Le grandi crisi da ‘auto-regolazione’

Dove stiamo andando/2 – La Cernobil economica che stiamo vivendo è stata generata dalla disastrosa ideologia della “mano invisibile” che dev’essere lasciata libera di giudare i mercati. La differenza fondamentale fra il ’29 e oggi. La Rete: importante per la diffusione della democrazia, ma poco può per la giustizia sociale

(secondo articolo di una serie – qui il primo)

 

stato detto e scritto tante volte che le diseguaglianze sono rese possibili dal fatto che in ogni paese la maggioranza delle persone è tendenzialmente acquiescente, abulica, indolente, apatica. Può darsi sia vero. Tuttavia, a lungo andare il continuo esempio di sregolatezze, di abuso di potere, finisce inevitabilmente per scontrarsi con un sentimento che si trova nell’animo umano. Cioè con il sentimento di giustizia. Probabilmente l’aumento della scolarizzazione aiuta a risvegliarlo. Ma, forse, si tratta di un impulso innato e profondo che, in qualche misura, abbiamo in comune perfino con gli animali. Perché anche tra loro, quanto meno per gli appartenenti ad una stessa specie e gruppo, si manifesta l’interesse alla difesa del territorio e del bene comune (a cominciare dal cibo).

 

Questo spiegherebbe perché nazioni che sembravano assopite, destinate per secoli a subire dittature politiche e religiose, si siano come d’incanto risvegliate ed, a costo della vita di chi si ribella, stiano dimostrando la grande urgenza di libertà e di giustizia che è presente nel cuore delle persone e le rende nobili, malgrado le loro derive di egoismo, di violenza, di brutalità, di furbizie scomposte, di deliri di onnipotenza. Questi risvegli da lunghi (a volte secolari) inverni stupiscono gli osservatori e sorprendono per la velocità del loro contagio. Anche se gli esiti restano incerti, è successo così: dalla Tunisia all’Egitto, dalla Libia alla Siria, dallo Yemen al Mianmar. Difficile dire quanto la crisi economica e quindi i problemi sociali abbiano pesato sulla sollevazione di quei popoli. Certamente ha avuto un ruolo determinante una strumento tecnologico, di cui forse è stata sottovalutata la potenza: la Rete di comunicazione elettronica. Che ha consentito, come ha osservato acutamente Dacia Maraini, al pensiero ed al sentimento diffuso di “sollevarsi dal basso verso l’alto. Anziché scendere dall’alto verso il basso”. Come succedeva invece per gli altri mezzi di comunicazione di massa, ai quali eravamo inesorabilmente vincolati fino a qualche decennio fa.

 

probabile che la Rete possa dare una spinta ed un supporto alla diffusione della domanda di libertà e di democrazia. Meno probabile che possa risolvere il bisogno di giustizia sociale. Cioè l’effettivo contrasto delle ineguaglianze che sono sotto i nostri occhi: dalle condizioni di povertà e di deprivazione (a cominciare dalla perdita o dalla mancanza di lavoro) alla sofferenza socialmente evitabile che affligge milioni di persone. Perché allo stato questi problemi, in mancanza di istituzioni internazionali legittimate ad affrontarli, possono trovare (quando riescono a trovarla) una qualche soluzione soprattutto nella dimensione nazionale.

 

La cosa per altro non è semplice. Perché occorre fare i conti con una duplice contraddizione. La prima derivante dalla improvvida scelta ideologica operata nella prima metà degli anni ottanta del secolo scorso (meno Stato, più mercato) che ha portato ad una scriteriata deregolazione dell’economia e della finanza. Contribuendo a trasformare banche ed intermediari finanziari in veri e propri Casinò. Salvo poi, quando questi non sono stati più in grado di coprire le giocate, correre ai ripari riscoprendo il ruolo dello Stato e scongiurare, con denaro pubblico, il loro fallimento. Sicché la “Cernobil economica e finanziaria”, con cui il capitalismo stesso e la maggioranza dei paesi sono ora alle prese (chi più chi meno), è il risultato della dissennata scelta politica fatta allora. In particolare dai paesi anglosassoni. Opzione che, come è noto, venne poi largamente generalizzata (ma forse sarebbe meglio dire imposta) tramite il cosiddetto “Washington consensus”. Prescritto da istituzioni economiche internazionali come: il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale, l’Organizzazione per il Commercio Internazionale.

 

La seconda contraddizione ha a che fare con la globalizzazione. Che, indipendentemente da ogni altra considerazione, ha cambiato i rapporti sociali anche a livello dei singoli Stati-nazione. Per la ragione fondamentale che, mentre il capitale è diventato globale (e quindi “nomade”), il lavoro è necessariamente rimasto locale (cioè  legato al territorio). Questo ha, naturalmente, modificato in modo radicale sia i rapporti di forza a livello sociale che il precedente quadro di riferimento culturale e politico. A questo riguardo può bastare una banale considerazione. La tradizionale concezione della società di classe e del conflitto di classe (particolarmente presente nell’Europa del secolo scorso) presupponeva, malgrado il mito internazionalista, il pieno funzionamento e l’autosufficienza dello Stato nazionale. E comunque l’argomento marxista secondo il quale i lavoratori non conoscono nazione, ammesso che sia mai stato vero, oggi deve essere rovesciato. Sono infatti i capitalisti che operano nella globalizzazione a non conoscere patria. Tant’è vero che i lavoratori ed i sindacati sono sempre più costretti (anche se con sempre minore successo) a chiamare in soccorso il governo del loro paese nella labile speranza che possa in qualche modo difenderli dalle ingiustizie della globalizzazione. A cominciare dalle sempre più frequenti delocalizzazioni delle produzioni con relativa perdita di lavoro.

 

Resta il fatto che la follia delle “deregulation”, adottate sulla base del convincimento ideologico della capacità del mercato di autoregolarsi, oggi presenta il suo conto salato. Subissati dalle infinite prove dovremmo orami sapere tutti che l’economia capitalista non è affatto un sistema capace di autoregolarsi, o mosso dalla “mano invisibile” (soprattutto esperta e scaltra) del mercato. Al contrario, essa produce invece una massiccia instabilità ed è clamorosamente incapace di domarla e controllarla, avvalendosi soltanto di quelle che potremmo definire le sue “inclinazioni naturali”. Per dirla chiaramente l’economia capitalista produce disastri che da sola non riesce a controllare e nemmeno evitare. Per di più non è in grado di riparare i danni provocati da tali disastri. La capacità dell’economia capitalista di “autocorreggersi” (come continuano a sostenere gli economisti di corte) si riduce infatti all’inevitabile,  periodico scoppio di “bolle”. Che portano con sé una epidemia di fallimenti e disoccupazione di massa. Con costi enormi ed intollerabili per la vita e le prospettive di coloro che, secondo la vulgata dominante negli ultimi decenni, avrebbero dovuto invece essere i beneficiari dell’intrinseca “creatività” del capitalismo deregolato e lasciato libero di esprimersi.

 

La crisi attuale induce molti ad evocare lo spettro della crisi del ’29, per concludere che da allora ad oggi poco o nulla sarebbe cambiato. In realtà un cambiamento c’è ed è piuttosto importante. Esso riguarda le condizioni che avevano consentito a Roosevelt di varare il New Deal. Sicché l’esortazione a replicare quell’esperienza non può che sollevare fondati dubbi e riserve in ordine alla sua concreta praticabilità. Timori ed incertezze con le quali Roosevelt ed i suoi consiglieri non hanno fortunatamente dovuto fare i conti. Rispetto ad allora infatti una delle cose sostanzialmente mutate è che Roosevelt aveva davanti a sé la “sfida keynesiana”. Quella cioè di rimettere in forze e far ripartire l’industria, principale fonte di occupazione e, dunque, principale creatrice della domanda che avrebbe tenuto in piedi l’economia di mercato. Consentendo in tal modo di far ripartire la produzione del sovrappiù necessario anche all’autoriproduzione capitalista. La sfida attuale è invece più complessa. E comunque diversa. Perché investe in primo luogo i mercati finanziari. Che non creano molti posti di lavoro. Ma sono un anello essenziale della “catena alimentare” di ogni datore di lavoro. Sia attuale, che potenziale. Quindi qualsiasi analogia tra rianimare un’industria ridotta allo stremo dal calo della domanda ed interventi finalizzati alla “ricapitalizzazione” delle istituzioni finanziarie prive del denaro necessario per finanziare i prestiti appare, prima ancora che superficiale, fuorviante.

 

Senza contare che sono proprio i mercati finanziari, come hanno ormai messo in evidenza innumerevoli studi e ricerche, i principali responsabili della tendenza inguaribile del capitalismo a produrre e riprodurre la propria instabilità e vulnerabilità. Del resto, la dimensione esorbitante e del tutto assurda, ottenuta in anni recenti con la cosiddetta “leva finanziaria” a scapito dell’economia reale, è il concime che ha prodotto la propensione dei mercati borsistici al “mordi e fuggi”, all’ “effetto inerziale”. Propensione che è impossibile bloccare e, per quel che si capisce, persino difficile frenare. Anche perché il potere finanziario è, nel frattempo, diventato molto più forte del potere politico.

 

Alcuni economisti hanno giustamente paragonato la crescita scriteriata ed innaturale del settore finanziario ad un tumore. Che, come di solito fanno i tumori, se non viene asportato nella sua fase iniziale finisce per distruggere l’organismo che lo ospita. Purtroppo la mancanza di strutture sanitarie appropriate e di chirurghi esperti non hanno consentito questo intervento. La conseguenza è stata che i governi hanno dovuto scendere in campo, mobilitando risorse pubbliche e la propria capacità di credito sui mercati esteri, per rianimare gli intermediari finanziari. Ma, a differenza di quanto fece Roosevelt rianimando le industrie americane che erano la fonte principale di creazione del lavoro, questi interventi finiranno inevitabilmente per incoraggiare lo stesso “mordi e fuggi” ed “effetto inerziale”. Vale a dire esattamente ciò che ha portato alla “Cernobil economica e sociale” ed al conseguente disastro attuale.

 

Per altro, non è difficile immaginare che non appena i creditori si renderanno conto che esiste un cuscinetto di sicurezza, sotto la specie di uno Stato che corre in aiuto non appena viene smascherato il bluff che tutti (Stato e privati) possano indefinitamente “vivere a credito”, l’unica cosa che verrà realmente “rianimata” sarà la voglia di speculare, nella speranza di un possibile ritorno immediato ai giochi di prestigio finanziari ed al suo corollario inseparabile di esaltazione delle diseguaglianze come motore del progresso. E poiché, come è appunto successo negli ultimi trent’anni, nessuno si curerà granché delle conseguenze e della sostenibilità di lungo periodo di un tale gioco, incomincerà inevitabilmente a formarsi un’altra “bolla”. Ovviamente la grande bolla, mentre cresce fino a scoppiare, sarà come sempre  accompagnata dal corteo funebre di una gran numero di piccole bolle famigliari e personali, destinate a seguirla fino al disastro.

 

                                                                                                                               (segue)

Giovedì, 8. Marzo 2012
 

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