Come può cambiare il sindacato

La vicenda di Mirafiori ha messo in evidenza una mancanza di strategia tanto da parte dei sindacati firmatari che della Fiom-Cgil. Ora sembra che si punti verso una regolazione legislativa che avrebbe più rischi che vantaggi. Quattro proposte per ripartire

I lavoratori delle carrozzerie dello stabilimento Fiat di Mirafiori hanno detto si nel referendum di approvazione dell’accordo firmato da tutte le sigle sindacali presenti in fabbrica ad eccezione della Fiom-Cgil. Si chiude, con un risultato inequivoco, un periodo tumultuoso durante il quale tutti hanno contribuito a sovraccaricare di significati il “caso” facendolo uscire dal suo contesto per evocarne, in modo improprio, una valenza generale. Ciò che vale ora è esigere dalla Fiat il puntuale rispetto degli impegni e dai sindacati che hanno sottoscritto l’intesa una coerente vigilanza per la attuazione e una capacità di difesa dei diritti dei lavoratori che sono contenuti nell’accordo nonché adoperarsi per relazioni intersindacali, anche con la Fiom-Cgil, più convergenti. E’ questa la condizione per far bene il proprio mestiere di rappresentanti dei lavoratori. E questo in particolari in Fiat.

 

Le vicende Fiat di questi ultimi mesi hanno comunque evidenziato aspetti che possono aprire prospettive inedite per il futuro delle relazioni industriali. Anche se è evidente agli esperti di cose sindacali l’assoluta specificità delle relazioni industriali in Fiat, così come ci invitava a considerarle il compianto Gino Giugni, il comportamento dei protagonisti e l’attenzione dei media ne fanno un test di valenza generale. In questo caso Fiat e Fiom interpretano due tesi  inconciliabili. La Fiat vuole prevedibilità nella gestione della nuova fabbrica: turni adeguati alla domanda, presenza dei lavoratori in fabbrica prevedibile, accordi esigibili. E tutto questo presentato come il vincolo di una nuova condizione competitiva internazionale. La Fiom, all’opposto, pensa che il potere è tutto nella libertà di iniziativa del sindacato. Soprattutto quando l’azienda ha interesse alla produzione.

 

Insomma alla Fiom, in assenza di una strategia e di una efficace rappresentatività, va bene anche la guerriglia (ovviamente quando si può e dove si può). E’ una situazione nuova perché, sino ad ora, è stato proprio il negoziato, anche duro, tra le parti la risorsa che ha risolto i conflitti. Ed è cosi importante il ricorso al negoziato, basato su informazioni esaustive della posta in gioco, che la Unione europea ha prodotto una Direttiva, che ha valore di legge inderogabile, che prevede che in tutte le aziende che hanno unità produttive in più stati dell’Unione i lavoratori e i sindacati possano richiedere la costituzione un organismo, il  Cae - Comitato Aziendale Europeo - i cui componenti vengono eletti tra i lavoratori e al quale partecipano i sindacati e al quale le aziende debbono fornire non solo le informazioni sulle strategie e sugli investimenti ma debbono tenere conto delle considerazione del Cae circa le decisioni. Dunque la contrattazione come risorsa. E’proprio ciò che è mancato nel rapporto tra Fiat e Fiom-Cgil .

 

E’ stato evocato il 1980 con la radicalità che l’ha contraddistinto. Ma gli effetti dello scontro di allora tra Fiat e Flm (cosi era l’acronimo che racchiudeva i sindacati metalmeccanici di Cgil, Cisl, Uil) diedero uno scossone in senso contrario all’antagonismo che si era espresso con la “occupazione” di Mirafiori e che era stata conclusa con un accordo unitario. Anzi quella vicenda, motivata anche allora da parte dell’azienda come una necessità competitiva, ha aperto la strada alla partecipazione e al “sindacato soggetto politico”. E questo in ragione del fatto che il gruppo dirigente sindacale di allora una strategia l’aveva maturata dopo il decennio ‘70 e il drammatico epilogo della vicenda Fiat di allora. Una strategia che faceva perno sulla necessità della accumulazione per una ripartizione non inflazionistica della crescita della produttività, un rapporto tra impegni in questo senso del sindacato, riduzione dell’inflazione e sviluppo con particolare riferimento all’occupazione, anche se poi, per ragioni esterne, il sindacato si divise (14 febbraio 1984).

 

Gli stessi sottoscrittori di oggi di parte sindacale dell’intesa Fiat che è stata oggetto del referendum denunciano limiti di strategia. A ben vedere il documento sottoscritto è un normale accordo sindacale in presenza di una forte ristrutturazione in un settore ad alta competizione internazionale: flessibilità garantita delle turnazioni con l’uso di quote di orario straordinario esigibile, deterrenza verso il cosiddetto assenteismo anomalo, introduzione di una nuova, e si presume più efficace, metodica del lavoro controbilanciata da procedure sindacali di contestazione dei tempi assegnati dopo la fase di assestamento, riproporzionamento delle pause per i lavoratori a ritmo vincolato in ragione delle innovazioni tecniche-organizzative.

 

La eccezionalità è data dal fatto che per rendere esigibile l’intesa i sottoscrittori hanno convenuto con l’azienda di “uscire” dal contratto nazionale. Era necessario? Certamente no! Le turnazioni il contratto nazionale già le prevedeva, lo straordinario al sabato pure anche se in minore quantità e per l’assenteismo anomalo non era il caso di uscire dal contratto. Ovviamente se si fosse registrata una normale dialettica tra le parti! Di fronte al no della Fiom a deroghe contrattuali e alla radicalizzazione dei comportamenti questo passo è stato ritenuto dalla Fiat necessario e i sindacati che hanno sottoscritto l’accordo hanno convenuto seppur con vaghe dichiarazioni circa la temporaneità della decisione.

 

Sia chi ha sottoscritto l’intesa che chi l’ha avversata hanno cosi dato un colpo grave al contratto nazionale peraltro già in crisi dopo l’accordo interconfederale sulla defiscalizzazione degli aumenti salariali e sugli straordinari definiti a livello aziendale. La vicenda attuale poteva anche finire prima di questo passo estemporaneo. Come fini con l’accordo del 1988 quando la Fiom non firmò ma successivamente, dopo qualche mese, nominò i propri componenti nelle commissioni di partecipazione definite con l’intesa e dalle quali era stata all’inizio esclusa in quanto non firmataria. Quell’accordo fu approvato dagli organismi statutari di Fim e Uilm e sulla base di quel mandato fu illustrato alle assemblee dei lavoratori.

 

Qui entra in ballo un altro elemento innovativo rispetto alla prassi consolidata ed è l’impegno dei sindacati sottoscrittori contenuto nell’accordo di sottoporre al referendum tra i lavoratori i contenuti dell’intesa. E’ questa una anomalia. In primo luogo per la Fiat e per le parti datoriali che si sono sempre sottratte a questo vincolo ritenendo esaurita con la firma dei sindacati ogni controversia. Qui invece l’azienda vincola l’attuazione degli impegni sottoscritti tra le parti all’approvazione dei lavoratori attraverso un referendum.

 

Sullo strumento ci sono storicamente state diverse valutazioni tra i sindacati. La Uil lo ha da sempre considerato uno strumento necessario anche per depotenziare gli effetti della democrazia “ assembleare”. La Fiom e la Cgil lo hanno, successivamente alla Uil, considerato necessario per l’approvazione degli accordi. La Fim-Cisl lo ha, quasi sempre, fieramente osteggiato a favore della sovranità degli organismi della democrazia rappresentativa. La procedura decisionale basata su gli organismi rappresentativi è propria di un sistema sindacale basato sulla autonomia collettiva dove l’accordo sindacale è un patto tra rappresentanze di lavoratori che liberamente si associano a tutela dei loro interessi e che si obbligano al rispetto degli accordi in nome degli associati. E’ chiaro che l’adeguarsi della Fim-Cisl alla scelta referendaria e il convenire con la parte datoriale su questo punto, in tutt’uno con la Uil-Uilm, per le implicazioni che essa produce mette in crisi tutto il sistema sul quale si sono basate le relazioni industriali. Inoltre l’accordo interconfederale del 1993 ha istituito le rappresentanze sindacali unitarie (Rsu) che, assistite dai sindacati firmatari del contratto nazionale, possono esercitare in azienda la contrattazione e definire accordi a quel livello. L’accordo Fiat  esclude dalla rappresentanza aziendale la Fiom-Cgil che non l’ha sottoscritto e questo come conseguenza dell’uscita della new company Fiat-Chrysler dalla Confindustria che ripristina per questa azienda il regime di rappresentanza sindacale previsto dalla Legge 300 modificato dal referendum promosso da Rifondazione Comunista nel 1995.

 

La prassi di approvazione degli accordi e l’esercizio della rappresentanza in azienda quindi vengono stravolti. Per queste ragioni le Confederazioni vengono spinte, come mai fino ad ora, verso soluzioni legislative di regolamentazione delle rappresentanze sindacale in azienda e della definizione dei loro compiti.

 

In sostanza, si dice, occorre una nuova regolazione dei poteri e una modalità condivisa di soluzione dei conflitti intersindacali. E su questo sono al lavoro numerosi volontari ansiosi di far attraversare la strada alla vecchia signora. Senza trascurare il fatto che, nella nuova situazione, il “contratto” assume una propria valenza non più come atto privato ma di natura pubblicistica. La questione attiene anche alla sua applicabilità alla generalità delle aziende e dei lavoratori e questo implica anche la verifica della rappresentanza datoriale. Questa appare la deriva innescata dalle vicende Fiat a meno che non ci si fermi in tempo considerando che per tutto il sindacato sono più i pericoli che le opportunità che la nuova realtà evidenzia.

 

Il primo è rappresentato dal fatto che con la situazione politica e parlamentare attuale si sa come si entra ma è problematico immaginare come si esce da una richiesta di regolazione legislativa della materia: ancorché sostenuta da un “avviso comune” tra Confederazioni e Confindustria.

 

Il secondo è che di fronte al fatto che il lavoro è “locale” e che l’economia è “globale” sarebbe necessaria più che mai l’autonomia collettiva per regolare i diritti e le prestazione in ragione dei tempi dei cambiamenti e al mutare dei contesti competitivi e non avere un sistema burocratico e ingessato.

 

La Cisl, soprattutto, dovrebbe riflettere se il gioco avviato vale la candela. Se cioè la possibilità di mettere in mora un sindacato concorrente (oggi la Fiom o la Cgil e domani? ) vale la perdita della propria autonomia che è stata la ragione della propria affermazione e che ha retto il no all’applicazione degli articoli 39 e 40 della Carta Costituzionale. I cocci sono rotti ed è sempre meglio un otre nuovo che uno rappezzato. Fuor di metafora è tempo di misurarsi su terreni nuovi anche perchè i lavoratori chiedono nuove e più estese tutele oltre che contare di più nelle imprese e nel paese. A mò di suggestioni si potrebbe:

 

a)     Immaginare un intervento legislativo che, senza toccare la contrattazione e la sua rappresentanza sindacale, che va lasciata alla autonoma decisioni delle parti, istituisca organismi obbligatori attraverso i quali si realizzi la partecipazione dei lavoratori nell’impresa. Una partecipazione fondata su strumenti esigibili con rappresentanti votati da tutti i lavoratori e con prerogative efficaci fino alla partecipazione nel Cda dell’impresa. Sarebbe questo un allargamento della democrazia nella economia del tutto legittimo e uno strumento di correzione sociale dell’economia di mercato. Del resto ci sono ormai normative previste sia dai Cae che nello “Statuto dell’azienda europea”.

b)     Anche in ragione di predisporre una tutela minima ma efficace va definito con una apposita legge sia un salario minimo garantito che le tutele previdenziali collegate a valere per tutte le prestazioni di lavoro con una verifica anno su anno  con la partecipazione delle parti sociali (ecco un lavoro efficace per il Cnel).

c)      Su queste basi le parti sociali riformino il sistema contrattuale dando spazio ad una efficace dimensione aziendale della contrattazione e trasformando il livello nazionale adeguandolo alla nuova dimensione competitiva delle aziende e alle sempre più difficili condizioni di tutela per i lavoratori in tale contesto.

d)     Le confederazioni e le federazioni di categoria dei settori più esposti alla competizione internazionale e quelli che hanno aziende con proiezioni internazionali investano risorse economiche e umane per dare all’azione internazionale del sindacato una dimensione negoziale facendo uscire le attuali centrali internazionali (Ituc e Ces e le relative Federazioni internazionali di categoria) dall’attuale ruolo diplomatico-celebrativo.

Venerdì, 28. Gennaio 2011
 

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