Dal punto di vista del giurista non cè dubbio che la tutela più idonea e conforme a razionalità (in una parola: più giusta), rispetto ad un atto illegittimo che è stato commesso, è quella che riporta la situazione dei soggetti coinvolti al medesimo status quo, antecedente alla commissione dellatto stesso, beninteso se possibile.
Tanto per fare un esempio, a nessuno verrebbe in mente di negare a colui al quale è stata illegittimamente sottratta una cosa che gli appartiene, la tutela costituita dalla restituzione della stessa. Più in generale, gli ordinamenti giuridici evoluti prevedono sempre unopzione preferenziale in favore della realizzazione in concreto (cosiddetta tutela reale, o in forma specifica) degli interessi sottesi alle situazioni soggettive che non vengono spontaneamente attuate, o che vengono violate, mentre la tutela, cosiddetta obbligatoria, o per equivalente (che opera sul piano della corresponsione di un risarcimento), è tendenzialmente riservata alle ipotesi in cui tale realizzazione non è materialmente possibile, ovvero quando è il soggetto protetto dalla norma ad optare per questa via.
Del resto, già lattuale disciplina dei licenziamenti nelle imprese prevede, come è noto, alcune esenzioni dallapplicazione della tutela reale, motivate o in base al particolare rapporto fiduciario che caratterizza il legame tra il datore di lavoro ed i suoi collaboratori di vertice (è il caso dei dirigenti), o in base al particolare contesto dimensionale dellazienda, che sconsiglia la ricostituzione coattiva di rapporti inevitabilmente deterioratisi sul piano personale, a seguito della vicenda del licenziamento (è il caso delle imprese fino a 15 dipendenti).
Ciò detto, personalmente ritengo che le argomentazioni metagiuridiche degli odierni detrattori della tutela reale pecchino di una certa genericità. Esse, infatti, oscillano tra la necessità di attrarre le imprese estere, che non investirebbero in Italia anche a causa della presenza dellattuale articolo 18, e quella di eliminare un disincentivo, per le stesse imprese italiane, ad ingrandire le proprie dimensioni.
La prima argomentazione, infatti, è tutta da dimostrare: in un Paese carente dal punto di vista delle infrastrutture, con un debito pubblico elevatissimo, e nel quale dilagano criminalità organizzata, corruzione, evasione fiscale e disfunzioni della pubblica amministrazione, non mi sembra proprio che il deficit di attrattiva sia determinato dallarticolo 18. Quanto alla seconda, lesperienza tedesca sta ad insegnare che, nonostante la previsione della tutela reale anche nellambito di imprese con un numero di dipendenti inferiore a quello previsto dallarticolo 18, è stato comunque possibile lo sviluppo di grandi realtà produttive, senza eguali nel contesto europeo.
Ci sono, infine, altri due profili, che sovente vengono richiamati a sostegno della necessità dellabrogazione, almeno parziale, del rimedio costituito dalla reintegrazione nel posto di lavoro. Il primo attiene alleccessiva disparità di trattamento, che con lattuale assetto normativo si determina tra lavoratori troppo garantiti e lavoratori per nulla garantiti. In merito a tale profilo, a me sembra che lintroduzione di regole volte a negare la tutela reale a chi oggi ne è garantito, non abbia nulla a che vedere con lacquisizione di maggiori vantaggi per chi oggi non è garantito.
Laltro profilo concerne lelevato grado di incertezza conseguente al cattivo funzionamento del sistema giudiziario italiano, con le sue lungaggini e con i suoi, veri o presunti, margini di arbitrarietà. Ebbene, se i timori legati al funzionamento della giustizia possono in parte essere senzaltro condivisi, è tuttavia indiscutibile che la proposta contenuta nel disegno di legge governativo approvato la scorsa settimana sia destinata non già a migliorare, ma ad aggravare (e non di poco) la situazione.
Nellattuale sistema, infatti, una volta accertata linsussistenza della giusta causa o del giustificato motivo, il giudice dispone la reintegrazione, ed è il lavoratore che può eventualmente rinunciarvi, preferendo il pagamento delle mensilità sostitutive. In questo senso, dunque, lattività ed il potere del giudice sono limitati allaccertamento dellesistenza o meno della ragione giustificatrice del licenziamento.
Domani, se verrà confermato limpianto della riforma, il giudice sarà chiamato, in caso di licenziamento disciplinare, a decidere la tutela da accordare in concreto (reintegrazione o indennizzo). Quanto questa soluzione sia incoerente rispetto allobiettivo di de-processualizzare i licenziamenti, non è neppure il caso di enfatizzarlo eccessivamente, tanto è palese. A ciò si aggiunge il fatto che il diverso rimedio tra licenziamenti disciplinari e licenziamenti per motivi economici aprirà la strada a contestazioni del lavoratore, che si sia visto licenziare a suo parere fittiziamente per motivi economici, al fine di dissimulare il vero motivo: anche qui, con buona pace dellesigenza di non appesantire il contenzioso.
Relativamente ai licenziamenti per motivi economici, Pietro Ichino ha scritto che lindennità prevista in tali ipotesi dovrebbe essere garantita al lavoratore sempre e automaticamente, per evitare lalea della controversia in tribunale e al tempo stesso per farne un efficace filtro automatico delle scelte imprenditoriali.
Questa proposta la si condivida o meno ha senzaltro il pregio della chiarezza, ma sposta evidentemente la questione dal versante rimediale a quello del presupposto pre-giuridico. Affermare infatti che lindennità, in caso di licenziamento per dichiarati motivi oggettivi, è automatica, significa necessariamente sganciare il licenziamento in questione dalla sussistenza e dallaccertamento del giustificato motivo.
Il fatto che la proposta di Ichino sia paradossalmente migliore per il lavoratore di quella contenuta nel disegno di legge del governo (in quanto in base a questultima lindennità verrebbe corrisposta solo in caso di licenziamento ingiustificato), la dice lunga su quanto la tutela sia ben più importante dellaffermazione di un principio. Mantenere infatti intatto il principio (e cioè quello secondo cui il licenziamento deve essere assistito da giustificato motivo), e contemporaneamente depotenziare il rimedio che lo dovrebbe sostenere, dà luogo ad una situazione peggiore di quella che si verifica eliminando lo stesso principio.
(Questo articolo è apparso anche sullUnità - Claudio Colombo è docente nellUniversità di Sassari).