Due priorità per una ‘scossa’ reale

Economia e occupazione sono in condizioni critiche e i piani del governo sono risibili o inadatti. I problemi da affrontare sarebbero numerosi, ma non si può fare tutto insieme e bisogna scegliere: gli interventi più urgenti sono su fisco e lavoro. Ecco alcune proposte

La situazione dell’economia e dell’occupazione italiana è mal messa e nulla, per ora, lascia presagire un miglioramento. Il paese cresce ad un ritmo del tutto insoddisfacente, che si riflette in redditi stagnanti, in gravi problemi dell’occupazione, in crescenti difficoltà a gestire la finanza pubblica. La ripresa dopo la crisi finanziaria internazionale è evanescente. Perdurando queste condizioni, il richiesto riequilibrio dei conti pubblici entro il 2014 richiederà maggiori entrate per almeno 40 miliardi di euro, o tagli non inferiori al 7 per cento di tutte le principali voci di spesa. Con conseguenze politiche e sociali facilmente immaginabili.

 

Secondo il governatore della Banca d’Italia, la necessità di procedere nel consolidamento dei conti pubblici dovrebbe imporre scelte fondate su un vincolo di bilancio pluriennale e su una sistematica comparazione dei costi e dei benefici di progetti alternativi. La soluzione consiste nell’innalzare l’efficienza della spesa, migliorando le procedure che la governano. Di fatto il governatore “smonta e cestina” il Def, appena approvato dalla maggioranza alla Camera, ammonendo che il riavvio del processo di crescita “passa soprattutto: per un aumento dei tassi di occupazione giovanile e femminile; per maggiori investimenti in capitale fisico; per mercati, servizi pubblici e regolamentazioni che facilitino l’accrescimento della produttività”. Individua inoltre nelle carenze e nei ritardi delle infrastrutture uno dei fattori che limitano l’espansione e la produttività dell’economia. Chiede anche una accelerazione nelle politiche di liberalizzazione per la concorrenza. Ribadisce infine, per l’ennesima volta, che il sistema degli appalti è frammentato ed a rischio di corruzione e collusione. Insomma, bisognerebbe riuscire a spendere meglio e realizzare le opere più velocemente.

 

Per avere un’idea della criticità della situazione basterebbe ricordare che, a fine 2010, su 43 miliardi di euro di Fondi europei per il Sud (da impegnare entro l’anno) ne sono stati spesi solo 9. Tutte cose delle quali il Documento di economia e finanza presentato al Parlamento dal ministro Tremonti non si occupa. Per altro, se il governatore Draghi avesse voluto fare un quadro esauriente  dei fattori che rallentano la ripresa dell’economia italiana avrebbe potuto aggiungervi: l’anemia della ricerca; il linfatismo del sistema scolastico; soprattutto il collasso della giustizia civile. Collasso che scoraggia investimenti esteri in Italia e favorisce l’allontanamento dei non molti già insediati.

 

D’altra parte  su 181 Paesi nel mondo siamo al 156° posto quanto ad efficienza della giustizia civile. Meglio di noi fanno persino Angola, Gabon, Guinea. Succede così che per recuperare un credito commerciale da noi occorrono 1.210 giorni (3,3 anni) contro i 462,7 della media Ocse. Non sorprende quindi che gli investitori internazionali ritengano che sia meglio stare alla larga dall’Italia. Tanto più che l’agenda politica in materia di giustizia è, di fatto, interamente assorbita dalle vicende penali del premier e quindi sostanzialmente disinteressata alle peripezie della giustizia civile. Ovviamente il cahier de doléances potrebbe proseguire. Ma in questa sede non avrebbe una particolare utilità. Nostro malgrado, ci sentiamo infatti più o meno nella condizione di Alice quando, abbastanza assonnata, incomincia a dire: “I gatti mangiano i ratti?”. E altre volte: “i ratti mangiano i gatti?”. Tuttavia, tenuto conto che il problema non era di immediata soluzione, non aveva poi così grande importanza che fosse espresso correttamente.

 

Per di più, quand’anche tutti i problemi che condizionano negativamente l’economia italiana fossero elencati diligentemente ed esattamente è evidente che non possono essere affrontati e risolti tutti insieme. Perciò, dovendo escludere (magari a malincuore) una improbabile palingenesi, è necessario fare uno sforzo per cercare di capire almeno dove il problema comincia. In proposito non dovrebbero esserci dubbi. Il problema inizia dalla necessità improcrastinabile di rianimare l’economia. Cosa totalmente irrealizzabile se ci si dovesse affidare al catalogo di rimedi omeopatici contenuti nel Documento di economia e finanza. In effetti, per “dare una scossa all’economia”, con qualche ragionevole speranza di ottenere risultati concreti, i veri punti di attacco sono essenzialmente due: riattivare i consumi (intervento tanto più urgente considerato che i prezzi hanno ripreso a correre); coinvolgere nell’occupazione anche una buona parte di coloro che ora ne sono esclusi. Il resto conta, ma non è decisivo. Perché sarebbe come, se ad un paziente che non ce la fa a stare in piedi, il medico prescrivesse una cura per il raffreddore. Per cercare di rimettere in moto la macchina dell’economia italiana occorre dunque affrontare, senza ulteriori indugi, la questione di una più efficace distribuzione del reddito  e del lavoro.

 

Tasse…

Sul primo aspetto. Si deve innanzi tutto agire per una più equa e funzionale distribuzione dei profitti. Incluso un rapporto più assennato ed equanime tra i compensi assegnati ai manager e le retribuzioni medie di quanti sono impegnati nella produzione. Bisogna tuttavia essere consapevoli che, nella attuale congiuntura, i margini sono stretti. E, dunque, non risolutivi. Perché è difficile ridistribuire anche ciò che non viene prodotto. Si deve quindi contestualmente intervenire sull’altro cardine della politica redistributiva, che è il fisco.

 

In proposito la cosa essenziale da tenere ben presente è che le entrate non possono diminuire. Anzi, tenuto conto del Patto di stabilità e dell’impegno al dimezzamento del debito, non è da escludere che debbano essere aumentate. Almeno per il periodo necessario al risanamento dei conti pubblici. Quindi il “meno tasse per tutti” è soltanto propaganda. E’ solo marketing elettorale di magliari. Ciò che invece può e deve essere fatto è uno spostamento del peso fiscale dal lavoro ad altri cespiti. In sostanza, poiché la situazione dei conti pubblici è quella che è, per gravare meno sul lavoro e sulle pensioni è indispensabile che un maggiore contributo al risanamento venga messo a carico di altre fonti di ricchezza.

 

Le ragioni per perseguire un tale riequilibrio sono molteplici. Prima di tutto perché serve a riattivare i consumi interni e perciò per non relegare la ripresa economica  semplicemente nel limbo delle buone intenzioni. Poi per ragioni di equità. Da alcuni anni infatti l’Irpef, da imposta sui redditi delle persone fisiche, si è di fatto trasformata in imposta specifica sui salari e sulle pensioni. Involuzione consentita dal fatto che salari e pensioni subiscono il prelievo alla fonte, mentre agli altri redditi è consentito un benevolo “fai da te”. A peggiorare le cose ha inoltre contribuito anche il fiscal drag  che, per lavoratori e pensionati, si è irrimediabilmente tradotto in una diminuzione dei consumi. Si deve infine aggiungere che i costi dell’aggiustamento economico finanziario (con cui l’esecutivo ha affannosamente cercato di tamponare la crisi) sono stati essenzialmente messi a carico del lavoro. Per farsi un’idea basterà ricordare che solo gli interventi sulle pensioni hanno portato a risparmi di spesa per sette miliardi di euro nel biennio 2009/10. Che gli interventi sulla scuola hanno determinato economie di spesa per il personale pari a 1,3 miliardi nel 2009 e 2,8 miliardi nel 2010. Che infine, nel settore sanitario, le misure di riduzione della spesa per personale e per i farmaci hanno comportato un taglio di 1 miliardo nel 2010, che salirà a 1,7 miliardi nel  2011. Tenuto conto che nel triennio successivo per gli stessi capitoli di spesa sono previste ulteriori amputazioni, il risultato è che a partire dal 2014 i tagli messi a carico del lavoro ammonteranno a una somma pari a 19,3 miliardi di euro annui. Un abbondante 1 per cento del Pil.

 

Per riequilibrare questa situazione è quindi necessario ridurre drasticamente il prelievo fiscale che attualmente grava su lavoratori e pensionati adottando misure compensative che consentano entrate equivalenti da altri cespiti. Le possibilità sono diverse. La più banale riguarda la diminuzione dell’evasione fiscale che, in Italia, ha da tempo superato ogni soglia di tollerabilità. Per riuscirci non c’è niente da inventare. E’ infatti sufficiente importare le norme e gli strumenti che hanno dato buona prova, che hanno funzionato bene, in paesi come Stati Uniti, Francia o Germania. Di nostro sarebbe sufficiente aggiungere  un paio di cosette: smetterla con le strizzate d’occhio, i discorsi corrivi dei responsabili della politica economica, verso gli evasori e gli elusori; abolire le norme sulla depenalizzazione del falso in bilancio, che hanno costituito un oggettivo incoraggiamento all’evasione ed agli imbrogli fiscali.

 

Le altre sono invece misure da introdurre ex novo. La prima riguarda la tassazione delle rendite (finanziarie ed immobiliari) che dovrebbe essere uniformata al 20 per cento. Come avviene nei più importanti paesi europei. In tal modo verrebbe, tra l’altro, corretta l’assurdità di un sistema fiscale che privilegia insensatamente la rendita rispetto alla produzione ed al lavoro La seconda consiste nella introduzione anche nel nostro sistema tributario di una imposta sulle grandi ricchezze. O imposta patrimoniale, se si preferisce. In Francia una simile imposta esiste dal 1982. Negli Stati Uniti le imposte patrimoniali equivalgono al 2 per cento del Pil. Ora, se si adottasse il modello francese, la struttura dell’imposta è abbastanza semplice da determinare: si prende la ricchezza netta familiare, si deducono 750/800 mila euro e si applica un’aliquota. Utilizzando i dati della Banca d’Italia si può stimare una base imponibile di 1.786 miliardi. Se venisse applicata una aliquota dell’1 per cento si otterrebbe un gettito di 17,9 miliardi, mentre con una aliquota dello 0,55 il gettito sarebbe di 9,8 miliardi.

 

Sappiamo che tra le ipotesi formulate da coloro che da anni parlano in maniera inconcludente di riforma fiscale c’è anche quella ridurre il prelievo sui redditi facendovi corrispondere un parallelo aumento del prelievo sui consumi. Bisogna però avere ben chiaro che un aumento indiscriminato dell’Iva, come sarebbe necessario in questa eventualità, comporterebbe due conseguenze assolutamente negative. La prima è che il sistema fiscale diventerebbe regressivo. Nel senso che, in proporzione, pagherebbero di più coloro che hanno meno. In questo caso, la “riforma” si ridurrebbe ad un gioco di prestigio, ad un imbroglio. Perché si cambierebbe soltanto “spalla al fucile”. Ma a portarlo continuerebbero ad essere gli stessi. La seconda è che un aumento generalizzato delle aliquote Iva produrrebbe un effetto inflattivo. Esattamente ciò di cui non abbiamo certo bisogno. Soprattutto in questa fase. Perché alle conseguenze negative della stagnazione vi sommeremmo anche quelle dell’inflazione, provocando una caduta libera dell’intera economia.

 

… e lavoro

Veniamo al secondo aspetto che riguarda il lavoro. Innanzi tutto si deve mettere un freno al dilagare della precarietà. Avendo ben presente che una cosa è la flessibilità altro è la precarietà. La flessibilità serve infatti alle imprese, ma anche ai lavoratori. Perché ci sono molte persone che vorrebbero lavorare ma, per ragioni personali e familiari, possono farlo solo a particolari condizioni. La precarietà serve invece solo a rompere gli argini aprendo la strada ad infinite modalità di sfruttamento.

 

In proposito, il punto che non può essere oscurato è che da tempo sta declinando il lavoro stabile, a tempo indeterminato e dilaga il “lavoro debole”, il “lavoro atipico”. Con tutti i problemi di insicurezza personale e sociale che esso comporta. Negli ultimi due anni 3 assunzioni su 4 sono state effettuate con forme contrattuali non standard. Sono così aumentati a dismisura i lavori a tempo determinato, intermittenti, saltuari. In una parola precari.  Le condizioni di instabilità ed insicurezza che queste forme di occupazione comportano riducono fino ad annullare la possibilità e la predisposizione a fare progetti per il futuro. Sia per quanto riguarda la vita personale (il matrimonio, i figli), che la vita professionale (disporre di ragionevoli opportunità di mobilità sociale).

 

Occorre quindi invertire la tendenza in atto, riorientando le politiche del lavoro all’inclusione. Per correggere il corso delle cose è necessario, da un lato, disboscare la giungla delle forme di rapporto di lavoro ipotizzate nel nostro ordinamento. Questo può essere fatto sia nei contratti nazionali di categoria, che nelle intese aziendali. La modifica della legge diventerà un adeguamento conseguente alla diffusione degli accordi in materia. Dall’altro, e sempre per via contrattuale, devono essere attivati strumenti di iniziativa e di controllo per impedire che la reiterazione per le stesse persone di forme diverse di contratti di lavoro atipici diventi un trucco per imporre condizioni di inaccettabile sfruttamento.

 

Assieme a queste improcrastinabili misure di tutela, per il problema più eclatante che oggi investe in particolare il mondo del lavoro giovanile e femminile, va però simultaneamente affrontata la questione decisiva che consiste nella inderogabile necessità di aumentare il tasso di occupazione. I devoti della scuola rispettabile e conformista, insistono nel dire che è impossibile che ciò possa accadere se non in presenza di un parallelo aumento del tasso di crescita dell’economia. Si tratta di una possibilità, ma non della sola. Tanto più che, tenuto conto delle prospettive concrete della nostra economia, significherebbe che, nel frattempo, ci dovremmo rassegnare a giocarci il futuro di una intera generazione. Fortunatamente possiamo disporre di un’altra opzione. Essa consiste nel mettere mano ad una riduzione degli orari ed a una diversa ripartizione del lavoro tra quanti vogliono lavorare.

 

Per altro, la ricetta non è nuova e non ha nulla di eversivo. Come tendono invece ad insinuare i “benpensanti”. Infatti, con riferimento alle prospettive della evoluzione economica, ne ha parlato per primo John Maynard Keynes. In una conferenza, tenuta a Madrid nel 1931, sul tema le “Possibilità economiche per i nostri nipoti”, egli ha sostenuto che in futuro avremmo dovuto abituarci a fare più cose per noi di quante non ne facessero, all’epoca, i ricchi. Così “soddisfatti delle loro piccole incombenze, dei loro compitini, delle loro abitudini da poco”. Ed aggiungeva: “Dovremo fare di necessità virtù. Vale a dire mettere il più possibile in comune il lavoro superstite. Turni di tre ore, o settimane di quindici, potranno procrastinare per un po’ il problema. Per altro, tre ore al giorno potrebbero bastare anche per tenere a bada l’Adamo che è in ciascuno di noi”.

 

Assieme alle considerazioni economiche di Keynes c’è un altro decisivo fattore che spinge al perseguimento di una riduzione degli orari in funzione di una migliore distribuzione del lavoro. Si tratta degli effetti sull’occupazione dell’aumento della innovazione tecnologica e della produttività. Per spiegare i termini della questione, il premio Nobel per l’economia Wassily Leontiev, ha fatto riferimento alle conseguenze che la meccanizzazione agricola ha avuto sui cavalli. Con l’invenzione del trattore – ha scritto infatti Leontiev – se all’inizio i cavalli avessero offerto di lavorare per meno fieno e per meno biada, avrebbero probabilmente rallentato l’introduzione dei trattori. Ma poiché nel frattempo si sarebbero costruiti trattori sempre più potenti e perfezionati, se anche i cavalli avessero deciso di lavorare gratis, sarebbero stati del tutto sostituiti dalle nuove macchine. E poiché i cavalli,  sfortunatamente, non potevano disporre né del diritto di voto, né del diritto di organizzarsi in sindacato, sono stati avviati al macello. Perciò, per estendere l’occupazione la via obbligata, anche per Leontiev, è quella di ridurre gli orari e ripartire meglio il lavoro.

 

Cosa che per altro è stata fatta largamente in Germania. Non a caso l’unico grande paese europeo nel quale la crisi non ha comportato un aumento della disoccupazione. E che, da anni, è stata perseguita nei paesi del Nord Europa. Dove, in particolare con il sostegno alla diffusione del part-time, è stato dato un contributo essenziale all’allargamento ed al sostegno dell’occupazione femminile e giovanile e quindi al pieno impiego.

 

Per evitare ogni fraintendimento, in proposito va anche detto che l’istituto dei “contratti di solidarietà”, da noi  applicato in alcuni casi di crisi aziendale (a volte, purtroppo, persino con poche o nessuna speranza di fuoriuscita dalla crisi) può sicuramente rivelarsi una soluzione utile. Bisogna tuttavia sapere che esso serve soprattutto a rinviare o lenire esiti più dolorosi. Ma, con le caratteristiche attuali, non è utilizzabile come strumento per accrescere il numero complessivo degli occupati. Per assumere concretamente questo obiettivo occorre infatti ridurre gli orari coinvolgendo anche aree e settori non direttamente colpiti dalla crisi. In modo da poter offrire effettive occasioni di lavoro a quanti vorrebbero lavorare, ma nell’attuale situazione sono impossibilitati a farlo.

 

Si capisce bene che per accompagnare tale sviluppo è necessario mobilitare anche qualche risorsa pubblica. A questo fine, un contributo importante può venire dalla abrogazione di due provvedimenti contradditori (forse, sarebbe più corretto dire cervellotici) adottati negli ultimi anni. Il primo riguarda la fiscalità di vantaggio accordata agli aumenti retributivi aziendali. La cui unica funzione rimane quella, non dichiarata, di penalizzare e svuotare la contrattazione nazionale. Il secondo riguarda l’applicazione dell’aliquota fiscale del 10 per cento sul corrispettivo delle ore straordinarie. Provvedimento eccentrico. Da un lato, perché si tratta di una misura pro-ciclica. Assunta per altro in periodo di crisi. Dall’altro, perché è una misura che spinge a far lavorare molte ore a pochi, mentre al contrario avremmo bisogno di far lavorare meno ore. Ma a tanti.

 

In definitiva questo è il catalogo. Resta solo da ribadire che chi tra le forze politiche e sociali intende davvero fare i conti con la crisi e con i sempre più drammatici problemi del lavoro, non può sfuggire al dovere di garantire in particolare alle nuove generazioni: lavoro, speranza dignità. Tuttavia deve anche sapere che ogni promessa suonerebbe falsa se non fosse accompagnata da gesti risoluti. E dunque non indolori. A cominciare, appunto, da un reale riconoscimento della verità sulle condizioni presenti dell’Italia e degli italiani.

Domenica, 5. Giugno 2011
 

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