L’articolo 8? Copiato dai cinesi

E’ l’importazione del modello promosso da Deng Xiao Ping nella celebre direttiva sulle “quattro modernizzazioni” per promuovere lo sviluppo di un capitalismo selvaggio. Non solo confligge pesantemente con l’accordo intervonfederale del 28 giugno, ma è zeppo di aspetti palesemente anticostituzionali. Una norma di legge incivile da rimuovere con qualsiasi mezzo

Il 28 giugno 2011 è stato stipulato un accordo interconfederale tra Confindustria e Cgil, Cisl, Uil che riguarda i nodi cruciali delle relazioni sindacali e del sistema contrattuale. Poche settimane dopo, nell’agosto 2011, il governo ha inserito nel testo di un decreto legge relativo alla ennesima manovra finanziaria mirata al contenimento del debito e della spesa pubblica una norma del tutto estranea rispetto agli obiettivi di quell’intervento: art.8, “Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e lo sviluppo”. L’accordo del 28 giugno è unitario. L’art.8 punta dichiaratamente a ri-dividere le parti sociali. La prima domanda da porsi è: perché? Subito dopo vengono gli altri due interrogativi di fondo: c’è coerenza tra l’art.8 e l’accordo del 28 giugno? E poi: l’art. 8 è legittimo sul piano costituzionale?

 

L’accordo del 28 giugno

Dal gennaio 2009 il sistema delle relazioni sindacali era entrato in una profonda fase di anomia, com’era prevedibile dato che  le nuove regole contrattuali erano state stipulate senza il consenso della Cgil. Dopo l’accordo (separato) del gennaio 2009 e soprattutto a seguito della vicenda Fiat si era infatti aperto un interrogativo di fondo sulla tenuta del carattere storicamente bipolare del sistema contrattuale italiano. L’Accordo interconfederale del 28 giugno formula una scelta chiara. Anzitutto viene confermata la funzione del contratto nazionale (d’ora in poi: ccnl) “di garantire la certezza dei trattamenti economici e normativi comuni per tutti i lavoratori del settore ovunque impiegati nel territorio nazionale” (punto 2), mentre “la contrattazione collettiva aziendale si esercita per le materie delegate, in tutto o in parte, dal contratto collettivo nazionale di lavoro o dalla legge” (punto 3). Riconfermata la centralità del contratto nazionale, e il rapporto gerarchico tra questo e la contrattazione di secondo livello, nei settori in cui non esistono norme condivise nei ccnl (come in quello metalmeccanico) “in attesa che i rinnovi definiscano la materia nel ccnl” si prevede che i contratti aziendali stipulati dalle rappresentanze sindacali operanti in azienda  “al fine di gestire situazioni di crisi o in presenza di investimenti significativi per favorire lo sviluppo economico ed occupazionale” possano definire, “d’intesa con le organizzazioni sindacali territoriali”, “intese modificative con riferimento agli istituti del ccnl che disciplinano la prestazione lavorativa, gli orari e l’organizzazione del lavoro”.

Sul piano sostanziale vanno considerati due ordini di limiti introdotti alla capacità “modificativa” dei contratti aziendali. In via generale le “specifiche intese modificative” sono ammesse “nei limiti e con le procedure contenute nei ccnl”. Questo punto è essenziale: lo sviluppo della contrattazione decentrata è infatti in sé positivo, a patto di ritornare alla funzione fisiologica della contrattazione di secondo livello che consiste nel prevedere discipline specializzate, calibrate sulle concrete situazioni organizzative e produttive, oltre che nell’introdurre  trattamenti salariali aggiuntivi collegati alle specifiche performance aziendali. Diverso è invece  il caso in cui le suddette “intese modificative” si svolgano senza la copertura di un quadro regolativo disposto dai ccnl, come si verifica specialmente, ma non solo, nel settore metalmeccanico. Qui entra allora in gioco la previsione contenuta nella seconda parte del punto 7. Le “intese modificative” sono ammesse in ragione di “situazioni di crisi o in presenza di nuovi investimenti” e limitate alla “prestazione lavorativa, orari e organizzazione del lavoro”. Tale limite oggettivo è suscettibile di interpretazioni variabili, ma certamente esclude, per fare un esempio, i trattamenti economici e normativi in senso generale, dalla disciplina della malattia alle sanzioni disciplinari.

In tema di rappresentanza sindacale e procedimento decisionale nella stipula dei contratti collettivi è di grande rilievo il fatto che anche nel settore privato le parti sociali riconoscano finalmente la necessità di adottare i meccanismi di certificazione della rappresentatività dei sindacati per la contrattazione di categoria già previsti per il pubblico impiego, e individuino i conseguenti strumenti operativi ai fini dell’accertamento dei dati associativi e dei “consensi ottenuti nelle elezioni periodiche delle rappresentanze sindacali unitarie da rinnovare ogni tre anni”, di modo che “per la legittimazione a negoziare è necessario che il dato di rappresentatività così realizzato per ciascuna organizzazione sindacale superi il 5% del totale dei lavoratori della categoria cui si applica il contratto collettivo nazionale di lavoro” (punto 1). Così si compie una scelta evidente in direzione del rilancio delle rsu  alle quali poi viene attribuita per la prima volta una piena potestà negoziale.


E’ infatti la matrice elettiva della rsu il fondamento sostanziale della sua legittimazione a negoziare: votando per le proprie rappresentanze i lavoratori sanno ora di dar vita a un organo dotato di un vero e proprio potere negoziale. Qui c’è un vero passaggio innovativo perché per la prima volta in un accordo interconfederale si afferma il principio per cui le rappresentanze elette da tutti i lavoratori hanno un potere negoziale pieno, che può esercitarsi anche a maggioranza. Questo è un rilevante incentivo alla generalizzazione delle Rsu, poiché in tal modo si mette in moto un interesse comune, compreso quello delle aziende, a costituire questi soggetti unitari di matrice elettiva.

Diversa è invece la situazione laddove si verifichi l’ipotesi, da considerarsi residuale nella logica dell’accordo, della assenza di rsu e della presenza invece di rsa, ovvero di organi di rappresentanza sindacale di matrice non elettiva. In questo caso l’efficacia dei contratti collettivi aziendali è subordinata alla approvazione delle rsa costituite nell’ambito dei sindacati destinatari della maggioranza delle deleghe raccolte in azienda. Inoltre tali contratti, oltre a dover essere sottoscritti anche dalle organizzazioni sindacali territoriali, come già detto, “devono essere sottoposti al voto dei lavoratori  su richiesta di una delle organizzazioni sindacali firmatarie dell’accordo o di almeno il 30% dei lavoratori dell’impresa“(punto 5). Viene qui per la prima volta prevista la forma di referendum che da tempo chi scrive considera la più corretta, vale a dire il referendum “di opposizione”, di garanzia del dissenso, la cui promozione va rimessa alla iniziativa responsabile di chi (organizzazione sindacale o gruppo rilevante di lavoratori) non  condivide il risultato negoziale. Proprio la recente vicenda Fiat ha mostrato plasticamente le vistose controindicazioni del ricorso indifferenziato a meccanismi di democrazia diretta nella pratica contrattuale. Perciò è da respingere  l’ idea per cui il referendum  è comunque la sanatoria di tutti i mali. La vicenda francamente scandalosa dei referendum alla Fiat dovrebbe avere insegnato qualcosa. Il referendum non può sanare aspetti di illegittimità, non è una sorta di panacea. E quindi, esattamente come è previsto dalla Costituzione per i referendum abrogativi, il referendum va inteso soprattutto come esercizio di un diritto di dissenso; ed è un atto di responsabilizzazione proprio perché chi lo promuove intende invalidare un contratto collettivo.

Nella vicenda Fiat i lavoratori sono stati chiamati a pronunciarsi con un sì o con un no su un quesito che sostanzialmente suonava così: “accetti il contratto o vuoi perdere il lavoro?”. Chiamare questo “democrazia” è una offesa al senso comune, poiché il processo democratico si fonda su una (almeno virtuale) libertà di scelta. Dove non c’è libertà di scelta non c’è democrazia, ma il suo contrario: si chiama plebiscito. Sul punto quindi l’accordo del 28 giugno formula una scelta meritoria, che andrebbe semmai generalizzata. I referendum tra i lavoratori non devono essere praticati come strumenti di acquisizione del consenso “a cose fatte”, in chiave populistica e plebiscitaria ma, al contrario, come atti di opposizione consapevole al contenuto di un contratto collettivo da parte di chi dissente e si assume la responsabilità della rimozione di quel contratto.


Infine l’accordo contiene una disposizione in materia di clausole di tregua sindacale di particolare rilevanza. Secondo la dottrina giuslavoristica classica e la prevalente giurisprudenza tali clausole impegnano esclusivamente i sindacati che le sottoscrivono e non i singoli lavoratori. Esse, in altri termini, non possono comportare in alcun modo  la disposizione del diritto di sciopero di cui all’art. 40 della Costituzione, che secondo la costante dottrina post-costituzionale va interpretato come un “diritto individuale ad esercizio collettivo”. Vale a dire che il diritto di sciopero fa parte dell’habeas corpus di ogni singolo lavoratore e non è una prerogativa rimessa alla disponibilità  dei sindacati. Proprio su questo punto invece sono intervenuti gli accordi Fiat sopra richiamati. Di modo che per questa via i lavoratori che decidessero di fare, in ipotesi, uno sciopero spontaneo contro gli eccessivi carichi di lavoro potrebbero essere sanzionati sul piano disciplinare, fino al licenziamento. La disposizione in parola fa tabula rasa di tale interpretazione e va quindi considerata come un contributo rilevante alla salvaguardia  delle condizioni di fondo  di ciò che si può chiamare una “civiltà giuridica del lavoro”.

 

L’art. 8 della legge n. 148 del 2011
L’articolo 8  è da ritenersi incostituzionale per una quantità imponente di motivi. Intanto una legge ordinaria non può disporre in materia di efficacia generale dei contratti collettivi, pure aziendali o territoriali, se non muovendosi in coerenza con l’art.39, seconda parte, della Costituzione, per il quale l’efficacia erga omnes dei contratti collettivi è sottoposta alla preventiva registrazione dei sindacati presso “pubblici uffici”, a seguito della verifica del carattere democratico dell’ordinamento interno, e alla costituzione di rappresentanze unitarie in proporzione agli iscritti ai diversi sindacati. Il vincolo costituzionale, che costituisce un tentativo di sintesi tra principio di libertà e pluralismo sindacale ed efficacia generale del contratto collettivo, è insuperabile,  salvo prevedere un meccanismo di validazione dei contratti collettivi che nella sostanza rispetti il dettato dell’art.39 pur variando sul piano formale: ad esempio introducendo un mix tra il criterio di rappresentatività fondato sul numero degli iscritti e quello derivato dai voti ricevuti dai diversi sindacati in occasione della elezione delle rappresentanze a livello aziendale. Ciò che si è fatto nel pubblico impiego, e potrebbe essere esteso al settore privato, con alcuni adattamenti: alla legittimazione di tale ipotesi è dedicato, non a caso, un denso  lavoro postumo di Massimo D’Antona ( D’Antona 1998).

Ma c’è di più. Le “intese” previste dai contratti aziendali  o territoriali, ove finalizzate “alla maggiore occupazione, alla qualità dei contratti di lavoro, all’adozione di forme di partecipazione dei lavoratori, alla emersione del lavoro irregolare, agli incrementi di competitività e di salario, alla gestione delle crisi aziendali e occupazionali, agli investimenti e all’avvio di nuove attività”, potrebbero riguardare un elenco impressionante di materie, che comprendono in sostanza l’intero diritto del lavoro: dagli impianti audiovisivi all’orario di lavoro, dalle regole in materia di mansioni e inquadramento professionale alla disciplina dei contratti atipici, comprese le partite Iva, dalla disciplina degli appalti a quella del licenziamento (comma 2 art.8) “anche in deroga alle disposizioni di leggi che disciplinano le materie richiamate… ed alle relative regolamentazioni contenute nei contratti nazionali di lavoro” (comma 3, art.8). Si attribuisce in tal modo ai contratti aziendali o territoriali stipulati nei termini sopra descritti la funzione di definire ad arbitrio le condizioni essenziali della prestazione di lavoro. Una specie di “porto franco”: la sospensione delle regole di fondo del diritto del lavoro per decisione di attori privati (sindacati e rappresentanze aziendali) di dubbia rappresentatività. In sostanza, l’importazione in Italia del modello promosso in Cina da Deng Xiao Ping  nella celebre direttiva sulle  “quattro modernizzazioni”, finalizzata a promuovere  lo sviluppo di un capitalismo selvaggio sotto la guida dispotica del Partito Comunista Cinese.

Infine vanno segnalate due ultime perle della norma in oggetto. La prima riguarda il comma 3 in cui si afferma che “le disposizioni contenute in contratti collettivi aziendali vigenti, approvati e sottoscritti prima dell’accordo interconfederale del 28 giugno 2011 tra le parti sociali, sono efficaci nei confronti di tutto il personale delle unità produttive cui il contratto stesso si riferisce a condizione che sia stato approvato con votazione a maggioranza dei lavoratori”. Si tratta di una esplicita  sanatoria degli accordi Fiat, realizzata tuttavia in modo maldestro. E’ evidente infatti che tale disposizione contrasta con il principio di uguaglianza, nel senso più ovvio del termine, di cui al primo comma dell’art 3 della Costituzione: perché mai gli accordi stipulati prima del 28 giugno 2011 dovrebbero avere efficacia generale se “votati a maggioranza dei lavoratori” e gli altri no?


La seconda fa riferimento al fatto che gli accordi aziendali o territoriali in parola “beneficiano della applicazione della imposta sostitutiva del 10 per cento sulle componenti accessorie della retribuzione ai sensi della normativa vigente”: qui si dichiara la forma più volgare, in termini concettuali, della monetizzazione dei diritti. Tale disposizione, nel concreto, va infatti letta così: se in una qualsiasi azienda si stipulano accordi in cui si rinuncia ad ogni diritto in tema di professionalità, orario di lavoro, assunzione con regolare contratto di lavoro subordinato, disciplina del licenziamento, e così via, ma si prevede, in scambio, la corresponsione di qualche decina di euro in più al mese, quegli euro  sono agevolati fiscalmente. Ci può essere qualcosa di più affine, in termini culturali, al modello delle “zone franche” cinesi?


L’ultimo paradosso da segnalare sta nel fatto che la  Camera dei deputati, nel momento stesso in cui approvava la conversione del decreto legge in parola,  votava pressoché all’unanimità un ordine del giorno,  in cui si afferma quanto segue: “le disposizioni dell’articolo 8 rappresentano un improprio intervento del governo sui temi del modello contrattuale e della rappresentatività sindacale, materie che dovrebbero essere rimesse alle parti sociali, che non hanno alcun carattere di necessità ed urgenza e che non hanno motivo di essere trattate in un provvedimento di natura finanziaria come quello in esame; la norma sembra essere esclusivamente mirata a dividere il fronte sindacale, mettendo in discussione l’accordo unitario raggiunto lo scorso 28 giugno tra CGIL, CISL e UIL e Confindustria …”. Meglio di così è difficile dire, salvo il fatto che l’organo parlamentare che votava quell’ordine del giorno aveva appena approvato la  norma che subito dopo contestava. Già questo la dice lunga sulla attendibilità del cosiddetto “legislatore”  e sulla crisi profonda del sistema politico che ci governa.

Conclusioni
Quanto al “perché” il governo in occasione dell’ennesima manovra finanziaria abbia ritenuto di mettere mano alla disposizione di cui all’art.8 la spiegazione è semplice e al tempo stesso paradossale: da un lato si è voluto emanare una norma servente verso la Fiat, con l’illusione di corteggiare Marchionne invece che chiamarlo a un serio confronto sui programmi di investimento della Fiat in Italia, come dovrebbe fare qualsiasi governo degno di questo nome. Dall’altro si è perseguito, una volta ancora, un disegno di divisione dei sindacati, mirato in particolare all’isolamento della Cgil.

L’accordo del 28 giugno pone una serie di problemi interpretativi, come è sempre accaduto, del resto, specie per gli accordi stipulati nei passaggi più critici della vicenda sindacale. E’ pur sempre un compromesso negoziale, con le ambiguità tipiche dei testi contrattuali. Tuttavia è indubbio che tra i contenuti dell’accordo del 28 giugno 2011 e quanto  viene disposto nell’art. 8 della legge 148 vi sia una linea diretta di collisione. Basti dire che da un lato si ipotizzano modifiche limitate ai contratti nazionali di lavoro e dall’altro si autorizza la deroga generalizzata all’intero diritto del lavoro. Le parti sociali che hanno sottoscritto l’accordo del 28 giugno dovrebbero quindi quanto meno concordare un dispositivo unitario relativo alla rinuncia ad impiegare i congegni normativi della norma in parola. Ciò è stato fatto al momento della sottoscrizione formale dell’accordo, il 21 settembre 2011, con la seguente formula: “Confindustria, Cgil,Cisl e Uil concordano che le materie delle relazioni industriali e della contrattazione sono affidate all’ autonoma determinazione delle parti. Conseguentemente…si impegnano ad attenersi all’accordo interconfederale del 28 giugno…”.

Tale dichiarazione è stata poi tuttavia contraddetta da varie prese di posizione e in particolare dalla lettera inviata dalla presidente di Confindustria, il 6 ottobre 2011, in risposta alla uscita formale della Fiat da Confindustria, in cui l’accordo del 28 giugno e l’art. 8 sembrano messi in parallelo piuttosto che in alternativa. Tale posizione della presidente di Confindustria può essere compresa: il governo fa alle imprese un regalo improvvido, ovvero la possibilità di liberarsi con accordi aziendali da ogni vincolo di legge. Come fa l’associazione delle imprese a rifiutare il dono? Tuttavia anche nella lettera appena citata si dice “naturalmente per poter utilizzare questi strumenti, così come per applicare le innovazioni previste dall’Accordo interconfederale, occorre trovare il consenso sindacale”. In conclusione, se le stesse parti sociali non saranno capaci di sterilizzare il micidiale meccanismo di cui all’art.8 non resterà, in alternativa, che attivare tutti i meccanismi utili, compresa l’iniziativa referendaria per rimuovere questa incivile norma di legge.

 

 (Articolo tratto dal saggio in corso di pubblicazione su “Lavoro e Diritto”).

Mercoledì, 23. Novembre 2011
 

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