La vicenda siriana tra propaganda e realtà

La narrazione di una rivolta democratica contro un tiranno sanguinario è troppo di parte per essere del tutto vera. La questione è assai più complessa e si inquadra nel complicato scacchiere dell’area. E di sicuro c’è solo che la strada per uscirne è una sola, quella del negoziato

Ormai saldamente inquadrata la Siria nel fuoco della lente di ingrandimento dei fatti e misfatti del Medioriente ci sembra giunto il momento di una ricostruzione ragionata e ragionevole dei fatti e dei misfatti che la primavera araba lì ha scatenato: che sfugga – o, meglio, che cerchi di sfuggire deliberatamente ai miti e alla propaganda dei campi avversi— più laida, lasciatecelo dire, in misura inversa alla puzza di petrolio e di grande potenza che le sta dietro.

Girano due narrazioni antitetiche, come le chiamano ora, sulla crisi della Siria. Una dice che la grande maggioranza dei siriani si sono sollevati contro la brutalità di una dittatura criminale (linguaggio riservato, però, solo a questa dittatura criminale, non a quelle del Bahrain amico e alleato né della Arabia saudita alleata ed amica, per dire, che reprimono con le armi e negano sistematicamente i diritti dei loro sudditi almeno come e quanto il regime di Damasco…).

Il risultato è che il governo di Bashar al-Assad è stretto alle corde, isolato regionalmente e internazionalmente e riesce a restare al potere solo perché Russia e Cina hanno messo il veto all’intervento dell’ONU. La segretaria agli Esteri Usa, signora Clinton, ha diplomaticamente chiamato Assad un “criminale di guerra”(1) e il suo portavoce Frederic Hof, già a dicembre scorso aveva detto al Congresso che Assad è un “morto che cammina (2)”.

Il secondo racconto parla di una sinistra alleanza tra monarchie feudali, Usa e altre potenze occidentali e una serie di schegge e fazioni al-qaediste e fondamentaliste che, sfruttando cinicamente la voglia nuova di democrazia cui aspirano anche i siriani come tanti altri popoli della regione, puntano a sovvertire un regime tra i più secolari, laici, del Medioriente che, malgrado tutto ma in sostanza per paura del peggio, la maggioranza della popolazione sostiene, per rovesciarlo e trasformarlo in una ridotta islamica estremista, facendo di Damasco un alleato alla saudita proprio, ma subordinato e fedele a Washington e alle sue priorità, appunto, come l’Arabia saudita contro l’Iran e gli Hezbollah del Libano.

C’è del vero, come quasi sempre, in tutte e due le versioni ma, a questo punto, diventa cruciale separare il mito dalla realtà perché è in questo paese, la Siria, che si colloca il cuore strategico del Medioriente. E sbagliare qui potrebbe far davvero cadere tutti i tasselli del domino dal Cairo a Teheran, da Beirut ad Amman. Ma anche a Riyād e, forse, a Gerusalemme.

E allora proviamoci. Non c’è dubbio che lo scorso marzo le dimostrazioni di massa scoppiate a Damasco e in diverse altre città della Siria hanno rappresentato per lo più una reazione spontanea alle notizie di arresti e torture perfino di alcuni scolari a Deraa (3). Così come sembrano esserci pochi dubbi che ad alimentare la rabbia diffusa che sottostà alla rivolta, ci sia anche il clientelismo rampante intorno alla famiglia Assad o, almeno il suo dominio assoluto sull’esercito, sulle forze di sicurezza, su gran parte del sistema delle telecomunicazioni, delle banche e dell’edilizia.

Ma non c’è neanche alcun dubbio che molti attori esterni – in specie tutta la sfilza di monarchie, satrapie e sceiccati del Golfo Persico, gli Stati Uniti, la Francia e la Gran Bretagna e tutta la galassia delle organizzazioni estremiste sunnite – da al-Qaeda ai gruppuscoli più variegati – abbiano messo i loro ferri nelle braci roventi della rivolta in Siria.

E c’è la profonda, tragica, ironia, della condanna sdegnata dei paesi del Golfo per l’oppressione dei cittadini siriani, in arrivo da regimi come quello saudita o del Bahrain che sono fra i più efficienti nel reprimere e capillarmente schiacciare – con  la frusta, la tortura, la scimitarra e anche i carri armati – i movimenti democratici che cercano di affacciarsi timidamente alla luce nei loro paesi.

E’ l’ironia della storia per cui Obama e la Clinton si trovano schierati a favore dei ribelli siriani accanto al Dottore in Medicina e in Chirurgia, master con superlode all’università del Cairo, Ayman Mohammed Rabie al-Zawahiri, leader supremo di al-Qaeda, successore di Osama bin-Laden: il superterrorista, Zawahiri, che adesso ha sulla testa (morto o vivo come dicono i cartelloni segnaletici most wanted dell’Fbi, una taglia (4) ora alzata a 50 milioni di $.

E se il regime di Assad è stato certo brutale con le migliaia di morti (7.500-8.000 in totale tra le due parti) che si ritrova sulla coscienza, che dire del regime di Netanyahu che sul gozzo ha il bombardamento a tappeto condotto sulla città di Gaza a cavallo tra 2008 e 2009 – l’operazione Piombo Fuso –  con una percentuale pro-capite di palestinesi ammazzati ben superiore? Ma qui, in Medioriente, sempre e dovunque trionfano i due pesi e le due misure e impera l’ipocrisia— per cui gli Usa che mettono il veto alla condanna di Israele in quell’occasione vanno bene e la Russia che con la Siria fa lo stesso, naturalmente, non essendo gli Stati Uniti, va condannata…

Insomma, il primo mito da sfatare è che la crisi siriana sia questione di buoni contro cattivi, di democrazia contro dittatura, con un popolo che unito si scontra con un’élite di banditi e ladroni. Mentre il fatto è che, se la ribellione ha dietro un numero certo non irrilevante di siriani, il regime di Assad probabilmente, molto probabilmente, ha ancora il sostegno della maggioranza della popolazione (5). 

In un’intervista al mensile americano New Yorker (6) un dissidente assai noto nel paese, Salim Kheirbeck, ha riconosciuto – e detta da lui la cosa sembra proprio credibile – che “non più del 30% della gente si sente coinvolta, cioè simpatizza, con la resistenza. L’altro 70%, se non si schiera direttamente dalla parte del regime, sta zitto perché la resistenza non li convince, specie dopo quanto è successo in Iraq e in Libia. Questa è gente che vuole le riforme, ma non è che le voglia a ogni costo”.

E mentre il referendum di un mese fa sulla riforma costituzionale voluto da Assad è stato accantonato da Usa, Europa e Consiglio del Golfo come qualcosa di inutile e sospetto, sembra proprio che quasi il 60% dei siriani abbia votato per sostenerne le proposte.

Parte dell’appoggio al regime viene da comunità minoritarie, in particolare dai cristiani e dagli alawiti che costituiscono, rispettivamente, il 10 e il 12% dei 24 milioni di abitanti del paese. Gli alawiti sono una branca degli sciiti e la frazione religiosa di cui fa parte la famiglia Assad e che (perciò?) nel governo è maggiormente rappresentata. I sunniti sono la maggioranza, ma la Siria ha anche minoranze non irrilevanti di curdi, drusi, armeni, beduini e turcomanni. La stima è che nel paese siano presenti 47 diversi tipi di gruppi e di minoranze religiose.

Alawiti e cristiani hanno forti ragioni di preoccupazione. Ha riferito il New York Times (7) di recente che a Homs, uno dei centri principali della rivolta, i dimostranti cantavano di “cristiani a Beirut e alawiti nella fossa”, ricordando che al-Qaeda degli sciiti parla di regola come di una “lisca che ostruisce la gola dell’Islam” e va estratta a forza e che mette a bersaglio delle proprie stragi, sistematicamente, in Iraq e in Pakistan, le loro comunità.

L’altra verità da mettere in evidenza è che la Siria non è affatto isolata, né nella regione né a livello internazionale. La Lega araba ha anche rivisto adesso la propria posizione iniziale che aveva condannato aspramente il governo siriano, ma da subito non tutti i suoi membri si erano detti d’accordo: Libano e Iraq avevano sostenuto Assad e la Giordania era stata attenta a restare neutrale (anche Amman ha subito l’esperienza diretta del caos scatenato dalla guerra tra sunniti e sciiti in Iraq). E l’Algeria, non certo il minore tra i grandi paesi dell’area arabo-mediterranea, aveva duramente criticato la Lega.

Il suo ministro di Stato Abdelaziz Belkhadam aveva commentato seccamente con l’Agenzia France-Press (8) che “la Lega araba non è più una Lega ed è ormai lungi dall’essere araba” visto che “si è messa a chiedere al Consiglio di Sicurezza di intervenire contro uno dei suoi membri fondatori e chiede alla Nato di distruggere le risorse di vari paesi arabi”.

Il 15 febbraio scorso l’Assemblea dell’Onu aveva votato a larga maggioranza per le dimissioni di Assad, ma non solo Russia e Cina, anche India e Brasile hanno tenuto a spiegare che condannano ogni violenza ma restando fermamente contrari a ogni ingerenza esterna, tanto più a dare armi a movimenti ribelli, e a ogni intervento militare. Una posizione dunque di tutti i paesi ormai associati sotto l’acronimo Bric, prepotentemente più in sviluppo degli altri e, comunque, “strategicamente” pesanti: la Russia, che resta la seconda maggiore potenza nucleare del mondo, con immensi giacimenti di petrolio ancora vergini e a prezzi di nuovo in fortissima ascesa grazie anche, e soprattutto, all’insipienza degli americani nel Golfo Persico e in Medioriente; la Cina, che sta diventando il paese più ricco del mondo, in credito di migliaia di miliardi di $ dall’America; e Brasile e India, che stanno essi stessi impetuosamente crescendo.

E anche la Turchia, che è a favore delle dimissioni di Assad, ha cominciato a prendere le distanze dicendo chiaro di essere contraria all’istituzione di quel che vorrebbero inglesi e americani, le cosiddette “zone sicure” vicine al suo confine ma demilitarizzate solo per l’esercito di Assad. Il fatto è che ci sono diversi paesi a temere che la guerra civile in Siria potrebbe anche diffondersi  in Libano, Iraq, Giordania e Turchia.  E forse anche negli Stati del Golfo.

E particolarmente intrigante è che tra i più preoccupati della destabilizzazione a Damasco sia proprio il nemico storico principale del regime di Assad, Israele.

Prima arrivano da Gerusalemme notizie quanto meno curiose: che in realtà sia Assad che Netanyahu sembrano preoccuparsi per la stessa ragione, una certa qual evidente presa islamista almeno su una parte non irrilevante della rivolta siriana. Israele, poi, conosce bene Assad, sa che rifornisce di armi Hamas e Hezbollah, ma sa anche che è un nemico largamente prevedibile e anche largamente “passivo” mentre resta sconosciuta la futura governance di un grande paese come le Siria, che incombe comunque sulla regione, con una massa di insorti caotica e, perciò, veramente temibile.

Di qui, quanto meno il silenzio del’esecrato “nemico sionista”, qualcuno dice anche l’inconfessata e inconfessabile complicità con Assad. Che appare confermata quando, poi, per la prima volta arrivano addirittura anonime informazioni a dire che l’aviazione israeliana sta di fatto aiutando Assad con interventi di suoi droni di prima e ben collaudata generazione, chiamati heron (airone) (9). Notizia credibile, nel contesto geo-poliitico dato, anche se, per ora almeno, non confermata dai media di Israele.

Sul terreno la situazione non appare chiara. Chiaro, però, sembra che esercito e servizi di sicurezza restano al momento schierati dietro ad Assad. Ma se il quadro rimane questo, i ribelli continueranno a far ribollire il pentolone senza riuscire però a rovesciarlo a meno di interventi armati dall’esterno: per la precisione senza l’intervento armato, diretto, della Nato, cioè degli americani. Che, però, al di là delle velleità di menare le mani anche in Siria di parecchi senatori, soprattutto ma non solo repubblicani, e della stessa signora Clinton sempre accodata a ogni prurito di interventismo cosiddetto umanitario, alla Casa Bianca e al Pentagono, cioè là dove conta davvero, non sembrano proprio intenzionati poi a farlo.

Così, deponendo in Commissione al Senato, il segretario alla Difesa Panetta ha testimoniato (10) che un intervento militare straniero potrebbe ben accelerare lo scoppio di una vera e propria guerra civile su larga scala “rendendo peggiore una situazione che è già esplosiva”. E poi, ha detto anche bruscamente innervosendo gli assertori fanatici, non solo repubblicani, di una superpotenza americana senza limiti né confini che, invece, “limitazioni serie, specie se e quando decidessimo di mandare soldati americani a combattere sul terreno” e non più solo coi drone che bombardano, spesso “ndo’ cojo cojo”, da oltre diecimila metri d’altezza, che comunque “non avrebbe alcun senso farlo da soli”, senza una coalizione alleata con noi e dietro di noi, come in Libia.

Lì c’è voluta una campagna aerea di tutta la Nato – spiega – durata sette mesi, con 7.953 sortite di bombardamento e circa 1.100 bombe lanciate sul paese ogni mese, con migliaia di morti (la stima generica e volutamente non ufficiale dell’Alleanza; decine di migliaia, invece, di morti civili  secondo stime ufficiose di intelligence sempre americana. Qui gli aerei americani sarebbero almeno per mesi da soli (gli altri paesi Nato hanno esaurito in Libia tutte le loro scorte di bombe; e neanche i più bollenti tra loro, come inglesi o, per ragioni elettorali loro, i francesi hanno voglia davvero di intervenire).

E, poi, qui – precisa il capo dei capi di stato maggiore, generale Dempsey, che lo accompagna – se da una parte siamo tecnicamente “in grado di fare quel che vogliamo”, dall’altra  dovremmo fare i conti con almeno “quattro sfide maggiori:

• i rischi pesanti nell’attaccare un territorio che come quello siriano è protetto da difese antiaree sofisticate disposte tutto intorno, ma non solo, ai maggiori centri popolati del paese;

• i rischi dell’armare un’opposizione frastagliate e frantumata, rissosa e eterodiretta come questa siriana;

• il potenziale, qui  dietro l’angolo, di innescare una guerra per conto terzi, dell’Iran e/o al limite della Russia stessa nella regione (con Hezbollah, con Hamas, ecc.);

• e il fatto, già menzionato ma da ricordare, che qui ancor oggi non c’è una coalizione internazionale disposta a fare la guerra al presidente Bashar al-Assad”.

D’altro canto – l’altro lato di questa medaglia – è anche vero che, sempre sul terreno, ormai dopo un anno di rivolta armata, Damasco non è ancora riuscito a domarla. Per questo se ne esce solo col negoziato. Insomma, sembra proprio uno stallo. Nel qual caso la campagna in corso di aiuto ai ribelli che tenta di far andare via dal paese il presidente siriano è, però, la strategia più sbagliata che sembra, invece, in grado di garantire un prolungamento degli scontri e un’escalation della guerra civile.

Anche l’idea che avevano tirato fuori Arabia saudita e Qatar, in particolare, e ancora una volta dai loro comodi scranni diversi senatori americani, di dare armi direttamente ai “soldati” del Libero esercito siriano appare un’idea particolarmente assurda, visto che nessuno veramente sa chi sono e molti rapporti anche piuttosto documentati dicono che includano non pochi jihadisti che non vengono affatto dalla Siria ma dall’Iraq, dalla Libia, dall’Arabia saudita, dalla stessa al-Qaeda. E’ la formula peggiore perché equivale a quella con cui gli americani si sono cacciati, ad esempio, nel pantano afgano: dare armi a gente che non conosci per combattere gente che non ti piace per niente.

Poi, la domanda stessa di cambiare il regime – e la minaccia di portare Assad e i suoi di fronte a un tribunale internazionale che mai ha processato e mai processerà un criminale di guerra occidentale (non quelli di campo Bagram in Afganistan, non quelli di Abu Ghraib in Iraq, tanto meno Bush e i suoi, si capisce, cui sulla base del verdetto del tribunale di Norimberga e del diritto internazionale che ne ha fatti propri i principi spetta a pieno il titolo di “criminali di guerra”) – fa di questo scontro una lotta all’ultimo sangue. Perché mai dovrebbe accettare il compromesso chi già sapesse che alla fine gli spetterebbe comunque l’esilio e la galera pur sapendo di contare sul sostegno di una parte non piccola, forse maggioritaria, del suo popolo?

La sola uscita possibile da questo impasse è dunque il negoziato e, adesso, dopo aver tentato di imporre le dimissioni a Bashar Assad per volere della “comunità internazionale” – definita di volta in volta come il consesso di coloro che sono d’accordo con la posizione americana – attraverso una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu stoppata dal veto russo e cinese, arabi e russi hanno deciso insieme di tentarla.

Il 10 marzo, Sergei Lavrov, il ministro degli Esteri di Mosca ha partecipato al Cairo a una riunione della Lega araba cui era stato invitato dai suoi omologhi e il segretario generale, Nabil Al-Arabi, ha comunicato in conclusione come un piano in cinque punti per riportare la pace in Siria fosse stato raggiunto tra tutti loro e i russi (11). Non ci sono state reazioni immediate né da parte di Assad né da parte ribelle. Ma il piano, che lascia cadere subito la pregiudiziale delle dimissioni è più vicino alla posizione originaria dei russi che a quella degli arabi anti-Assad.

C’è stata discussione. Arabia saudita e Qatar non hanno rinunciato a “lamentarsi” col russo per il suo veto alla risoluzione loro e degli Usa presentata all’Onu, ma Lavrov a muso duro ha risposto che alla Russia non sta a cuore difendere alcuno specifico regime al potere in Siria “o altrove nella regione” ma solo la stabilità di quell’area e la promozione della tregua e della pace per tutto il popolo siriano.

E che la richiesta americana da essi “improvvidamente appoggiata” costituiva, in realtà, un precedente tanto provocatorio quanto potenzialmente destabilizzante per tutti i governi dell’area. Alla fine tutti hanno riconosciuto come fosse poi vero: almeno nel senso che quella risoluzione era ormai morta e sepolta.

Il piano in 5 punti, per usare le parole con cui lo sintetizza al-Arabi, prevede, in linea con gli sforzi iniziati da Kofi Annan (l’ex segretario generale dell’Onu, inviato speciale nella regione) per portare la pace in Siria • “1) l’immediato alt alla violenza, a qualsiasi atto di violenza da qualsiasi parte esso provenga. • 2) la creazione e la messa in atto di un meccanismo di supervisione e di monitoraggio imparziale. • 3) la fine immediata di ogni interferenza esterna negli affari interni siriani. • 4) l’accesso senza ostacoli di aiuti umanitari a tutta la popolazione siriana, senza eccezioni. • 5) l’appoggio all’inviato per la Siria dell’Onu e della Lega araba, Kofi Annan, che poi però il 12 mattina è ripartito – dice – per riferire a New York per l’avvio di un dialogo politico tra il governo siriano e tutti i gruppi dell’opposizione”.

Gli americani non sono ovviamente contenti della “mossa del cavallo” con cui i maestri scacchisti russi e arabi sembrano adesso quasi emarginarli. Ma ingoiano e, anzi, a modo loro rilanciano raffreddando, come s’è visto, i bollenti spiriti che si trovano in casa.

Ora, sulla base di quei cinque punti bisognerà convincere però a negoziare sia Assad che i ribelli. Il primo ha comunicato ad Annan di essere disposto a farlo con tutta l’opposizione, anche quella armata ma con l’esclusione dei fondamentalisti più fondamentalisti tra gli islamici, quelli di al-Qaeda; i ribelli, invece, gli hanno opposto, per ora almeno,  un no secco: ma certo se adesso Arabia saudita, Qatar, Kuwait mollano la loro pretesa di far dimettere Assad a priori e gli americani segnalano di non essere disposti, alla fine, a entrare in guerra per loro…

Il referendum recente non è probabilmente abbastanza. Ma se la devono vedere loro, i siriani, nel negoziato, aiutati da una mediazione che veda la partecipazione, a questo punto cruciale, almeno di Arabia saudita e Russia. Con gli Stati Uniti e la velleitaria Unione europea che, in questo momento, farebbero meglio a grattarsi le loro rogne, anziché cercare di usare la Siria per le loro guerre in conto terzi.

Ha detto in un’intervista recente il ministro israeliano dell’Intelligence, Dan Meridor (12), che sostenere la rivolta in Siria è importate perché “rompere la non santa alleanza tra Siria, Iran e Hezbollah sarebbe di sicuro un fatto positivo”. Già… ma per chi? per la democrazia, per la libertà? o per spostare a proprio vantaggio pedoni e alfieri sullo scacchiere mediorientale?

Note

 

1) New York Times, 28.2.2012, J.D. Goodman e N. Cumming-Bruce, Diplomats Warn Syria of Consequences for Violent Crackdown— Ammonimento di parte diplomatica [l’americana Clinton…, parlando  al Senato americano…] alla Siria sulle conseguenze di una repressione dura [perchè, se invece fosse morbida (sic!) tutto OK…]

(http://www.nytimes.com/2012/02/29/world/middleeast/government-troops-close-in-on-syrian-rebels-after-referendum.html/).

2) The Christian Science Monitor, 14.12.2011, M. Lee, US: Assad’s Syria a ‘dead man walking’— Gli USA: la Siria di Assad è un “morto che cammina”

(http://www.csmonitor.com/World/Latest-News-Wires/2011/1214/US-Assad-s-Sy.../).

3) Grazie soprattutto alle immagini di bambini bastonati da agenti di sicurezza in divisa – vere? probabilmente…; ma forse anche “montate” ad arte…; comunque ritrasmesse in tutto il mondo arabo come vere ma senza alcuna garanzia di attribuzione, quando già di divise siriane ce n’erano ormai da entrambe le parti poi e, comunque, se ne trovavano in giro per un dollaro a dozzina, in specie su e ritrasmesse via cavo in tutto il Mediterraneo da al-Jazeera, proprietà della e di  obbedienza, per così dire, alla casa reale del Qatar: di Sheikh Hamad bin Thamer Al Thani, a capo della Qatar Media Corporation. Che adesso, da buon sunnita è quasi ciecamente schierato contro il siriano e alawita Assad. Ma ieri, spesso, è anche stato – e va detto –una spina nel fianco degli americani in Iraq…

4) (http://www.fbi.gov/wanted/wanted_terrorists/ayman-al-zawahiri/view/).

5) Sondaggio del britannico YouGov per i cosiddetti Doha Debates del Qatar, committente legato al peggior nemico arabo della Siria di Assad, l’emiro di quel paese, comunque il più aperto e razionalmente filoamericano degli alleati arabi dell’occidente (http://www.thedohadebates.com/news/item/index.asp?n=14

Giovedì, 22. Marzo 2012
 

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