I profitti sporchi di Taranto

Parla Andrea Ranieri, che da segretario generale della Cgil Liguria ha seguito per anni le vicende dell’acciaio. “Riva comprò a prezzo stracciato dall’Italsider, ma ha investito solo per produrre e guadagnare di più infischiandosene dell’inquinamento. Serve un progetto nazionale, la chiusura fermerebbe anche Genova, Novi Ligure, Torino. E bisogna cambiare logica”

E’ una catena drammatica che esplode sotto i nostri occhi, rintrona nelle vie dei palazzi romani. Sfilano Alcoa, Sulcis e tanti altri nomi. Anche la vicenda dell’Ilva di Taranto rientra in questo quadro. E pensare che per l’acciaio tutto era cominciato a Genova negli anni 80 quando il manager Giovanni Gambardella aveva pensato di trasformare l’Italsider con un progetto dal nome seducente: “progetto Utopia”. La ragione di fondo di quanto sta succedendo oggi, osserva Andrea Ranieri, un ex dirigente sindacale che ha collaborato a lungo con Vittorio Foa e Bruno Trentin e ha lavorato molto nel settore dell’acciaio, sta nella finanziarizzazione dell’economia.

Che cosa ha provocato?

“Ha deresponsabilizzato le imprese rispetto ai territori dove sono situate, di fronte alla scelta di restare o di andarsene. Abbiamo dato spesso per scontato il fatto che se un padrone trova di poter fare profitti spostando l’impianto da un’altra parte, questa risulti una scelta quasi incontestabile”.

Anche l’odierna discussione sulla produttività appare fuori tempo?

“Appare arcaica perché ormai i fattori che determinano la profittabilità dell’azienda stanno fuori. Sempre di più le attività finanziarie di un assetto societario prevalgono sulle ragioni strettamente produttive. Occorrerebbe un salto di prospettiva e di qualità che appare lontano dalla discussione politica in corso. Sembra quasi che ci sia la convinzione che basti qualche aggiustamento mentre la crisi è di fondo, è di sistema”.

Hai vissuto a suo tempo uno scontro simile a quello in corso a Taranto?

“Ero all’epoca (dal 1989 al 1996, prima di andare al dirigere un dipartimento della Cgil nazionale) segretario generale della Cgil della Liguria. Ho seguito le vicende dell’acciaieria di Cornigliano e dell’Acna di Cengio, una fabbrica chimica. Qui c’erano i cortei di chi voleva chiudere e i cortei di chi voleva difendere”.

Come siete arrivati, all’Ilva di Cornigliano, a chiudere le lavorazioni a caldo, le più inquinanti?

“Parte negli anni 80 dall’Europa il progetto di un ridimensionamento della siderurgia col Piano Davignon, giustificato da un eccesso di capacità produttiva. Il 30 per cento dei dipendenti dell’industria siderurgica europea lascia il lavoro. L’Italsider italiana di Gambardella lancia il “progetto Utopia”, basato su imprese tecnologiche di cui si sta discutendo ancora adesso. Si dovevano perdere le aree a caldo di Cornigliano e concentrare tutto a Taranto. Discutemmo quel piano con molto interesse. Le tensioni stavano diventando pesanti, con una situazione simile a quella di Taranto oggi. C’era da una parte la Fiom che voleva il mantenimento dell’occupazione e dall’altra il famoso comitato delle donne di Cornigliano che denunciava le cifre spaventose dei morti e dei malati. La Cgil si spese in una forte battaglia anche interna. Tra i protagonisti voglio ricordare Franco Sartori, dirigente Cgil nel Ponente”.

Fini con un accordo?

“L’Italsider poco alla volta si ritira, e si costituisce il consorzio Cogea con il 70 per cento ai privati e 30 per cento all’Italsider. I privati sono Lucchini e Riva finché nel 1988 Riva prende la maggioranza del Cogea e si apre una discussione sul definitivo superamento delle aree calde liguri. Nel 1995 Riva compra tutto, anche l’Ilva di Taranto. Con effetti impressionanti per quanto riguarda la capacità produttiva del gruppo. Passa da 6 milioni a 14,6 milioni di tonnellate di acciaio prodotto. Il fatturato da tremila miliardi di lire a 9 mila trecento miliardi. L’utile netto da 112 a 145 miliardi”.

Riva per questa brillante operazione avrebbe pagato 1460 miliardi di lire, cifra irrisoria per molti osservatori. È così?

”E anche quei miliardi si riducono perché Riva apre immediatamente un contenzioso, paga una prima rata e poi non paga quasi più niente. E col balzo in avanti nei profitti si rifà immediatamente delle spese d’acquisto”.

Cominciano così i drammi ambientali che ora scoppiano?

“Quel colosso a Taranto doveva essere considerato una specie di polmone per il futuro produttivo dell’Italia. Da curare. Invece è stato possibile ridurre le emissioni di diossina in gran parte del paese ma si è reso Taranto enormemente esposto ai danni ambientali”.

Non bisognava portare a termine l’operazione?

“Considero l’operazione fatta a Genova una delle pagine più belle della nostra storia sindacale. Ma il gruppo Riva e l’Italia dovevano proporsi il problema fondamentale e non limitarsi a spostare al sud i problemi di nocività connessi alla produzione di acciaio”.

C’erano le risorse per affrontare da subito i problemi ambientali?

“Tutta l’operazione della semplificazione della siderurgia italiana è costata una barca di soldi, mentre la vendita a Riva fece incassare poco. Costarono molto, invece, ad esempio, i prepensionamenti. Io non leggo comunque la vicenda di oggi come una contrapposizione tra le ragioni del lavoro e quelle dell’ambiente. I giudici dicono una cosa importante quando affermano che è stata fatta una scelta (non si tratta di fatalità) tra l’inquinare o il non inquinare. Ovvero di investire per l’efficienza dello stabilimento e non altrettanto per l’ambiente. Le condizioni di rischio non cascano dal cielo, sono una scelta. Il grande balzo in avanti nella produzione e negli utili non è stato accompagnato dalla priorità da dare alla salvaguardia della salute”.

Ed ora?

“A Taranto c‘è bisogno di un progetto nazionale. Tutto dipende da Taranto perché se si ferma Taranto si ferma Genova, si ferma Novi Ligure, si ferma Torino. Da Taranto viene l’acciaio che poi viene lavorato nelle altre unità produttive e trasformato in laminati, macchine, frigoriferi… Occorre costringere l’imprenditore a impiegare una parte degli straordinari profitti accumulati. Occorre superare la logica di chi dice che se si paga troppo in sicurezza poi certe produzioni se ne vanno dall’Italia. Ritorno a quel che dicevamo all’inizio. Vale anche per l’Alcoa. E’ un principio da mettere al centro della discussione: v’è una responsabilità da assumere non solo verso gli azionisti ma anche verso gli operai e il territorio. E’ un principio che la politica dovrebbe far valere. Oltretutto l’economia che privilegiava solo la finanza e gli azionisti ha provocato la crisi che stiamo vivendo. Bisogna essere stufi di essere realisti seguendo i parametri che hanno dominato il mondo in questi anni e che stanno portando il mondo al disastro”.

Sabato, 29. Settembre 2012
 

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