Se Marchionne studiasse alla London School

La metodologia Ergo-Uas che verrà introdotta alla Fiat avrebbe bisogno di quell’”autoriflessività” (il coinvolgimento degli operai nei miglioramenti della produzione) teorizzata dagli studiosi della produttività e applicata in Giappone e Germania. Ma il Lingotto l’applicherà “all’italiana”, perdendo così l’ennesima occasione

Nel dibattito sui casi di Mirafiori e Pomigliano sono comparse due magiche sigle non facilmente intellegibili ai molti: Wcm e Ergo-Uas. Nessuno però ha sollevato il tema dell’autoriflessività operaia che la via italiana al toyotismo (il marchionnismo) disattende.

Con l’introduzione della tecnologia Wcm (Word Class Manufacturing) la Fiat vuol innovare l’organizzazione del lavoro, basandola su una rivisitazione del toyotismo e della produzione snella (lean production) per ridurre sprechi, tempi morti, difetti e scorte (just in time). Nell’ambito di questa nuova configurazione organizzativa, l’operaio non deve spostarsi per prendere i pezzi da montare, ma li riceve in un cassettino mosso da un robot, come già alla Fiat di Melfi e di Cassino, alla Iveco di Brescia e in altre imprese italiane.

Ben diversa invece è l’introduzione della metodologia Ergo-Uas, un sistema di misurazione dei movimenti, dei tempi e dei metodi di lavoro in funzione degli sforzi del singolo lavoratore, che dovrebbe sostituire la metodologia Mtm (misurazione tempi e metodi), di stampo taylor-fordista, in uso dal 1971 a seguito di un accordo tra le parti sociali che definiva le soglie minime di riposo (1). La metodologia in uso tiene conto dei tempi impiegati per una lavorazione, delle posture e del livello di forza applicata, mentre la nuova mira a definire - senza il contributo di analisi e di valutazione da parte dei lavoratori e dei loro delegati -  i tempi medi in funzione di più parametri (pesi, tipo di movimento, numero dei movimenti), ma soprattutto ad abbassare, per le posture «non disagevoli», i coefficienti di maggiorazione ergonomici e tecnico-organizzativi. E qui sorge il problema, in quanto il diavolo sta - come spesso succede -  proprio nei dettagli.

Mentre nel sistema Wcm la razionalizzazione delle operazioni di una mansione comporta un aumento dei volumi (pari restando lo sforzo), ed è visto come un risultato organizzativo, con il nuovo sistema ergonomico Ergo-Uas (strumento che aiuta a definire i ruoli lavorativi) i tempi standard verrebbero imposti dall’esterno, sulla base di una ricostruzione da parte manageriale delle operazioni e dei movimenti effettuati, operata grazie ai sofisticati sistemi informatici incorporati nelle nuove tecnologie. Si vuole, in altri termini, che gli spazi o interstizi vuoti che si vengono a determinare e/o i minuti di lavoro divenuti «più leggeri» per effetto delle nuove tecnologie, vengano impiegati per produrre di più, saturando meglio i tempi di ciclo di una postazione lavorativa e riducendo i fattori di riposo (quindi intensificando i ritmi di lavoro).

Dal momento che le nuove soluzioni tecnologiche consentono di ridurre la fatica, questa riduzione dovrebbe essere proprio l’occasione d’oro per indirizzare quell’attenzione, «liberata» dalla fatica, nella direzione di un’attivazione di quella autoriflessività teorizzata da Beck e Giddens (che vuol dire London School of Economics) da parte di ogni singolo operaio sulle operazioni eseguite, per diagnosticare i difetti e le cause, per risolvere i problemi, per migliorare la qualità, per affrontare le discontinuità e le novità, suggerendo innovazioni sui modi e sui metodi lavorativi. L’autoriflessività ha il potere di mettere in discussione il sapere degli esperti, di valorizzare il sapere pratico e tacito e di generare un costante sviluppo. Rappresenta una versione autorevole delle moderne teorie costruttiviste della conoscenza, che pone alla base la centralità di un corpo, di una «mente incarnata» e della relazionalità, in quanto fonti di senso e significato dell’esperienza della vita lavorativa quotidiana.   

Tale autoriflessività deve però essere innanzitutto legittimata dal management e poi essere stimolata da riconoscimenti estrinseci ed intrinseci. È questa la strada dell’auto-attivazione e coinvolgimento dell’operaio, seguita dalle imprese giapponesi ma anche tedesche, teorizzata e praticata da Ohno, il grande inventore del toyotismo e del miglioramento continuo (kaizen); da Argyris e Schön, i teorici dell’apprendimento organizzativo; da Koike, lo specialista dello sviluppo intellettual-cognitivo dell’operaio, attraverso la porzione di operazioni non-routinarie che ogni operaio dovrebbe affrontare, premessa per la costruzione della polivalenza professionale. Il complemento di tutto ciò sta in un ampliamento del lavoro di squadra e in una riduzione della gerarchia. È questo il terreno genetico dello sviluppo delle competenze, della incessante attività di innovazione, della continua crescita della produttività. È questa la «buona pratica» che la Fiat dovrebbe offrire al resto delle imprese italiane, mettendosi a capo di un movimento di rinnovamento del modo di produrre nel nostro paese.

Un fatto non trascurabile è che l’autoriflessività lungo i processi produttivi si auto-paga, nel senso che si traduce in un controllo in itinere della qualità, con l’eliminazione (o la drastica riduzione) di quell’attività di verifica che tradizionalmente si colloca a fine processo.

L’accordo sottoscritto alla Fiat costituisce una via «italiana», anziché europea, all’efficienza. Noi riteniamo che in tema di applicazione del sistema Ergo-Uas non ci siano soluzioni da calare dall’alto, come portato di scoperte organizzativo-scientifiche, ma semmai proposte da avanzare e da concordare con i lavoratori e i loro rappresentanti attraverso quel dialogo sociale tipico delle relazioni industriali europee. Ci sentiamo quindi in perfetta sintonia con la mancata «partecipazione organizzativa», lamentata dal sociologo Bruno Manghi, oppure con la denuncia della mancata considerazione di soluzioni alternative e più efficienti ai regimi di orario di lavoro (il 6 per 6 su quattro turni di Nicola Cacace, che farebbe aumentare l’utilizzo degli impianti a 136 ore rispetto alle 135 previste dall’accordo, e che renderebbero le condizioni di lavoro più umane; oppure gli «orari a menù» di Luciano Pero, che ridurrebbero l’assenteismo e aumenterebbero la flessibilità produttiva interna, al posto di quelli imposti con il nuovo contratto: l’8 per 6, su tre turni e/o il 10 per 4 su due turni).

La soluzione da execution delle direttive manageriali che si è voluto imporre, al di là della spaccatura sul consenso alla proposta, ha prodotto paure, timori e sospetti, l’esatto contrario dello scambio di fiducia indispensabile per operazioni di reingegnerizzazione della portata di un Wcm-Uas, che solo una trattativa in linea con la tradizione del dialogo sociale all’europea avrebbe potuto generare. La portata e l’esito del referendum sono però anche un segnale della scarsissima cultura  - sia a destra che a sinistra, nel sindacato e nel padronato - sull’organizzazione del lavoro, sul valore della partecipazione e sui meccanismi di fondo che producono produttività, efficienza, inclusione sociale e crescita. La carenza di una spessa e articolata comunicazione tra le parti, di una profonda conoscenza delle nuove tecnologie e di una vasta competenza sui modelli organizzativi post-fordisti è all’origine dello scontro, carico di eccessi di ideologismi, sulla via italiana alla produttività e allo sviluppo. I risultati strutturali di questo andazzo, che sta durando dalla metà degli anni ’90, sono alla luce del sole.

Nota
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1) Nell’intesa del 1971 le soglie minime di riposo sono definite come il complemento a 100 dei tempi di saturazione, ovverosia dei tempi necessari a eseguire una sequenza di operazioni di uno specifico compito lavorativo. Sulle linee di montaggio la percentuale di saturazione massima, nell’arco delle 8 ore, era stata fissata all’88% per le linee con tempi di cadenza superiore ai 4 minuti, per scendere progressivamente all’84% per cadenza fino ad un minuto. 

Mercoledì, 26. Gennaio 2011
 

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