La crisi è di destra. E la soluzione?

E' stata una sorta di "catena di Sant'Antonio" globale quella che ha provocato il più grave sconquasso dell'economia moderna, ma è stato un mix di demagogia libertaria e di ideologia autoritaria che l'ha resa possibile. Ma dopo questo clamoroso fallimento, la sinistra, se esiste ancora, troverà qualcosa da dire?

Secondo chi scrive, l’analogia della crisi finanziaria con la catena di Sant’Antonio è quella che sembra meglio aiutare a capire quel che è successo e perché e come è successo.

Perché la natura vera della crisi è quella. Noi la chiamiamo così. In America la chiamano catena Ponzi, dagli anni ’20 del secolo scorso, quando la sperimentarono per la prima volta per iniziativa di un giovane immigrato nostrano, Charles Ponzi, che la applicò su larga scala al mondo della finanza, avendola imparata a casa sua da ragazzo, a Lugo di Romagna. Frode costruita sul meccanismo a piramide che da noi è noto con il nome più casareccio del buon fraticello di Padova (dicono perché a inizio secolo scorso la prima e più famosa fosse di natura “spirituale” e iniziasse con le parole “recita tre Ave Maria a Sant’Antonio e spedisci questo invito a tre altri tuoi amici”) e frode che alligna in ogni strato sociale, in genere da noi tra i poveracci ed i grulli, ma lì a Boston, con Ponzi, tra i milionari e i grandi finanzieri.

Ora, come la catena di sant’Antonio, quest’ultima crisi finanziaria internazionale è frutto dell’avidità, dell’illusione, di una pseudo-magia. Della fiducia, insomma. Che chi ci investe ne ricaverà un rendimento, quando altri investitori verranno convinti a investire. Nel fondo, i primi a investire in un marchingegno del genere riescono quasi sempre ad uscire da vincitori. Il problema è che man mano che la piramide si espande, se ne allarga la base che richiede investimenti sempre maggiormente diffusi; aumentano i rischi; e, poi, c’è il collasso.

E’ matematica, anzi aritmetica allo stato puro. I nuovi investitori che arrivano pagano i vecchi. Allo stato puro, non c’è mai alcuna reale attività d’affari. I soldi in arrivo da un numero di investitori che deve restare sempre crescente vanno semplicemente a ripagare quelli arrivati in passato per mantenere l’apparenza di un profitto. E il problema sorge perche l’offerta di allocchi non è mai infinita e, prima o poi, qualcuno manda a quel paese l’invito e la piramide crolla.

Lo ha confessato del resto, praticamente con queste parole, il pacato ideatore ed emulo della megacatena di Sant’Antonio americana dei tempi moderni, quel Bernie Madoff inventore dell’ Ascot Partners hedge fund e del suo fallimento per un “impacchettamento” di derivati da 50 miliardi di $ quando, all’FBI che lo arrestava ha detto – pare aver detto – che era vero, lui “pagava gli investitori con soldi che proprio non c’erano”. Già… (1)

Ed è cosi che funzionano i mercati finanziari globali. Senza alcuna regolazione non era proibito, come invece la catena di sant’Antonio è proibita, almeno formalmente, in Italia o anche in America, dalla legislazione nazionale. Da due decenni, più o meno, il capitale esistente sui mercati finanziari è stato prestato sul mercato dei cosiddetti subprime. Che, poi, venivano “impacchettati” con altri investimenti e rivenduti sui mercati internazionali.

Tutti insieme, questi “nuovi strumenti finanziari” – diciamo i “derivati”, proprio perché derivano il loro valore sul mercato da qualcosa d’altro: di cui nessuno, però, conosce il valore – secondo la Banca dei regolamenti internazionali di Basilea, unica istituzione mondiale che sembra aver seguito sistematicamente la cosa, sarebbero pari a 1,14 quadriliardi di $: con quadriliardo che è il termine tecnico (come bilione per miliardo, triliardo per mille miliardi, ecc.) in uso in America a denotare una cifra seguita, nel nostro caso, da 15 zero.

1,14 milioni di miliardi di $, dunque: composti da 548.000 miliardi di derivati che la BRI registra come insolventi e 596.000 miliardi di derivati nominali/OTC (over-the-counter, cioè non quotati in Borsa, letteralmente “da banco”: come i medicinali generici…) (2) Pensate che il PIL del mondo intero, tutto insieme, nel 2007, valeva qualcosa come 70 mila miliardi di $. Dividete 1,14 milioni di miliardi per questi 70.000 e avrete un’idea della cifra pazza di cui stiamo parlando.

E, a un certo punto, sempre più banche si sono trovate a chiedersi se valeva la pena di vendere e di scambiare “prodotti”, come li chiamano, tra di loro e con i clienti, visto che nessuno era più sicuro della solidità o della vacuità degli investimenti l’uno dell’altro. E pressoché tutte insieme hanno smesso di farlo.

Questa crisi – sia quella della finanza che quella dell’economia “reale” – somiglia poi a una catena di Sant’Antonio anche perché il suo collasso genera indignazione e rabbia e senso di assoluta impotenza nelle sue vittime – e complici insieme, in quanto ingordi di rendimenti immediati e strabilianti, fuori della norma del mercato “normale”.

Il fatto è che spesso le vittime si ritengono vittime di quella specifica catena malnata e mal congegnata, non del meccanismo in sé e ci ricascano. La stessa cosa che avviene con ogni crisi del capitalismo: mai dovute alle magagne insite nella struttura (per esempio, alla deregolamentazione sistemica) ma sempre alla debolezza della carne ed all’avidità che sembra “originale”, come si dice, in tutti gli esseri umani. Insomma, ad un'anomalia del sistema, mai al suo normale funzionamento.

Adesso sembra chiaro a tutti – o almeno ai più – che questa crisi economica non è solo finanziaria ma è anche una crisi più vasta, di ordine propriamente sistemico. Non certo la “crisi finale”― almeno secondo chi scrive: ogni crisi, piuttosto, sembra la crisi penultima (o come ha detto un vecchio saggio recentemente, forse esagerando un po’, “Il capitalismo ha i secoli contati” – Giorgio Ruffolo, 2008, Einaudi).

A fine novembre, le statistiche ufficiali hanno confermato che la recessione americana era già cominciata a dicembre del 2007: mesi e mesi prima, cioè, del crack della Bear Stearns e della Lehman che ha dato inizio a tutto. La crisi finanziaria ha di sicuro peggiorato la situazione, ma non è stata la causa della crisi complessiva. Che affonda nel tipo di sovrapproduzione tipico del sistema e nella difficoltà di venderne sul mercato, alle condizioni (ai prezzi, cioè) del mercato, i prodotti.

La sovrapproduzione (o, se volete, il sottoconsumo) resta, infatti, una caratteristica del nostro sistema: l’incapacità periodica, cioè, di spacciare con profitto sul mercato le produzioni. Pensate alle automobili oggi: non è che non c’è domanda, non c’è più, come c’era, domanda solvibile da parte di chi acquisterebbe il prodotto, ma non ha il potere d’acquisto necessario per farlo.

Ma c’è anche una sovrapproduzione di capitale, nel sistema, nel senso che ne esiste di disponibile, messo insieme in anni ed anni di accumulazione, più di quanto sia investibile in un dato momento, col rendimento voluto dall’investitore, in termini di profitto e, soprattutto, di profitto immediato.

E siccome il capitale non è solo finanza ma anche impianti, macchinario, tecnologia, in quelle fasi di insufficiente redditività magari anche solo nell’immediato del capitale, si può verificarne la distruzione (la chiusura e la svendita); oppure, esso può essere investito in modo, come dire?, frivolo. Da anni, e per anni, con le “bolle speculative” è andata così. Oggi, da qualche mese, è la prima modalità – la chiusura e la distruzione di mezzi di produzione e la dismissione di tecnologie – che si impone.

La crisi congiunturale, quella di oggi e di qui ma che tocca tutti un po’ dappertutto, è la crisi anzitutto del neo-liberismo: la forma particolare di accumulazione vigente dagli ultimi anni ’70 del secolo scorso, quella propagandata da Friedman e imposta da Reagan. E’stato, il neo-liberismo, un processo di riorganizzazione del sistema a livello globale, spinto e sorretto da significativi cambiamenti tecnologici (la rivoluzione elettronica, ecc.) ma non tecnicamente “neutrale” perché guidata da una specifica visione di stampo ideologico.

Insomma, privato è buono, pubblico è cattivo; e no ad ogni forma di keynesismo perché, in un modo o nell’altro in ogni sua versione, enfatizza il ruolo dello Stato, del pubblico, nel promuovere la domanda. Ma utilizzo pieno, invece, dello Stato nel ruolo di sorvegliante e repressore, preferibilmente morbido, del cambiamento sociale e di agente che attivamente, con la legge ed i mezzi a sua disposizione – comunicazioni di massa, propaganda, “cultura” oltre alla buona, vecchia azione “normale” di polizia – rimuova gli ostacoli (sindacali ad esempio) all’accumulazione del profitto.

E, al contempo, promuova un processo attivo di de-regolamentazione. Resa possibile dall’ascesa di un movimento di destra di massa, anche se spesso superficialmente radicato, che vede il ruolo del governo, dello Stato, solo come collettore di tasse e di restrizioni burocratiche e vuole dunque un governo che si impegni (non che necessariamente proceda) ad eliminarle. E’ con questo mix di demagogia libertaria e di destra autoritaria che il neo-liberismo si è rafforzato e si è propagato.

E il cerchio si chiude: è proprio questa ideologia de-regolatrice che ha esponenzialmente contribuito alla crisi finanziaria di oggi. Si è cominciato dai primi anni ’80 a ridistribuire nel corso di una ventina di anni in media il 10-15% del reddito delle classi lavoratrici e medie a favore di quelle possidenti – dei ricchi, cioè, contro i poveri o, almeno, i più poveri – e si è rafforzato il processo sempre di più in parallelo al declino – del resto inevitabile: non produceva ricchezza sufficiente a sostenere insieme consumi di massa ed armamenti da superpotenza – del presunto modello alternativo dell’economia di comando.

Il crollo, deliberatamente perseguito in America sotto il primo Bush e Clinton e il vigile occhio tecnico di Alan Greenspan alla Fed, del muro che separava l’attività delle banche commerciali da quella delle banche di investimento, ha poi gettato le fondamenta del casino attuale.

Da sottolineare dieci volte, poi, è che questa crisi è davvero globale. Davvero perché mai prima, neanche nel 1929, aveva raggiunto questa ampiezza e anche per la rapidità con cui si è diffuso il contagio. Attesta dell’internazionalizzazione, appunto, davvero globale del capitale finanziario ma anche della sua relativa precarietà, perché gli strumenti di governance di cui esso si è finora dotato (il Fondo, la Banca, il sistema di Banche internazionali) non erano stati inventati per gestirla e, infatti, non lo riescono a fare. Di qui il ripetersi inane di tanti vertici: alla ricerca dell’araba fenice di una governance che proprio non c’é. E di qui il fatto che gli accenni di soluzione che ci sono stati sono stati quasi esclusivamente abbozzi a livello nazionale.

La crisi segnala anche un contrasto non irrilevante e per niente latente tutto interno tra chi gestisce e/o controlla il capitale finanziario e chi quello produttivo. Il caso dei 700 miliardi di dollari, o forse già più di 1.000, stanziati anche se non ancora tutti versati sull’unghia e sostanzialmente sulla parola alle banche in America e dei 15 miliardi centellinati, invece, a condizioni capestro, all’industria dell’auto lo dimostra. E’, esplicitamente, il tentativo di schiacciare quel che resta del sindacato industriale in America, la vecchia e gloriosa U.A.W., ultimo bastione forse di rapporti del lavoro non del tutto normalizzati. Ma è anche il tentativo del mondo finanziario di far disciplinare a suo piacimento dallo Stato – e dunque dalla legge, non più e comunque meno dal contratto – il mondo produttivo, le sue condizioni, il passo ed il patto del suo sviluppo economico.

Una nota finale, ma a dire il vero quella che potrebbe stare all’inizio di tutto, proprio di tutto. Ha detto adesso Nouriel Roubini, uno tra i pochi economisti che avevano in tempo lanciato l’allarme, inascoltati, e che, quindi, bisognerebbe stare adesso a sentire (sono una decina in tutto in America, in Italia forse due o tre) che, con ogni probabilità, “eviteremo la Grande Depressione ed una recessione particolarmente severa anche se il rischio di un rallentamento assai prolungato della crescita invece c’è tutto. Dunque, non credo proprio che questa sia la fine del capitalismo, delle economie di mercato. Suggerisce piuttosto che ci siano fallimenti del mercato di grande rilievo, e che i mercati non autoregolano l’un l’altro”. (3)

I mercati che non si autoregolano… Già, lo diceva duecentocinquanta anni fa Adam Smith, colui che si inventò il libero mercato, il capitalismo. E spiegò, tra mille altre intuizioni di buon senso, che “Non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio, o del fornaio che ci aspettiamo il nostro desinare, ma dalla considerazione del loro interesse personale. Non ci rivolgiamo alla loro umanità ma al loro egoismo e parliamo dei loro vantaggi e mai delle nostre necessità”. (4)

Giusto! Il fondamento dell’economia di mercato, del capitalismo, è questo beninteso interesse di tutti per sé. E, in genere può funzionare, anche se l’ineguaglianza è il corollario obbligato di questo approccio.

Scordano sempre, questi cantori, l’altro Adam Smith, quello che proprio sulla deregolamentazione e/o l’autoregolamentazione dei produttori, esprime tutta la sua scettica insofferenza:

Badate, diceva, che “L’interesse dell’uomo d’affari, in qualsiasi particolare branca del commercio o dell’industria, è sempre in qualche aspetto differente e persino opposto a quello del pubblico. (Perché) è sempre suo interesse ampliare il mercato e ridurre la concorrenza… (la prima cosa, magari, anche utile per il pubblico) ma la seconda sempre contraria all’interesse pubblico…     (Per questo) la proposta di ogni nuova legge o regolamentazione commerciale proveniente da questa classe dovrebbe sempre essere ascoltata con grande cautela e non dovrebbe mai essere adottata prima di lungo e attento esame, cioè considerata non soltanto con la più scrupolosa ma con la più sospettosa attenzione. Essa viene da una classe di persone il cui interesse non coincide mai esattamente con quello del pubblico, la quale ha generalmente interesse a ingannare e persino a opprimere il pubblico e la quale di fatto, in molte occasioni, l’ha ingannato e oppresso”. (5)

Un po’ duro, sembrerebbe, no?, da no-global prima maniera, quasi. Ma anche chiaro.

E la sinistra, quella che si chiama e si considera ancora sinistra? Partiamo da un riconoscimento che a noi pare fondamentale: che l’analisi smithiana ancora ci serve, se la prendiamo non parziale, incompleta e di parte come ce la propinano i suoi tardi epigoni, ancor ieri trionfanti e oggi speriamo umiliati per sempre della Chicago school friedmaniana. E che si va facendo sempre più universale, anche se da molti è vissuto ancora quasi come uno scongiuro, il riconoscimento che l’analisi di stampo marxista del sistema ancora largamente funziona.

La buttiamo lì, questa, soprattutto perché se molti lo sanno e lo vedono, non lo dice più quasi nessuno.

Ma sempre lì ci fermiamo. Almeno per ora. Perché la soluzione non ce la dà certo il marxismo. Che è analisi, metodo, disciplina feconda. Non altro. L’altro è stato, appunto, altro. E, per come ci si è presentato, è fallito.

Ma con esso, forse, è anche fallita la sinistra?

E’ una domanda.

O la sinistra, visto quel che è la destra, e la totale inconsistenza del centro, s’è soltanto assopita?

E questa, più che altro, è una disperata speranza.

 

Note

(1)   New York Times, 26.12.2008, B. Herbert, Stop being stupid (Smettiamola di fare gli stupidi).

(2)   Per il testo dello studio, vedi il sito della Bank of International Settlements, Semiannual Derivatives Statistics at End - December 2007 (Statistiche semestrali sui derivati a fine dicembre 2007: cfr. ).

(3)   Financial Times, 23.12.2008, N. Roubini, Light at the end of the tunnel after a year of stagnation (La luce alla fine del tunnel dopo un anno di stagnazione).

(4)   A. Smith, Teoria sulla Ricchezza delle Nazioni, Opere Scelte 2006, ed. Il Sole 24 Ore, Libro Primo, cap. 2, p. 157.

(5)   Ibidem, cap. 11, p. 393

Domenica, 4. Gennaio 2009
 

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