Trentin, un dialogo che continua

Ad un anno dalla sua scomparsa, ripercorrere la sua avventura sindacale ed umana serve non solo a ricordarne l'impegno e l'abnegazione, ma anche a riflettere su quanto sta accadendo oggi nel sindacato e tra i sindacati

Il ricordo di Bruno Trentin, ad un anno del suo commiato, acuisce i motivi del rimpianto. Tanto più che l’agitato svolgimento delle vicende quotidiane sembra negare, o perlomeno contraddire, le sue alte speranze. Quelle che lui ha coltivato ed animato con straordinario impegno. Tuttavia credo che, proprio la sua avventura sindacale ed umana, ci debba persuadere che occorre saper guardare oltre la superficie sempre mutevole delle cose per capire che le speranze non si alimentano di tracce abbaglianti, di gesti clamorosi e tanto meno dimostrativi, ma esigono costante passione ed abnegazione. In effetti la ricerca sociale ed umana di Bruno Trentin si è disposta su questo difficile limite.

 

Il mio primo incontro con Trentin risale agli inizi degli anni sessanta, quando assieme a Piero Boni sostituì Lama alla segreteria generale della Fiom. Io ero all’epoca il giovane segretario della Fim milanese. Quelli erano anni di difficile ma anche esaltante ripresa dell’iniziativa sociale, dopo il lungo inverno seguito alla dolorosa divisione sindacale ed alla inevitabile contrapposizione che ne era derivata. Per un insieme di circostanze toccò proprio a Bruno ed a me, dopo oltre un decennio di attività separate, fare al Vigorelli di Milano il primo comizio nazionale unitario. In quella occasione mi colpì  il fatto che le parole di Trentin non ripetevano la concitazione di altre sterminate parole che si potevano ascoltare nella maggior parte delle manifestazioni pubbliche di questo o quel partito. Le sue erano pacate ed impegnative. Tendevano alla complessità, piuttosto che alla semplificazione. Ebbi persino la sensazione che risultassero deludenti per un certo numero di partecipanti, predisposti al comizio come spettacolo. Ma anche in questo modo Trentin manifestava la sua cifra originale. Non una civetteria da intellettuale. Credo piuttosto il consapevole rifiuto del conformismo.

 

Negli anni immediatamente successivi il nostro rapporto diventerà pressoché quotidiano, in conseguenza della comune responsabilità nazionale nei metalmeccanici. Ripensando a quel periodo credo meriti di essere sottolineato che il dialogo e l’impegno alla costante ricerca di un punto di sintesi unitaria hanno sempre costituito un dato fermo. Questo è stato possibile perché si partiva dall’assunto che il dialogo non andava inteso come competizione, il che purtroppo si verifica spesso nella vita politica e sociale, ma come disponibilità a riconoscersi. Cosa tanto più essenziale in quanto Trentin ed io venivamo da culture ed esperienze diverse. Lui dall’incrocio tra la cultura azionista e quella comunista. Negli anni novanta e duemila il suo pensiero sarà influenzato anche dal personalismo di Emmanuel Mounier e di Jacques Maritain ed, in misura minore, persino dal liberalismo. Io venivo invece dalla cultura Cristiano-sociale. Cultura che aveva in Don Primo Mazzolari un punto importane di riferimento. E’ noto, perlomeno a quelli della mia generazione, che il messaggio di Don Mazzolari  non era riducibile entro schemi di tipo ideologico. Non aveva immediati riferimenti politici. La sua predicazione era, prima di tutto, la sua scelta di vita. Stare dalla parte dei poveri e degli oppressi, di chi è comunque vittima, era per lui un comandamento che leggeva nel Vangelo. Quindi un comandamento che non può venire a patti con la storia, ma drammaticamente la attraversa.

 

Ritengo che in una certa misura questa diversità di provenienze spieghi anche le discussioni, arrivate in alcuni casi a momenti di vero e proprio contrasto, che ci hanno visti dislocati su posizioni diverse. Discussioni che hanno riguardato solo marginalmente divergenze su questa o quella politica rivendicativa. Anche perché entrambi eravamo persuasi che sulle politiche un compromesso è sempre possibile. Nella maggior parte dei casi addirittura necessario. L’oggetto delle discussioni ha invece riguardato principalmente il rapporto tra l’autonomia rivendicativa e le dinamiche politiche ed istituzionali. Cioè l’infausto cortocircuito che di tanto in tanto si è verificato tra autonomia del sociale ed autonomia del politico. Con Trentin, in generale, più attento e sensibile alla dislocazione delle forze politiche e dunque della “politica che si fa” ed io invece, di norma, più preoccupato della “politica che non si fa”. Ma, questa contraddizione, questa diversità di valutazioni, non ci ha però impedito di lavorare perché non si chiudesse mai un varco. Perché rimanesse sempre aperta una ricerca comune.

 

E questo è risultato quasi sempre possibile, perché al fondo c’era una solida convergenza su un punto essenziale. Vale a dire il convincimento che mentre la “verità ci fa liberi” (come scrive Teresio Olivelli, nelle Preghiera del Ribelle), la “libertà ci fa veri”. Tanto più dopo che la libertà era stata riconquistata a prezzo di tanto dolore e tanto sangue. Come era successo nella Resistenza. A questo riguardo sono sempre stato convinto che la radicalità cristiana esprima un messaggio di “liberazione”, ma sono sempre stato altrettanto convinto che dentro la storia della convivenza umana non c’è possibile alba di liberazione senza libertà. Che perciò non ci può essere  “liberazione” al di fuori di un continuo, permanente impegno a difesa della libertà e della democrazia.

 

Sappiamo bene, per l’insegnamento che ci deriva dal lungo e doloroso cammino dell’umanità, che libertà e democrazia non sono mai conquiste che si fanno una volta per tutte. Perché periodicamente possono essere rimesse in discussione. E che perciò, in ogni epoca storica, possono essere confermate e consolidate solo con l’impegno a sfidare il privilegio di pochi, sconfiggendo l’apatia di molti. Per questo resto dell’avviso che se il cristiano non cerca nella storia la verità, perché  secondo la sua fede è già stata incarnata e rivelata, egli non può non essere consapevole che nella storia la libertà può essere conseguita solo attraverso l’opera comune, di credenti e non credenti. Cosa che diventa possibile solo nel segno della laicità. Laicità che non definisce, dunque, una separatezza. Ma, nell’impegno politico e civile, vuol dire essere riconoscibili, perché si  riconoscono gli altri. Il che naturalmente esige una regola di tolleranza. Intesa non come semplice fatto di misura, o di buona educazione. Ma come sostanziale disponibilità a mettersi in discussione nel rapporto e nel confronto con altri.

 

Questa considerazione mi induce ad un accenno alla attualità sindacale. In proposito vorrei dire che faccio fatica a giudicare condivisibile, o anche soltanto persuasivo, il reiterato richiamo alle presunte insuperabili diversità tra organizzazioni. In quanto mi sembra che esse non possano avere altra plausibile spiegazione che non sia quella di alimentare un anacronistico patriottismo di organizzazione. Patriottismo che mi sembra francamente assai poco compatibile  con l’esigenza di costruire una efficace strategia per il futuro. Tenuto conto che nelle dinamiche che influenzano il cammino delle grandi organizzazioni collettive serve a poco, e forse a nulla, rassicurarsi. Bisogna infatti principalmente sapere rassicurare. Cosa possibile se, in primo luogo, si riesce a capire le ragioni, o anche soltanto le preoccupazioni, di chi è in cammino con noi. Senza mai dimenticare che la crescita e lo sviluppo della libertà e della democrazia, fondamentali per ogni progresso sociale, sono perennemente alimentate dalle “coscienze inquiete”. Sono sorrette da una continua “vibrazione ideale”.

 

Coscienza inquieta e vibrazione ideale che sono state un tratto importante della vicenda umana e nell’impegno civile di Bruno Trentin. A cominciare dalla battaglia per la libertà, iniziata giovanissimo con la partecipazione alla guerra di liberazione nazionale dal nazifascismo. Tra l’altro mi sembra significativo che al suo ultimo libro (pubblicato nel 2004) abbia voluto dare un titolo significativamente ammonitore: “La libertà viene prima”. In effetti l’orizzonte, a partire dal suo impegno giovanile, è stata la libertà. Libertà come condizione della democrazia. Democrazia al cui consolidamento dedicherà poi il resto della sua vita sindacale. Sto parlando di una democrazia  senza aggettivi, secondo la formula cara a Norberto Bobbio. Intesa cioè “come crescita di libertà, come compito di giustizia, come ideale di eguaglianza”.

 

Soprattutto per questo il ricordo di Trentin è importante per tutti noi. E’ importante non perché da lui possiamo dedurre le risposte ai problemi che ci affannano quotidianamente. Oltre tutto ricercare le soluzioni ai problemi del proprio tempo è un rischio ed un compito che coloro che si trovano ad esercitare una responsabilità devono saper correre da soli. Ricordare Trentin significa, dunque, rammentare in particolare che anche molto di ciò che scorre ai nostri giorni può essere affrontato solo se si sa fare appello, se si è capaci di coinvolgere le “coscienze inquiete”. Anche perchè “I grandi cimiteri sotto la luna” (di Gorges Bernanos) interrogano ancora, e forse di  più, la coscienza dei democratici. La disoccupazione, la precarietà, l’aumento delle disuguaglianze, la xenofobia ed il razzismo, le guerre, la fame a cui continua ad essere condannato un terzo dell’umanità, chiedono angosciosamente conto della nostra qualità. Della nostra disponibilità e capacità di essere all’altezza delle sfide che abbiamo di fronte.

 

Tra queste una delle principali per noi, perché interpella prioritariamente il sindacato, è la capacità di invertire la pericolosa deriva in atto  di uno “Stato politico” che tende a disfarsi e comunque a rimettere in discussione lo “Stato sociale”. Personalmente la considero una questione cruciale. Non solo per ragioni di equità. In quanto tende a trasferire il peso dei rischi sociali dal pubblico al privato. Cioè alle famiglie ed alle persone. Comprese quelle che non hanno i mezzi materiali e culturali per farcela. Ma perché mina le basi stesse della democrazia. Non possiamo infatti sottovalutare che in assenza di  diritti sociali per tutti, un crescente numero di persone viene sospinto ai margini e può essere indotto  a ritenere inutili anche i propri diritti politici. E comunque non particolarmente meritevoli della propria attenzione. Non si dovrebbe perciò mai oscurare lo stretto legame esistente tra diritti politici e diritti sociali. Se infatti i diritti politici sono stati necessari per conquistare i diritti sociali, i diritti sociali sono indispensabili per rendere effettivi i diritti politici. In effetti in una democrazia vitale diritti politici  e diritti sociali hanno bisogno gli uni degli altri. Simul stabunt, simul cadent. La loro sopravvivenza dipende perciò da una tenuta comune. Qui c’è dunque una sfida a cui mi pare che il sindacato e tutti i democratici non dovrebbero e non possano sottrarsi.

 

A questo fine né garrule smemoratezze né un pragmatismo senza principi, che a volte sembrano invece dominare il campo della vita pubblica, consentono di eludere una domanda di valore che riguarda il rapporto libertà-verità. Rapporto che diventa, se possibile, ancora più stringente. Perché viviamo in una epoca nella quale individualismo e consumismo accentuano il pericolo che vada smarrito il senso di una “libertà vera”.

Voglio concludere ricordando che in memoria degli studenti dell’università di Padova caduti nella resistenza (ateneo a cui Trentin era particolarmente legato) venne posta l’epigrafe: “Hic vivunt, hic virent”. (Qui vivono, qui  rifioriscono). Credo sia proprio questa stessa profonda convinzione che ci permette di continuare il colloquio con Bruno Trentin, in forme non più lontane di quanto accadeva prima del suo commiato. Hic vivunt, hic virent. E’ questa certezza che, in definitiva, ci consente di andare oltre il rimpianto e continuare il nostro dialogo con chi ci ha già lasciato. Sapendo per altro, che quando si smarrisce un solido aggancio con il passato diventa ancora più arduo costruire il futuro.

Giovedì, 30. Ottobre 2008
 

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