I mirabolanti obiettivi di Marchionne

Il leader della Fiat è bravissimo a gestire la sua immagine, ma non c’è analista che non si chieda come potrà ottenere i risultati annunciati in un mondo dove la concorrenza è fortissima e i competotor appaiono assai meglio posizionati

Le dichiarazioni sull’accordo Fiat si stanno poco alla volta esaurendo. Vi hanno partecipato un po’ tutti. Alcuni con circospezione, altri con sicurezze sorprendenti. Da segnalare nella competizione tra SI e NO le dichiarazioni del sindaco di Firenze che tra una “rottamazione” e l’altra ha sentito il dovere di scendere in campo (espressione imparata dalla sua frequentazione di casa Berlusconi) con la sua non nota competenza in materia. Competenza non nota anche per quanto riguarda altre, più simpatiche persone quali Andrea Camilleri o Paolo Flores d’Arcais.

 

Adesso è tempo di seminari, certamente più utili, come quello organizzato dal Dipartimento economia di Scienze politiche di Torino, ove si sentono considerazioni e analisi più approfondite e cautela e preoccupazione sono l’atteggiamento più diffuso. Su questo i due campi del si e del no si confondono. Certo non invidio chi ha dovuto votare e sono convinto che ogni interpretazione del voto tra progressisti e non, venduti e resistenti sia del tutto – oltre che inconcludente – fasulla. Detto questo aggiungo  schematicamente  mie considerazioni che ho anche espresso nel seminario di Torino.

 

  • La Fiat ha ottenuto quello che cercava. I suoi reali obiettivi erano di tipo comunicativo-simbolico e tattico. Prendere tempo “per vedere cosa succede“ nel complesso mondo dell’auto nel prossimo anno e mezzo (tattico)e dire al mondo che “comanda lei”, che la leadership di Marchionne è forte e affidabile (simbolico). Il caso Fiat ha fatto il giro del mondo. Se n’è parlato in particolare in Usa e nelle riviste specializzate. L’immagine di Marchionne non solo come manager fuori dagli standard (il maglione, la laurea in filosofia, le citazioni di Machiavelli…, anzi su questo cominciano le battute), ma come dirigente di polso che riafferma la unicità di comando in una azienda sana che guarda al futuro con ottimismo.

 

  • Che l’amministratore delegato Fiat sia impegnato con tutte le sue ben retribuite energie a vendere l’immagine di una Fiat  e una Chrysler proiettate in avanti  è dato dai suoi continui spostamenti sulle due sponde dell’Atlantico e dai toni dei suoi discorsi in ogni possibile occasione. Non cercate argomentazioni tecniche o di ordine economico nelle sue performance comunicative.

  • Da dove prende Marchionne gli obiettivi annunciati per Fiat e Chrysler? Non c’è analista dei mercati auto che non si ponga questa domanda. Speriamo che ci azzecchi, ma come fa Crhysler, che è sotto il 10% nel mercato Usa, a triplicare le sue vendite e aumentare di oltre il doppio la sua quota? In Usa la concorrenza è spietata. Oltre a Ford, l’unica delle tre big a non avere chiesto il salvataggio ad Obama, c’è la GM che sta recuperando bene (anche perché oltre al miglioramento di modelli è comunque per gli americani un simbolo del loro paese) e ci sono i giapponesi, i coreani e nelle gamme alte la Volvo (ora controllata dai cinesi), la Saab, la Mercedes, la Bmw.


  • Anche le previsioni di crescita sul mercato europeo non suscitano minori perplessità date le caratteristiche dei mercati (prevalentemente di sostituzione) e il livello della concorrenza. Fuori Europa come è noto ed esaltato Fiat ha buoni risultati in Brasile, ma anche gli altri non sono mal piazzati e fanno utili. Non c’è in Africa e non c’è soprattutto in Cina che sta diventando il più grande mercato mondiale.

 

  • E’ stato indicato, purtroppo anche da qualche frettoloso sindacalista, che i livelli di investimento annunciati da Fiat sono garanzia di mantenimento di impegni assunti. Non ne sarei così certo. Non sono pochi gli esperti che guardano con perplessità, dal punto di vista economico, certe operazioni industriali (tra l’altro poco gradite dagli americani) quali lo spostamento di produzioni da Usa in Italia, vedasi il Suv a Mirafiori. Ma soprattutto non si possono presentare gli investimenti, obbligatori se non si vuol vivere di sola finanza, come una cosa eccezionale. Non sono più elevati di quelli dei concorrenti. E sono certamente insufficienti per tenere il passo in alcuni settori del futuro: auto elettrica, ibridi, etc… a cui aggiungere l’assenza totale di una politica industriale in Italia. Il governo è troppo impegnato a eliminare articoli della Costituzione per dimostrare volontà e competenze in materia.

 

  • Augurandoci di essere falsi profeti il futuro è pieno di incognite. E’ vero che esiste un problema di capacità produttive a livello mondiale con cui tutti devono fare i conti. Ma le auto oltre produrle bisogna venderle e se possibile ricavarne valore aggiunto consistente se si vogliono fare investimenti, avere più margini di manovra e, magari, aumentare i salari.

 

  • Non mi soffermo su altri punti nevralgici quali il rapporto Fiat-Chrysler, chi comanda chi. Dopo la sparata a San Francisco sul trasferimento in Usa del quartiere generale Marchionne ha cercato di moderare gli animi (si sarà preso paura di Berlusconi!) ma Automotive news titola ”rimandato il trasloco in Usa”. La possibilità di riuscita della 500, prodotta in Messico, nell’America del Nord, è incerta, cosa visibile  anche nelle decisioni dell’azienda di destinare questa produzione al mercato cinese. La difficoltà Fiat a salire di gamma è un problema storico. Insomma Fiat-Chrysler inseguono e non è detto che riescano a rientrare in gruppo. Da qui lo sforzo quasi titanico di Marchionne per riabilitare l’immagine dell’azienda, venderla a un pubblico non entusiasta, dimostrare che i suoi problemi non sono diversi e maggiori di quelli degli altri. Da qui anche battute infelici nei confronti del governo americano, con successive marce indietro, e non passa giorno che non vi sia uno scambio di ironie con Ferdinand Piech, l’a. d. della Vw. L’ultima è quella che questi dovrebbe stare zitto e pensare alle perdite Seat.

 

  • Pierre Carniti ha fatto, con cortesia, osservare che nell’accordo non c’è nessun impegno concreto da parte dell’azienda e questo costituisce un caso a sé nel panorama europeo. Non un “concession barganing“ dove si dà indietro ma si scambia. L’argomento che “tutti fanno così“ non regge al confronto. Alla tanto citata Vw si sono fatte politiche di contenimento e anche riduzione salariale in cambio di maggior certezza dei livelli occupazionali, dell’assunzione di giovani in apprendistato, di garanzia di investimenti in settori cruciali. Insomma decisioni dolorose che però rientrano in una strategia difensiva imposta dai tempi e dove il contrattare non è stato eliminato. Se si elimina la contrattazione, come osserva Carniti, il sindacato cambia natura.

 

  • Infine mi pare evidente che il sindacato, tutto intero, sia arrivato a questo momento cruciale del tutto impreparato. Si scontano almeno dieci anni di problemi rinviati o di scelte strategiche rimaste sulla carta. Si veda  il tema “partecipazione“ tanto caro, a parole, al sindacato a cui sono ancora iscritto. Potrebbe essere tradotto in inglese, nella sua versione non caricaturale, nella Jointness a cui ci invita l’amico Barry Bluestone. Ma il sistema di relazioni industriali in Fiat è arcaico, centralizzato, l’opposto di quello necessario per valorizzare il lavoro, motivare, trasformare le relazioni sindacali da problema a risorsa nello scenario post Taylorista. Si paga anche l’ignoranza e il populismo che traspaiono come costante nelle banali e continue dichiarazioni del segretario generale della Cisl. La più bella è che in Usa alla Chrysler è “fiorita la democrazia economica “ perché il sindacato è entrato nel CdA . Ma se l’aveva già messo Carter negli anni 80 e ci è stato per oltre un decennio con non pochi  problemi! In quanto alle azioni la Uaw non vede l’ora di liberarsene.E questo è solo un esempio tra tanti di leggerezza e improntitudine.

 

  • Anche l’azienda ha enormi responsabilità. Ha sbagliato non solo scelte produttive (la world car prima di tutto), modelli. E’ stata incapace di una internazionalizzazione all’altezza dei concorrenti. Ha introdotto un modello organizzativo pallida applicazione della lean production: la fabbrica integrata. Non è stata capace dei cambiamenti culturali necessari. Non stupisce che oggi, anche se viene esaltata nella sua rinascita dai discorsi di Marchionne, insegua.

 

Non ho aggiunto a queste considerazioni quelle relative all’organizzazione del lavoro, dove accanto a interventi di razionalizzazione che si sbaglia a demonizzare tout court quali la nuova metrica del lavoro o il Wcm (su questi mi riservo di intervenire in un prossimo futuro), ve ne sono altri puramente simbolici: le pause ridotte, l’assenteismo solo come problema di punizione e non culturale (si veda il commento di Bruno Manghi, per altri aspetti discutibile, su Pomigliano) e soprattutto l’imposizione di nuovi criteri di rappresentanza. Su questo punto si doveva levare forte anche la voce dei sindacati del SI. Ricordo che alla Seat in Spagna nel comitato d’impresa eletto da tutti i lavoratori è presente anche il sindacato anarchico, la Cnt. Non per questo non si fanno accordi. Ricordo che in Francia la Cgt spesso non firma e mantiene posizioni massimaliste e conservatrici. Non per questo è fuori dagli organismi di rappresentanza.

 

Mi sono rapidamente soffermato su quello che mi sembra il punto cruciale dell’accordo, sperando, ripeto, di sbagliarmi. Un punto che rimanda  a questioni fondamentali sia per l’azienda che per il sindacato. Quest’ultimo non può non chiedersi come nessuno, indipendentemente da chi ha firmato o meno, non avesse risposte, al “cosa proponi?”. Deficit grave per tutti che si paga pesantemente specialmente in una situazione di divisione. Una unità al negativo !

 

Infine una nota  agli amici che hanno sostenuto l’accordo. Si possono sotto il peso delle circostanze e delle responsabilità (che sarebbe bene non trasferire sui lavoratori) firmare accordi brutti, in cui si subisce. Bisogna però dirlo e soprattutto non utilizzare gli argomenti dell’azienda o di politici incompetenti per difenderlo o addirittura esaltarlo. Attività in cui si è particolarmente distinto il gruppo dirigente confederale del sindacato a cui sono ancora iscritto. Che poi senza discussione, elaborazione, studio e confronto unitario per elaborare una strategia all’altezza dell’era della globalizzazione, non si va da nessuna parte. Sono i fatti a dimostrarlo, non le mie opinabili idee.

Venerdì, 18. Febbraio 2011
 

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