La Consulta apre i cancelli alla Fiom

La Corte Costituzionale ha chiarito che l’art. 19 dello Statuto dei lavoratori non può essere usato per escludere i sindacati dissenzienti. Ora la parola torna alle parti sociali, ma anche il legislatore dovrebbe battere un colpo

Per un giurista è imbarazzante commentare una pronuncia giurisdizionale senza averne letto il testo, narrativa di fatto e motivazione. Cionondimeno, questo è uno dei casi in cui ciò che conta, e fa notizia, è la decisione in sé. Sarebbe difficile sottovalutare l’importanza della sentenza della Corte costituzionale che sancisce l’incostituzionalità dell’art. 19 dello Statuto dei lavoratori “nella parte in cui”, come si legge nella nota diramata dal Palazzo della Consulta, “non prevede che la rappresentanza sindacale aziendale sia costituita nell’ambito di associazioni sindacali che, pur non firmatarie di contratti collettivi applicati nell’unità produttiva, abbiano comunque partecipato alla negoziazione relativa agli stessi contratti quali rappresentanti dei lavoratori dell’azienda”.

 

In effetti, l’art. 19 era stato utilizzato per negare alla Fiom il diritto di cittadinanza nel gruppo Fiat a mo’ di sanzione per la mancata sottoscrizione per dissensi di merito del contratto ivi applicato e, al tempo stesso, per blindare un mini-sistema relazionale nel quale l’escluso non può essere ammesso se non col consenso di tutte le parti firmatarie, che diventano così arbitri della libertà sindacale dei lavoratori. Come è noto, dopo la modifica referendaria del 1995 la soglia della rappresentatività del sindacato autorizzato a parcheggiarsi nella normativa promozionale si è abbassata al livello della singola azienda e la sua effettività è documentata dalla sottoscrizione del contratto collettivo che vi si applica – irrilevante essendo che sia l’unico contratto che il sindacato ha potuto o voluto stipulare e il contratto sia applicato in una sola azienda.

Nella sua versione originaria, invece, l’art. 19 era figlio dell’idea che, in Italia, quella sindacale sia una storia di confederazioni “doc” di cui il legislatore statutario neanche si sognava che si potesse mettere in discussione la rappresentatività.

 

E, tuttavia, pur avendo pensato per una ventina d’anni tutto il bene possibile del club delle grandi confederazioni come luogo (sono sue parole) della “sintesi tra istanze rivendicative di tipo micro-economico e di tipo macro-economico”, nel 1990 lo redarguisce: l’autoregolazione privato-sociale è cosa buona e giusta; però, la legittimazione dei sindacati deve essere accertata in base a “regole ispirate alla valorizzazione dell’effettivo consenso come metro di democrazia anche nell’ambito dei rapporti tra lavoratori e sindacato”.

 

In realtà, la versione dell’art. 19 sottoposta al vaglio di costituzionalità diverge due volte dall’indirizzo politico-culturale interiorizzato dallo statuto. Una prima volta, perché il sostegno legale originariamente concesso ai sindacati confederali spetta a qualunque associazione sindacale in qualità di agente contrattuale che gestisce interessi concreti e specifici, circoscritti anche al più piccolo campo di applicazione del contratto collettivo. Una seconda volta, perché la selezione del sindacato con visto d’ingresso nella zona del privilegio legale diventa una vicenda su cui interferisce necessariamente anche la controparte nella misura in cui è libera di scegliere i suoi interlocutori contrattuali.

 

Una volta posto il divieto del sindacalismo di comodo, il diritto alla contrattazione non può essere inficiato da divergenze insorte tra sindacati sul loro ruolo in una società che cambia o sulla funzione ultima del diritto del lavoro che alcuni di loro vorrebbero ancillare ai processi di cambiamento. Il punto è che – per quanto radicali possano essere – tali divergenze non sono altro che una dialettica cui la Costituzione non può negare riconoscimenti e i dissenzienti devono poter continuare ad esistere in un regime di libertà. E questo è un dato di realtà che non potrà essere cancellato almeno finché non sarà finalmente chiarito chi ha diritto a contrattare.

 

Può darsi infatti che la Corte abbia risolto un solo aspetto della questione. Essa ci dice che la libertà ad esistere di un sindacato non è subordinata alla sua disponibilità ad accondiscendere. Non può dirci però come un sindacato acquisti la legittimazione a contrattare. Infatti, la Fiom torna nell’azienda da cui era stata estromessa. Ma intanto è fuori come agente del rinnovo del contratto di categoria. Per questo, la parola torna alle parti sociali e, perché no?, alla legge. Una parola stentata. Balbettata. Inquinata. Sta lì a dimostrarlo l’estrema difficoltà di completare i discorsi giuridici sull’attivazione della principale fonte di produzione delle regole del lavoro. Quindi, ciò che allo stato può dirsi è che la sentenza della Corte ha costituito in mora le parti sociali, richiamandole all’urgenza di dare piena applicazione all’accordo interconfederale del 31 maggio di quest’anno. Che riprendeva quanto deciso con l’accordo del 28 giugno 2011. Che, a sua volta, riallacciava un dialogo cominciato nell’ultimo decennio del secolo scorso. Il tempo è scaduto.

 

Giovedì, 4. Luglio 2013
 

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