Il Pd avversario di se stesso

L’ultimo rimasto a potersi definire partito è ridotto ad un fragile corpo politico intrappolato in un ginepraio di congreghe, cricche e camarille. Le primarie così congegnate non servono ad individuare un leader rappresentativo (anzi, rischiano di generarne due contrapposti), ma solo a contarsi in vista della spartizione delle nomine

Probabilmente sarò l’ultimo dei Mohicani ma, pur non essendo mai stato iscritto, rimango un impenitente sostenitore del partito politico e della sua importanza nella nostra democrazia costituzionale. Mi interessa quindi la situazione e la condizione del Pd. Perché anche Marco Revelli, malgrado lo consideri agonizzante ed in “crisi irreversibile”, lo riconosce come “…l’ultimo ed unico in Italia a chiamarsi ancora partito”. Ebbene, in queste settimane dentro il Pd si combatte, in parte alla luce del sole ed in parte sottotraccia, una battaglia di “apparente” democrazia. Interna ed esterna. Infatti, come è noto, la procedura per l’elezione del segretario chiede il ricorso ad elezioni primarie. In quanto il Pd è anche l’unico partito italiano che le prevede nel suo statuto.

 

Prima del loro svolgimento si è tenuto un estenuante dibattito, non assolutamente disinteressato, intorno ad alcuni nodi. In particolare: le primarie dovevano essere aperte o chiuse? Se aperte ci si doveva registrare in appositi albi? Il segretario doveva anche essere ritenuto automaticamente candidato premier? Alla fine di una sfibrante discussione (in cui è stata omessa l’unica decisione sensata che si sarebbe dovuto prendere: ossia bloccare il tesseramento sei mesi prima del voto per il segretario) la commissione congressuale ha deciso che a livello di circolo e di strutture territoriali avrebbero dovuto votare gli iscritti, mentre per l’elezione del segretario sarebbero stati coinvolti anche i simpatizzanti e gli elettori. E’ probabile che questa scelta sia nata dall’errata convinzione che basti una grande affluenza ai seggi ed ai gazebo per fare uscire il Pd fuori dalle secche in cui si trova. Oppure che sia prevalsa ancora una volta la mai verificata certezza di aumentare il consenso e legittimare presso l’opinione pubblica l’irriconoscibile linea politica del partito, trasferendola nelle mani delle “minoranze riflessive” che partecipano alle primarie.

 

La discussione sulle “regole” ha probabilmente tentato, anche se in modo distorto, di fare i conti con aspetti significativi della situazione politica. La democrazia rappresentativa è in grave sofferenza e non pochi pensano che sarà sostituita dalla telecrazia e dall’e-democracy. Intanto è ormai sotto gli occhi di tutti che, con il progressivo crollo degli iscritti, l’aumento dell’astensionismo ed il voto di protesta, il partito politico è in piena crisi di legittimazione e di consensi. I dati non lasciano dubbi. In ogni caso, il partito di massa non c’è più. Quello di classe è diventato l’organizzazione liquida del sociale territoriale. Quello dei lavoratori si è trasformato nella protesta arrabbiata dei “senza lavoro”. Quello della middle class sta squagliandosi, per lo scivolamento in basso nella scala sociale. Fioriscono sino all’inverosimile liste, sigle e personaggi in cerca di notorietà. Ma nonostante questi cambiamenti nessuno studioso serio può affermare che la democrazia politica, quella vera, possa andare avanti senza partito politico. Un obiettivo devastante di questa natura viene infatti sostenuto solo dal turpiloquio del comico genovese. Si può quindi ritenere che sino ad oggi, bene o male, democrazia e partito vadano a braccetto. A patto naturalmente che prima delle primarie, del web, il partito sia capace di dare la precedenza alle responsabilità della sua classe dirigente. Che a sua volta deve essere in grado sia di guidare i processi storici che avanzano; sia di elaborare l’offerta politico-culturale; sia di formare quadri, selezionando meriti, competenze e valori di moralità pubblica dei propri rappresentanti.

 

In questa necessaria sequenza di impegni irrinunciabili le primarie devono perciò essere uno strumento nelle mani del partito e non di “presunti” elettori e simpatizzanti. Tanto meno quindi un mezzo per strizzare l’occhio al “popolo sovrano”. Come invece si tende a fare con evidenti intenti demagogici. A maggior ragione tenuto conto che l’eletto delle primarie potrebbe addirittura essere altro dall’identità del partito, dai suoi programmi, dalla sua storia, dalle sue idee. Quindi, se il problema è quello di rinsaldare la fiducia tra un partito di sempre meno iscritti e di elettori in libera uscita, delegare alle primarie la risoluzione di questa crisi vuol dire semplicemente trascurare la ricerca di una comune visone della società e della domanda che, partendo dai piani “bassi” (dai circoli, dai territori, dai centri di cultura, dalle associazioni), non dimentichi mai la filiera delle responsabilità “alte”. Altrimenti si finirebbe con il deviare dal problema vero della crisi della rappresentanza, con il risultato che anziché guardare la luna si finirebbe per guardare il dito che la indica. Magari nell’illusione che, passando la palla agli elettori, si riesca a dare l’impressione di assecondare le loro preferenze, avvicinandoli al partito.

 

Mi rendo conto che queste valutazioni possono essere confuse con una tutela delle oligarchie e degli apparati, disponibili alle cooptazioni ma chiusi al ricambio, intenti a difendere il loro potere entro quello che tende sempre più a somigliare ad un museo archeologico. Ma non è cosi! Sono persuaso che, a valle del partito, è sempre presente una insopprimibile domanda di ricambio generazionale, della sua classe dirigente e del suo personale politico. Animata da donne e giovani. Il vero problema semmai è come realizzare questo ricambio e soprattutto se le primarie siano il metodo più efficace per selezionare competenze, meriti e qualità.

 

In proposito personalmente ho molti dubbi. Sono infatti convinto che l’indispensabile ricambio dovrebbe essere innanzi tutto ricondotto a regole certe di democrazia interna, partecipata e trasparente, ed in definitiva a responsabilità dirigenziali. Purtroppo in Italia la transizione alla quale stiamo assistendo ha trasferito la responsabilità del partito e della sua classe dirigente in un “altrove”. Nei movimenti, nelle liste personali, negli avanspettacoli itineranti, sul web, nelle ville padronali, nei talk show televisivi. A ingarbugliare le cose ha contribuito anche l’uso improprio del termine “primarie”. Che nel suo significato originario riguarda la selezione di un candidato ad una carica pubblica monocratica, mentre nel Pd si riferisce pure all’elezione del suo segretario. Per altro c’è da sottolineare  che se non fosse bastata la novità di selezionare un segretario di partito affidandosi alle primarie aperte (caso inedito nel panorama mondiale) il Pd le raddoppia facendo precedere la consultazione popolare da una riservata agli iscritti. Inserendo così nel proprio codice genetico la possibilità che si producano due diversi vincitori, con due diverse legittimazioni ed a quel punto, in potenziale rotta di collisione.

 

Non può che stupire quindi il capolavoro di ingegneria statutaria prodotto dalla dirigenza del Pd. Cioè dagli eredi di coloro che in Occidente per quarant’anni erano stati considerati rappresentativi della solidità e stabilità del partito di massa. Infatti nella prospettiva oligarchica che aveva dominato le innumerevoli transizioni e rigenerazioni degli ex Pci ed ex Dc, l’investitura diretta e plebiscitaria del candidato premier della coalizione doveva essere l’unico insuperabile cedimento al principio della personalizzazione della leadership. Per altro, l’esordio di Romano Prodi alla guida della coalizione di centrosinistra andava in questa direzione. L’aggancio avvenuto successivamente al doppio circuito elettorale di partito (prima i circoli, poi le primarie aperte) ha trasformato completamente il quadro. Il vincitore, da potenziale premier di tutti gli italiani, diventa infatti il capo corrente di una truppa minuziosamente conteggiata e gerarchizzata con le preferenze degli iscritti: colonnelli, maggiori, tenenti, sergenti, in ordine di grandezza del proprio serbatoio di consensi. Tutti pronti a rivendicare il loro peso quando si passa alle nomine interne all’apparato, od a quelle (assicurate con il “porcellum”, che malgrado gli esorcismi sembra destinato a resistere) per la Camera ed il Senato.

 

Così, accanto alla corrente del segretario si contano, con gli stessi criteri, quelle dei suoi competitor. Nonché le altre il cui leader ha scelto di non scendere direttamente in campo, dando il suo appoggio ad uno dei concorrenti ufficiali e riservandosi di misurare nel modo più accurato la sua forza sul territorio, con l’elezione all’assemblea di una propria (più o meno ampia) pattuglia. Il risultato è che al posto della chiara affermazione di un leader forte ed indiscusso, alla guida di un partito unito si ha una proliferazioni di correnti che non ha precedenti. Nemmeno nell’epoca d’oro della Dc al potere. Quindi la “ditta”, tante volte evocata come simbolo di una direzione collegiale, appare piuttosto come un “idra” dalle molte teste. Un fragile corpo politico intrappolato in un ginepraio di congreghe, cricche e camarille. Difficilmente in grado quindi di guidare il paese in un passaggio complicato come quello imposto dalla gravissima crisi economica, sociale e politica, con la quale siamo alle prese.

 

In questo contesto l’avversario più insidioso per il Pd rischia di essere soprattutto lo stesso Pd. Il quale prima o poi (meglio prima che poi!) dovrebbe quindi incominciare ad interrogarsi se le modalità del percorso intrapreso siano davvero quello giuste. Cioè effettivamente capaci di portarlo a rappresentare una speranza condivisa.

Domenica, 3. Novembre 2013
 

SOCIAL

 

CONTATTI