Nuove proposte per nuovi contratti

Una questione salariale aggravata. Le proposte sul carovita. Il sistema del 1993 rischia di crollare. Le revisioni necessarie. Un rinnovamento utile al sindacato e all’impresa.
E' difficile negare che vi sia un rapporto tra quella che si è ormai abituati a definire la "questione salariale " (cioè la perdita di potere d'acquisto delle retribuzioni rispetto al costo della vita, con le ben note conseguenze sulle relazioni industriali) e il funzionamento del sistema contrattuale. Certo, la questione salariale ha anche altre cause ed altri aspetti, come il dilagare dei lavori precari, le ingiustizie nella distribuzione del reddito, le speculazioni e la friabilità dei controlli nella fase successiva all'entrata in vigore dell'Euro. E' anche possibile sostenere che forse non bisogna eccedere in generalizzazioni, e che le radici profonde del fenomeno affondano indietro nel tempo.
Tuttavia, non è senza significato, né senza motivo che il problema esploda proprio mentre il protocollo del luglio 1993 viene svuotato, senza che si vedano soluzioni di ricambio capaci di conferire al sistema contrattuale equilibri altrettanto stabili di quelli che il protocollo ha garantito per un decennio all'economia ed alla pace sociale del nostro Paese. Può essere utile dunque, a mio parere, affrontare il problema, o almeno una parte di esso, partendo proprio da una riflessione sul protocollo, sulle ragioni della sua crisi, e sulle possibili soluzioni da darvi. Il protocollo del 1993 nasce, com'è noto, sulle macerie della scala mobile, con l'intenzione di conferire al sistema contrattuale un assetto capace di mantenere in equilibrio inflazione e salari, e di consentire un' equa distribuzione della produttività. Per ottenere tale risultato, il protocollo ha creato un "castello" di regole semplice e raffinato insieme, su cui si riflette, a mio parere, troppo poco.
 
Il sistema contrattuale fondato dal protocollo è, com'è ben noto, bipolare. Alla contrattazione nazionale di categoria si affida il compito di mantenere l'equilibrio tra inflazione e salari, sulla base di un meccanismo in cui si mescolano contrattazione "guidata" ( dalla concertazione sociale) e possibilità di adattamento alle specifiche condizioni delle singole categorie. Tutto si basa, in definitiva, sulla capacità dei soggetti della concertazione di trovare, nell'inflazione programmata, un punto di convergenza tra l'inflazione prevedibile, e quella desiderabile. Una volta trovato tale equilibrio, i soggetti contrattuali sono tenuti ad adeguarvi i loro comportamenti, a partire dalle rivendicazioni salariali.
 
Gli effetti virtuosi del meccanismo sono tuttavia meno "automatici" di quanto sembri. Per realizzarli, occorre, innanzitutto, che i rinnovi rispettino tempestivamente le scadenze previste, non essendo certo sufficiente a garantire la difesa del potere d'acquisto, il moncone di automatismo rappresentato dall'indennità di vacanza contrattuale. Occorre inoltre che si trovi un accordo sull'entità del divario tra inflazione programmata e inflazione reale allo scadere del biennio, e perché ciò avvenga è necessario che si disponga di dati affidabili e condivisi, che i parametri in base ai quali calcolare lo scostamento (inflazione "importata", andamento dei salari di fatto eccetera) siano anch'essi condivisi, e che le parti si comportino in modo leale nel valutarli.
Non meno importante è il ruolo del secondo livello contrattuale. In questo caso, si usciva, all'inizio dagli anni novanta, da una fase in cui la contrattazione aziendale aveva dapprima galoppato impetuosamente nella fase dell'espansione del potere sindacale, per poi finire quasi soffocata dal peso degli automatismi. Il modello disegnato dal protocollo collega strettamente l'erogazione di salario aziendale alla creazione di un microsistema partecipativo, nel quale le parti definiscono innanzitutto una serie di obiettivi comuni in termini di maggiore produttività, qualità, redditività aziendale. E' un meccanismo ambizioso, non solo perché prevede un impegno forte delle parti nell'elaborare gli strumenti tecnici di scelta e misurazione degli obiettivi, e una conversione culturale in senso partecipativo, ma soprattutto perché presuppone un modello produttivo basato sulla crescita della qualità e della produttività, e non prevalentemente sull'abbattimento dei costi attraverso la flessibilità del lavoro.
Quali sono i problemi che si sono manifestati nei dieci anni di funzionamento dell’accordo del 1993? Alcuni problemi, per dir così fisiologici, hanno accompagnato fin dagli inizi la vita del protocollo, sollecitando revisioni e ritocchi. Altri, invece, emersi più di recente, mettono in discussione la sua stessa sopravvivenza. Per quanto riguarda la contrattazione nazionale, i problemi "fisiologici" hanno riguardato soprattutto alcuni aspetti del recupero dell'inflazione programmata rispetto a quella reale. L'accordo prevede, infatti, che nella sua determinazione debba tenersi conto anche di parametri come l'inflazione importata e la dinamica delle retribuzioni reali: si tratta di fattori di difficile valutazione, almeno finchè non si creano strumenti congiunti ed affidabili per misurarli. Su questo si sarebbe dovuto ( e non lo si è fatto) intervenire per opportuni interventi di manutenzione, capaci di rimuovere le ambiguità contenute nel testo del protocollo, e rendere più fluida la contrattazione.
 
Occorre tuttavia rilevare che una certa conflittualità che si è determinata su questi temi in occasione del rinnovo di alcuni contratti (ad esempio diverse tornate del contratto dei metalmeccanici) è inevitabile, essendo questi, appunto, i varchi lasciati aperti per adattare alle diverse realtà categoriali quella che sarebbe stata altrimenti solo la meccanica trasposizione, eguale per tutti, dell'aumento percentuale dei salari legato all'inflazione programmata. A livello aziendale, le ricerche disponibili rivelano che l'entrata in vigore del protocollo ha effettivamente modificato le dinamiche rispetto al periodo precedente: la percentuale di imprese in cui si applica il cosiddetto "salario variabile", è passata infatti, nel decennio, da un terzo a due terzi del totale.
Meno positivo è il responso delle stesse ricerche sull'effettivo collegamento delle nuove formule salariali a un clima di partecipazione. La principale debolezza del sistema risiede, tuttavia, nella quota ancora troppo bassa di aziende in cui si pratica la contrattazione aziendale e nella scarsa diffusione della contrattazione territoriale. Guardando, sia pure sommariamente, ai dieci anni di funzionamento del protocollo si possono dunque rilevare certamente ritardi, colpevoli pigrizie, insufficiente motivazione a trarre tutte le conseguenze dagli impegni assunti in quell' estate del 1993. Tuttavia, non sono questi i problemi che hanno determinato la crisi decisiva del sistema contrattuale.
 
Tale crisi nasce, infatti, quando a smettere di funzionare sono i cardini stessi del protocollo, primo tra tutti il legame tra salari e inflazione. E' considerazione generalmente condivisa, infatti, che il collasso sia cominciato quando il governo ha deciso di rottamare la concertazione, e in particolare la determinazione congiunta del tasso d'inflazione programmata. Il divario crescente tra le percentuali definite nel Dpef e l'inflazione reale, anche superiore a quella ufficiale, hanno infatti determinato la crisi di quel legame virtuoso che aveva funzionato, sia pure faticosamente, per una decina d'anni. Questo fenomeno si è sommato ai ritardi nel rinnovo di numerosi contratti, nonostante le procedure contenute nell'accordo: il ritardo dei contratti non solo rende più difficile la rincorsa "giorno per giorno" dei salari rispetto al costo della vita, ma lascia tracce durature sul potere d'acquisto di intiere categorie.
 
Naturalmente, la necessità di recuperare il potere d'acquisto dei salari induce le organizzazioni sindacali ad alzare il prezzo sul tavolo nazionale, determinando un serio rischio di soffocamento della contrattazione decentrata, e un ridimensionamento degli spazi da lasciare alla valutazione/retribuzione della produttività. Alla fine, insomma, il mancato funzionamento dei meccanismi collocati al vertice produce disastrosi effetti " a cascata" sull'intiero sistema.
 
Come uscire da questa impasse? Le proposte sono le più varie. Prima di esaminarle, tuttavia, bisogna probabilmente mettere un punto fermo. Occorre cioè riflettere sul fatto che le esigenze che furono alla base della creazione del protocollo del 1993 appaiono oggi nient'affatto superate, ma sono anzi tutt'ora ben vive. Quello che appare evidente, infatti, è che vi sono alcune questioni che non sono eludibili, se si vuole ripristinare un clima di pace sociale paragonabile a quello del decennio scorso, fermando il preoccupante revival conflittuale di questi ultimi tempi.
La prima è che occorre avere un equilibrato sistema di recupero dei salari rispetto all'inflazione. La seconda è che deve esservi un esteso e collaborativo sistema di redistribuzione dei guadagni di produttività a livello aziendale e/o territoriale. La terza è che i contratti devono essere rinnovati con fisiologica tempestività, e con la minore conflittualità possibile.
 
A tutte tre queste esigenze il protocollo ha dato risposte che si sono rivelate sufficientemente efficaci per tutti gli anni novanta, fintanto, cioè, che il protocollo è stato, più o meno consapevolmente, "suicidato". "Suicidato", sia pure in un organismo reso ormai più debole dal logorio di un decennio ( e quale decennio!), e dai mutamenti nel frattempo intervenuti. Ma che avrebbe potuto ( e forse potrebbe ancora, con i dovuti correttivi) vivere ancora. Si tratta, a questo punto, di verificare se vi sono altre strade percorribili, che abbiano la stessa efficacia; in particolare, si tratta di vedere se le ipotesi che vengono oggi proposte come alternative siano altrettanto credibili.
Quella più alla moda riguarda l'equilibrio tra i livelli contrattuali. Secondo alcuni, sarebbe opportuno spostare il baricentro della contrattazione verso il livello territoriale, per tener conto della diversità del costo della vita nelle diverse zone del Paese. Secondo altri, occorre potenziare la contrattazione aziendale (e territoriale) per dare più importanza alla redistribuzione della produttività, ed evitare che la contrattazione si esaurisca nel rapporto salari-inflazione. Si tratta di "ricette" diverse, sulle quali è aperta una discussione.
 
Per quanto riguarda la contrattazione territoriale, non è ben chiaro quale dovrebbe essere il ruolo che rimarrebbe al contratto nazionale, se non che esso verrebbe fortemente ridimensionato. Si tratta, ovviamente, di un'ipotesi che merita di essere considerata. Vi è innanzitutto da capire se si tratti di una tesi per dir così "genuina", ovvero prevalentemente strumentale; di misurare cioè quanto essa corrisponda al sogno degli avversari delle relazioni industriali a tutte le latitudini, di far correre all'indietro le lancette della storia, che ha visto consolidarsi la dimensione nazionale della contrattazione, man mano che aumentava la forza dei sindacati.
 
Nel merito, è necessario riflettere sulle conseguenze che avrebbe una totale regionalizzazione della contrattazione collettiva. Occorre rilevare, intanto, la difficoltà di identificare un ambito territoriale nel quale vi sia un' effettiva omogeneità del costo della vita. E' di comune evidenza che vi sono differenze assai consistenti, all'interno delle regioni, e a volte all'interno della stessa provincia. Ma anche una volta superata questa obiezione, si tratta di capire quali effetti determinerebbe una scelta come quella appena ricordata. I vantaggi ipotizzati dai sostenitori dell'ipotesi in questione sembrano riguardare, da un lato, la tenuta dei salari, e dall'altro l'occupazione.
 
Secondo questa tesi, il CCNL sarebbe uno strumento troppo oneroso per le imprese delle regioni a più basso sviluppo, e insoddisfacente, invece, per i salari dei lavoratori delle regioni più sviluppate. La contrattazione territoriale consentirebbe invece di far aderire i salari alle specificità del territorio, garantendo una copertura delle retribuzioni adeguata al costo della vita locale. Si produrrebbe così una serie di sistemi contrattuali regionali, nei quali la determinazione del livello dei salari dipenderebbe ovviamente dai rapporti di forza tra le parti, ma anche dalla maggiore o minore complessità dei sistemi di servizi, dal mercato del lavoro, eccetera.
 
Ciò significa che le regioni più industrializzate, moderne e complesse sarebbero probabilmente sottoposte a più forti pressioni sindacali,(e a maggiore conflittualità) e avrebbero retribuzioni più alte rispetto alle altre, con conseguenze tutte da valutare sulla competitività delle imprese e dei servizi, mentre, a parità di prestazioni, si verrebbero a creare differenze consistenti dal punto di vista retributivo tra le diverse zone del paese, con imprevedibili conseguenze sul mercato del lavoro.
 
E' probabile, peraltro, che i salari e le condizioni di lavoro praticati nelle regioni più ricche determinerebbero prima o poi un effetto di trascinamento anche in altre regioni, con l'effetto di provocare evidenti squilibri complessivi. Da verificare sarebbero poi le conseguenze sull'occupazione, poiché non è affatto detto che il minor livello dei salari sia di per sé in grado di attrarre investimenti verso le regioni meno sviluppate. In realtà, se è dubbio che segmentare la contrattazione nazionale in una miriade di contratti regionali possa avere effetti positivi sull'occupazione, è altrettanto dubbio che possa costituire una risposta al problema della difesa dei salari.
 
Nessuno ha dimostrato finora che il meccanismo previsto dal protocollo del 1993 su base nazionale abbia determinato gravi perdite del potere d'acquisto delle retribuzioni nelle regioni più industrializzate: il sistema teneva equilibratamente conto dell'inflazione media nazionale, e proprio nelle regioni più industrializzate funziona la contrattazione aziendale (e quella individuale) che corregge all'insù la dinamica retributiva. Viene da chiedersi piuttosto se l'esplodere della questione salariale nei territori in cui è più alto il costo della vita tragga origine dal fatto che negli ultimi anni si sono fissati tassi d'inflazione inattendibili rispetto alle dinamiche economiche reali, al punto da rendere poco efficace perfino il meccanismo del recupero dell'inflazione a posteriori. Quello di garantire un attendibile ed equilibrato meccanismo di difesa del potere d'acquisto delle retribuzioni valido in tutto il paese dovrebbe essere interesse di tutti, anche degli imprenditori, senza inseguire la chimera di un ridimensionamento del sindacato nazionale, che è peraltro un boomerang, come rivela abbondantemente la storia degli ultimi cinquant'anni.
 
Il prolungato default di questo meccanismo non può infatti che scatenare conflitti, e alimentare la nostalgia del ritorno a forme di adeguamento automatico delle retribuzioni, con tutti i problemi che la scala mobile ha storicamente determinato nel nostro paese, e con il risultato certo di indebolire lo strumento contrattuale. L'altro corno del problema è quello della contrattazione decentrata. E' evidente infatti che la difesa dei salari dall'inflazione non esaurisce la questione salariale. Il protocollo prevedeva che l'azienda dovesse essere la sede in cui avveniva, in forma partecipativa, la redistribuzione della quota di salario eccedente il recupero dell'inflazione, con uno stretto collegamento con gli incrementi di produttività.
 
Questo meccanismo ha funzionato bene, limitatamente alle realtà in cui c'è contrattazione. Il protocollo sembra avere insomma avuto un effetto più qualitativo (orientando i contenuti della contrattazione aziendale) che quantitativo (capace di determinare, cioè, una maggior diffusione della contrattazione aziendale e territoriale). E' questo il problema fondamentale, quello di sviluppare la contrattazione decentrata, non solo per poter dare un' ulteriore risposta alla questione salariale, ma anche perché il meccanismo previsto dal protocollo è finalizzato al miglioramento dell'efficienza aziendale.
 
L'estensione della contrattazione di secondo livello (aziendale e territoriale) non può che derivare da uno sforzo comune delle parti sociali, e dunque da una ripresa e da un intensificarsi di un clima concertativo; il suo sviluppo dovrebbe essere collegato al deciso spostamento verso questo livello di tutta la retribuzione della produttività, eliminando anche quella controversa clausola del protocollo che assegna alla contrattazione nazionale una competenza su questa materia. Appare evidente tuttavia che non basta ipotizzare di allargare la contrattazione di secondo livello. Sarebbe negativo infatti che tale ampliamento rilanciasse un confronto privo di regole, basato dunque sui meri rapporti di forza Occorre farlo secondo lo spirito del protocollo, quello di collegare la retribuzione aziendale a un progetto, nel quale le varie parti , azienda, sindacati e lavoratori abbiano effettivamente la possibilità di conoscere e incidere anche dal punto di vista decisionale, in un contesto gestionale di tipo partecipativo.
 
C'è, infine, una terza questione, ed è quella della tempestività dei rinnovi contrattuali, essendo evidente che i ritardi, che sono ormai molto diffusi e raggiungono tempi molto lunghi, sono causa di erosione nel potere d'acquisto e di conflittualità. Si tratta di ritardi che dipendono da diversi fattori. Nel caso dei contratti del settore pubblico, che sono stati rinnovati tutti a più di un anno dalla scadenza, la ragione dei ritardi nasce da scelte di politica economica che non hanno indirizzato sufficienti risorse verso i rinnovi nel momento in cui i contratti avrebbero dovuto essere negoziati. Vi è stata un' evidente difficoltà del governo a mantenere tempestivamente gli impegni che esso stesso aveva preso, nel momento in cui aveva firmato, nel febbraio 2002, un accordo con i sindacati sulla base dell'inflazione programmata.
 
Il ritardo ha peraltro aggravato la situazione, perché ovviamente, in una fase in cui l'inflazione reale superava di gran lunga l'inflazione programmata, è stato difficile per gli stessi sindacati mantenere le rivendicazioni entro i limiti concordati molti mesi prima. Oltre a ciò, vi sono ovviamente altre ragioni che conducono a ritardi nella stipulazione dei contratti Alcune sono ragioni per dir così strutturali, come ad esempio il troppo elevato numero di contratti esistenti nel settore pubblico (ma anche in quello privato), che non solo determinano un'enorme dispersione di energie negoziali, ma lasciano spazio a interessi (e sindacati) sovente microcategoriali, corporativi e difficilmente mediabili. E' d'altra parte evidente che l'indebolimento di punti di riferimento negoziali certi, come quelli rappresentati dal protocollo, e la tendenza a chiedere alla contrattazione non già trasformazioni graduali, ma svolte radicali, sovraccarica i contratti di motivazioni ideologiche, e in qualche misura estranee alla normale dialettica negoziale.
 
Vi è insomma un mix di ragioni, di natura economica, strutturale, ideologica, che rende sicuramente più difficile stipulare i contratti nella stagione post-concertativa. A ciò si deve aggiungere, per quanto riguarda in particolare il settore pubblico, l'esistenza di regole procedurali ancora troppo complesse, soprattutto nel sistema dei controlli pre e post contratto, con lungaggini che si potrebbero facilmente rimuovere con un poco di buona volontà. Si può dunque rimanere dubbiosi circa la possibilità che un semplice cambiamento delle cadenze contrattuali, che renda triennale la durata dei contratti nazionali come alcuni propongono, possa essere risolutivo. Se non si modificano i presupposti, e in particolare il clima negoziale, gli slittamenti rischierebbero di essere anzi ancora maggiori, non essendovi neppure più lo stimolo "morale" della scadenza del biennio economico. 
Le brevi osservazioni fatte fin qui, e molte altre che si potrebbero aggiungere, dovrebbero essere sufficienti a rilevare come gli avvenimenti degli ultimi mesi nelle relazioni sindacali italiane siano il sintomo di una situazione che è giunta ormai a un livello di notevole gravità. La "questione salariale" nasce, tra le altre cose, anche dallo stato di sostanziale anomia nel quale versa il sistema contrattuale, dopo il -provocato - collasso del protocollo del 1993. Tale situazione, che potrebbe essere fisiologica se si intravedesse la volontà di progettare un nuovo equilibrio, appare particolarmente grave perché proposte per una revisione sono entrate in una fase di attesa logorante, mentre circolano idee estemporanee. C’è la necessità di ritrovare un clima concertativo.
Martedì, 10. Febbraio 2004
 

SOCIAL

 

CONTATTI