Salario minimo, perché no a una legge

In futuro quelle definite in tal modo diventerebbero di fatto le norme unificate da applicarsi all’insieme dei rapporti di lavoro. Si svuoterebbe la contrattazione affossando definitivamente il sindacato, protagonista di quel pluralismo sociale che definisce una democrazia: ma se non cambia profondamente il suo declino rischia di diventare irrimediabile

Nel suo intervento su Eguaglianza & Libertà (Il sindacato e i frammenti ricomposti) Carlo Clericetti constata i problemi derivanti dalla crescente frantumazione del mercato del lavoro e suggerisce di rimediarvi con un intervento legislativo che “per il momento” fissi almeno il “salario minimo”. La sua indicazione nasce dal convincimento che “nella situazione di oggi” lo strumento per porre rimedio alle circostanze che devono essere fronteggiate “non può essere solo la contrattazione dal cui ambito si rischia di lasciar fuori non una parte soltanto, ma addirittura la maggioranza di chi in tutte le varie forme partecipa al mercato del lavoro”.

 

La preoccupazione è del tutto condivisibile, la soluzione invece (a mio giudizio) assai meno. Perché, al dunque, si tratterebbe di un intervento non a sostegno della contrattazione, ma di una suo progressivo svuotamento. Infatti lo stesso Clericetti ne è consapevole. Tant’è vero che non manca di sottolineare come, mentre per ora l’intervento legislativo dovrebbe riguardare il “salario minimo”, in “prospettiva dovrebbe  comprendere il complesso” di diritti che devono essere riconosciuti a “chiunque lavori in qualunque modo”. Quindi in futuro quelle definite per legge diventerebbero di fatto le norme unificate da applicarsi all’insieme dei rapporti di lavoro. Con poche eccezioni, come ad esempio figure professionali che possono ambire al riconoscimento di condizioni particolari.

 

So bene quale può essere l’obiezione. Non possiamo discutere di quel che potrà avvenire domani ignorando quel che succede oggi. E il dato di oggi è che la contrattazione langue e per di più i lavoratori che possono contare su una sua tutela sono sempre di meno. Tuttavia a me pare che il tema non possa diventare quello di come affossarla definitivamente. Ma, al contrario, cosa si può e si deve fare per rianimarla. A cominciare dai suoi contenuti, dalle forme di partecipazione, di coinvolgimento, di mobilitazione dei lavoratori. Compreso un radicale cambiamento dei rapporti tra le organizzazioni dei lavoratori. Perché è difficile credere a una qualunque riunificazione del mondo del lavoro, indipendentemente dallo strumento ipotizzato, se il movimento sindacale che dovrebbe rappresentarlo continuasse a restare diviso e persino contrapposto.

 

Insomma la questione vera che andrebbe affrontata è che: o il sindacato riesce ad attuare un profondo cambiamento rimettendo in discussione sé stesso, oppure il suo declino (anche a prescindere dalla volontà e dall’iniziativa dei suoi avversari) rischia di diventare irrimediabile. In questo caso la ragione di preoccupazione non riguarda tanto il destino dell’istituzione o del suo apparato, quanto quello della democrazia. In effetti, in questo come in altri campi della vita sociale, ciò che conta non è mai solo il punto in cui ci si ritrova, quanto dove si sta andando. O perlomeno si cerca di andare. Ebbene se il logoramento del sindacato (incluso lo svuotamento delle sue funzioni) dovesse proseguire anche la democrazia, che purtroppo è già in stato di salute  piuttosto precario, ne risentirebbe in maniera decisiva.

 

E’ esattamente l’opinione, non solo di chi scrive queste righe, ma assai più autorevolmente di Robert Dhal, che è stato uno dei fondatori delle teoria democratica pluralista e scienziato politico tra i più eminenti del secolo scorso. Come è noto Dhal (scomparso da poche settimane) ha  teorizzato il pluralismo sociale organizzato come sostanziale fondamento della democrazia. Secondo questo insigne professore di Yale infatti la democrazia rappresentativa in paesi di milioni di abitanti non può essere pensata e realizzata solo come un sistema dominato dal voto individuale degli elettori. Per funzionare gli interessi diversi si devono per forza organizzare. Al punto che per fare in modo che una democrazia viva è necessario un intero sistema di organizzazioni. Quindi non solo partiti, ma anche rappresentanze sindacali, professionali, associazioni di diverso genere, libere di costituirsi, finanziarsi, farsi valere.

 

In sostanza in Dhal l’idea schumpeteriana della democrazia intesa come regime della competizione tra élite per conquistare il voto popolare assume un più chiaro e convincente carattere deliberativo. La sua teoria che potrebbe essere definita “poliarchia inclusiva” prevede in effetti una proliferazione della competizione, non solo al momento del voto, ma ad ogni livello del conflitto e della negoziazione sociale. Per chi condivide questa teoria è del tutto evidente che quando la legislazione svuota la contrattazione (perché tende a diventare sostituiva) si finisce per sterilizzare anche il rapporto tra società e Stato, tra dialettica sociale e sintesi politica, tra democrazia formale e democrazia deliberativa. Insomma, la democrazia sostanziale subisce un duro colpo.

 

Inutile dire che questo esito non costituisce necessariamente un destino. A patto naturalmente che si abbia chiara la scala delle priorità e che vengano coerentemente compiute le scelte capaci di scongiurarlo.

Martedì, 18. Febbraio 2014
 

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