Sarà di stabilità ma ha poco equilibrio

Nonostante le pastoie dei vincoli europei la composizione della manovra poteva sicuramente essere più efficace e soprattutto evitare parecchie incongruenze. Ma serviva una volontà politica che questo governo, per la sua stessa costituzione, non può avere

Da una legge di svolta, così era stata presentata da Letta la legge di stabilità, siamo passati nel giro di qualche giorno, in risposta alle numerose critiche, ad una legge a la carte, in cui stabilito il costo (i saldi da rispettare) il contenuto era affidato al Parlamento. Il risultato sono stati i tremila e passa emendamenti presentati che se approvati, dato anche il loro contenuto, ne stravolgerebbero l’impianto e i contenuti. Rapida la retromarcia rispetto al rischio di non rispettare i saldi. 

 

E’ quest’ultimo l’unico vero programma del governo. Del resto Letta è stato tra i principali sostenitori di Monti, lo ha sempre difeso ed ha sempre indicato un governo in coalizione con Scelta Civica come prospettiva post-elettorale in caso di vittoria del Pd alle elezioni. Non si tratta ovviamente di un innamoramento per la persona, ma della condivisione della necessità per il nostro paese di rispettare i vincoli europei a prescindere dal convenire o meno della giustezza di questi vincoli e, in generale, delle politiche economiche europee. Votandolo come presidente del consiglio era, ed è, illogico aspettarsi comportamenti differenti.

 

Certo, all’interno di questi vincoli, era lecito attendersi di più. Una legge di stabilità non si giudica solo dai saldi, ma anche da come questi saldi si ottengono, ed è indubbio che da questo punto di vista il provvedimento è leggero se non impalpabile, come molti hanno sottolineato. Non dà risposte ai problemi principali dell’economia reale, non aggredisce la disoccupazione, non diminuisce la pressione fiscale in generale e sul lavoro in particolare, non introduce stimoli per la ripresa dell’economia. Affronta tutti questi temi, ma per nessuno stanzia risorse, non dico sufficienti ma quanto meno con effetti avvertibili.

 

Era possibile fare di più restando nei vincoli europei? Sulla carta certamente sì: un maggiore intervento sul fisco aumentando il carico fiscale sui redditi alti (in luogo dei contributi di solidarietà sulle pensioni più alte e sui redditi sopra i 300.000 euro che danno un gettito netto risibile), una nuova tassazione delle rendite finanziarie non limitata a colpire solo le famiglie e in grado quindi di offrire un gettito maggiore. Una scelta tra diminuzione del costo del lavoro e intervento sulle buste paga nette alla luce del fatto che da Padoa Schioppa in poi gli interventi volti a ridurre il costo del lavoro sono stati ingenti e numerosi, mentre quelli a favore dei lavoratori sono stati nulli. Tutto questo avrebbe potuto dare le risorse per un intervento più sostanzioso sulle detrazioni per i dipendenti contribuendo in misura maggiore ad una ripresa della domanda interna.

 

Si poteva fare di più sulla spesa pubblica, se non nell’immediato in prospettiva triennale. Ha ragione Fassina quando afferma che la spesa pubblica italiana non è superiore, al netto degli interessi, a quella di altri paesi simili a noi, ha torto quando ne deduce che non si possa ridurre. Non basta confrontare il livello della spesa pubblica, occorrerebbe anche confrontare la quantità e la qualità di servizi che quella spesa pubblica offre nei diversi paesi. Se a parità di spesa si danno meno servizi e di qualità peggiore si ha una spesa eccessiva rispetto agli altri. Si può quindi tagliare o può essere resa più efficiente aumentando e riqualificando i servizi. In questa scelta non si può ignorare il peso degli interessi da pagare e, in ogni caso, la legge di stabilità non opera in nessuno dei due sensi. Lascia anzi balenare la possibilità di un aumento della pressione fiscale attraverso aumenti delle aliquote e diminuzioni delle tax expenditures (agevolazioni fiscali) nel caso che la spending review prevista non raggiunga gli obiettivi di 3 mld nel 2015 e 7 mld nel 2016, con buona pace di chi nel sindacato chiede di utilizzare la spending review per finanziare una diminuzione del carico fiscale. 

 

Aldilà della volontà su tutto questo del duo Letta-Saccomanni, è la composizione del governo e il modo  in cui è nato a rendere impossibili interventi di questo tipo che presuppongono decisioni politiche non facili. Il governo non si è formato su di un programma condiviso che, date le differenti piattaforme elettorali, non poteva che essere raggiunto con lunghe e faticose trattative, come avvenuto in Gran Bretagna tra conservatori e liberali e come sta avvenendo in Germania. E’ nato nel giro di 48 ore per l’interesse di Berlusconi di stare nel governo, per i ripetuti K.O. subiti dal Pd nelle elezioni politiche e in quelle per il presidente della Repubblica e per la convinzione di Napolitano che la stabilità del governo era, ed è, un valore prioritario. La scelta di Letta-Saccomanni garantiva la continuità delle politiche di Monti sostenute da Napolitano, Berlusconi presupponeva con questo di avere una maggiore attenzione per i suoi problemi processuali e in più otteneva promesse sull’Imu. In tutto questo non vi era traccia di proposte/richieste del Pd impegnato a leccarsi le ferite prima e a discutere su congresso e sulle regole poi. Immaginare che in questo quadro il governo potesse operare diversamente rispetto ad una “semplice” adesione ai vincoli europei e che fosse in grado di prendere le decisioni “politiche” che stanno alla base di forti interventi sul fisco e sulla spesa era pia illusione.

 

Il governo ha essenzialmente galleggiato, perché solo questo gli era permesso. Ed ha dovuto affrontare il problema dell’Imu cercando le risorse necessarie per coprire 4,4 mld di minori entrate nel 2013. Basta confrontare questa cifra con le risorse messe a disposizione per Cig in deroga e per gli esodati per constatare il diverso peso che hanno avuto le richieste del Pd rispetto a quelle del Pdl. La “responsabilità” del Pd si è manifestata nella totale accettazione dei vincoli europei, nell’accettazione con ritrosia della sospensione dell’Imu e nell’assenza di proposte.

 

Il mancato pagamento dell’Imu sulla prima casa è un non senso dal punto di vista economico e fiscale, non lo è ovviamente dal punto di vista della stabilità del governo. Si tratta di un’imposta esistente in tutti i paesi, legata al territorio, un’imposta che è tra le meno evase e la cui eventuale evasione non dipende dalla natura del reddito ma è trasversale. E’ chiaro che in una situazione di forte pressione fiscale e di crisi duratura, il non pagamento dell’Imu sulla prima casa è una misura estremamente popolare, ma allora nella difficoltà di dire di no a un minore prelievo perché il Pd e i sindacati non hanno contrapposto una diminuzione di altre imposte, per lo stesso importo e con gli stessi enti beneficiari? Faccio riferimento alle addizionali regionali e comunali, aumentate rispettivamente del 30% e del 17% negli ultimi tre anni e gravanti principalmente su dipendenti e pensionati. Si sarebbe almeno posto Letta nella situazione di dover scegliere tra due richieste differenti. Ma, forse, in questa mancanza di richiesta non vi è solo la volontà di non porre in difficoltà il governo, ma anche la non consapevolezza del ruolo dell’Imu/Ici e delle addizionali sui redditi delle persone. Quando Padoa Schioppa tagliò i trasferimenti agli enti locali per 4 mld e tolse il blocco posto da Tremonti alla tassazione locale, i sindaci di Roma e Bologna (Veltroni e Cofferati) diminuirono l’Ici sulla prima casa e aumentarono l’addizionale Irpef, colpendo così i bassi redditi non proprietari di casa. Un intervento indubbiamente “classista”.

 

Stretto tra la necessità di rispettare i vincoli europei e quella di non mantenere per ragioni politiche interne l’Imu il governo si è inventate una nuova imposta sulla casa, la Trise, che avrebbe tra gli altri riferimenti i servizi locali indivisibili da addebitare, in parte, anche agli inquilini. Il risultato concreto è che, a prescindere dal peso effettivo che questa imposta avrebbe a seconda delle decisioni dei comuni sull’aliquota da adottare, passeremmo da un’imposta come l’Imu progressiva per via delle detrazioni ad una imposta proporzionale per l’assenza delle stesse. Due domande: ma a finanziare i cosiddetti servizi indivisibili non c’è già l’addizionale Irpef comunale (un amico malizioso mi dice che quelle servono a finanziare i gruppi dei partiti a livello locale)? Ma in ambito governativo quando si è elaborata la nuova tassa dove erano coloro che oggi sono per la reintroduzione delle detrazioni ?

 

Ho già detto perché credo che un imposta locale sugli immobili sia giusta, ma mi chiedo se si reintroducono le detrazioni, con conseguente aumento dell’aliquota base, e si fanno quindi uscire dall’imposta, per effetto delle stesse, gli inquilini, non si perde la caratteristica di service tax e non si torna di fatto all’Imu? L’unico risultato concreto sarebbe quello di aumentare i problemi di calcolo per i contribuenti e il lavoro per i Caf. Sarà anche un problema principalmente del Pdl, ma se poi i tedeschi non ci capiscono qualche ragione gliela diamo. Attendiamo con curiosità la fine di quella che, se non fosse per la situazione economica, appare a volte una telenovela.

 

L’intervento sulle detrazioni, come detto, è quasi impercettibile, 12 euro mensili per un reddito imponibile di 20.000 euro (1.270 euro netti mensili). Forse si porterà l’aumento a 15 euro, ma va ricordato che vi sarà anche una diminuzione delle detrazioni d’imposta al 19% per circa 500 milioni. Considerando che, secondo un’analisi del Caf Cisl sui 730 del 2013, il valore medio di queste detrazioni su di un reddito analogo è di circa 260 euro, all’aumento della detrazione per lavoro va sottratta mediamente una diminuzione di 14 euro annui (28 nel 2015).

 

Sempre secondo l’analisi del Caf Cisl, nell’ultimo triennio (2010-2012) le retribuzione medie nette in termini reali sono diminuite del 4,6% per effetto della situazione economica, del fiscal drag e del forte aumento delle addizionali Irpef locali. A questo si risponde con una diminuzione marginale dell’Irpef nazionale che non elimina il fiscal drag e senza fare nulla per bloccare probabili ulteriori aumenti delle addizionali Irpef. Stante la cifra stanziata è anche logico il restringimento della platea dei beneficiari, tenendo conto che il vantaggio sopra i 30.000 euro è inavvertibile. Questo, tuttavia, cambia la natura dell’intervento e lo trasforma da un intervento, sia per minimo, sul cuneo ad un intervento a favore dei redditi più bassi. Chi conosce il sistema fiscale italiano sa, vedi anche l’intervista di Vincenzo Visco sul Manifesto del 13/11, che i soggetti sui quali la pressione fiscale, date le aliquote e il meccanismo delle detrazioni, è maggiore sono i dipendenti e i pensionati di reddito medio, su cui maggiormente pesa la progressività dell’Irpef. Totale ignoranza in merito manifesta chi ha presentato l’emendamento sull’introduzione di “una soglia di esenzione dall'IRPEF per tutti i soggetti che dichiarano un reddito complessivo inferiore a 12 mila euro”; non solo ignorano quanto detto e propongono una misura che, se applicata in modo razionale, costa ben di più di quanto affermato, ma propongono una soglia che rischia di dare un premio a frotte di evasori portandola per gli autonomi dagli attuali 4.800 ai 12.000 euro. Tra i parlamentari del Pd urge qualche corso di formazione.

 

Sempre in tema di fisco da sottolineare l’assoluta assenza di norme antievasione.

Tanto tuonò contro le pensioni d’oro che il governo con la legge di stabilità incasserà 12 milioni di euro all’anno da un contributo di solidarietà su di esse, ma risparmierà 380 milioni nel 2014, 904 milioni nel 2015 e 1,4 mld nel 2016 per la minore indicizzazione delle pensioni sopra i 1.495 euro lordi mensili. Anche qui occorrerebbe un chiarimento su che cosa si intende per pensioni d’oro ricordando che una pensione lorda di 3.000 euro equivale a una netta di 2.180 euro.

 

Un’ultima annotazione sui vincoli europei di bilancio. Ricordo non solo il 3%, ma l’obbligo che noi abbiamo assunto di arrivare al pareggio strutturale, al fatto che questo vincolo lo abbiamo introdotto anche in Costituzione a partire dal 2014 (votato per ben 4 volte dai gruppi del Pd e dall’allora responsabile economico) e che dal 2015 scatterà l’obbligo di ridurre il debito di 1/20 all’anno della differenza tra il valore del rapporto debito/Pil e il 60%.

 

In questo quadro una politica di rilancio della domanda interna, l’unica in grado di invertire il trend dell’occupazione, è impossibile e, come afferma Fassina, “non è nella disponibilità di questo come di nessun altro governo nazionale. Lo scenario davanti a noi, nonostante la professione di ottimismo delle previsioni ufficiali sempre smentite dai dati effettivi, è di stagnazione e di rischi sempre più elevati per la sostenibilità del debito pubblico..… L'inseguimento della crescita via export, perseguita attraverso la riduzione del costo del lavoro, non può funzionare. Per una ragione algebrica: è impossibile che tutti i Paesi euro possano crescere via esportazioni. Affinché le esportazioni siano assorbite, qualcuno deve importare. L'euro-zona è troppo grande e (ancora) troppo ricca per trovare adeguata domanda esterna. Per promuovere una ripresa significativa, è necessaria un'inversione di rotta nella zona euro e puntare alla domanda interna europea”.  Ma questi “sono obiettivi eterodossi rispetto al mainstream, non più egemone ma ancora dominante. …. in particolare in Italia, dove i soggetti più forti continuano a interpretare i loro legittimi interessi secondo un paradigma insostenibile”.

 

Fassina ha ragione, ma la legge di stabilità si muove nel solco di queste politiche e il Parlamento non potrà uscirne. Non lo sapeva quando ha dato le dimissioni?

Letta ha sbandierato come grande successo il fatto che alla Conferenza di Parigi sulla disoccupazione giovanile si sia deciso di fare all’inizio del prossimo anno una nuova conferenza sul tema a Roma. Immagino la grande soddisfazione dei giovani disoccupati.

Martedì, 3. Dicembre 2013
 

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