra verso alternative piccolo borghesi, come il prudhonismo, il sansimonismo, per finire con la terza via di Blair.

Lombardi ci avrebbe detto che la reazione nazionalista all’immigrazione non è che un episodio della lotta fra poveri, dove però i poveri autoctoni difendono il diritto di non essere gli ultimi, perché sono ormai parte della classe media. Anzi, ci avrebbe fatto riflettere su come sia stata l’immigrazione a risvegliare ciò che era già presente ma nascosto: l’egoismo come valore, l’identità (nazionale!) come un diritto.
Una parte della responsabilità, e non solo culturale, ce l’hanno i socialisti perché, con un capolavoro della fatuità, hanno prima sposato la programmazione – per di più generale, applicata anche al mercato – per poi dimenticarla completamente, adeguandosi, insieme al PCI, alle politiche di breve periodo, a quelle di settore, a quelle territoriali, sperando che ciascuna sezione tra queste avrebbe creato elementi di socialismo.

Siamo tutti abbastanza marxisti da pensare che il cambiamento economico è una causa rilevante della trasformazione sociale. Forse, sia Lombardi sia noi abbiamo pensato invece che il cambiamento politico avrebbe portato al cambiamento economico e perciò ad una società più giusta, come tutti i riformisti fin da Otto Bauer: non ci sbagliavamo, salvo per il fatto che la società risultante dal cambiamento politico non era affatto più giusta. Del resto, anche il comunismo sovietico era fondato sullo stesso principio, e anche in quei paesi, la caduta del comunismo e dei suoi ideali di eguaglianza, ha ricostruito mai sopiti valori identitari, proprietari, egoistici.
Ci manca, oggi, una cultura politica socialista che sia comprensibile per le masse o, più modestamente, per la gente, che nel frattempo è più scolarizzata. Certo, non è nella cultura socialista che trova le sue radici il PD; e forse i disastri del socialismo italiano ed europeo frenano anche chi “sarebbe“ socialista, ma se ne vergogna. Tutto si può recuperare, solo che le divergenze originarie nella politica della sinistra riconoscano che il terreno comune è più rilevante di quelle divergenze. Confessare di aver ceduto alle sirene del liberismo durante tutto un lungo periodo di governo del centrosinistra, può aiutare a lavorare per unificare le file oggi disorganizzate. Il passato, per quest’opera di riunificazione è utile, ma va visto con gli occhi penetranti della critica lombardiana.”
Mercoledì, 15. Giugno 2016
 

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