l'Iraq cinque anni dopo.Cronache di una follia

Quattromila morti americani e centinaia di migliaia iracheni. E poi costi stratosferici che Bilmes e Stiglitz calcolano in almeno tremila miliardi di dollari, mentre Bush aggirava il Congresso con un uso abnorme e incostituzionale dei poteri d’emergenza

Mettiamola così. Se Prodi e D’Alema non avessero avuto altri meriti, quello di averci portati via dall’Iraq spetterebbe loro comunque. Perché non fu facile, quando dal nuovo Pierre poco-eremita Giuliano Ferrara a Corriere, Repubblica e Stampa tutti ( per fortuna non proprio tutti…) quelli che in questo nostro paese contavano predicavano del dovere di fedeltà al grande alleato senza macchia e senza paura che decideva tutto da solo, fregandosene delle regole dell’alleanza.

 
E aveva stabilito di ingaggiare – ma come avrebbe potuto non farlo con queste premesse? – la guerra santa, la vera e propria crociata ordinatagli personalmente e direttamente contro l’“asse del male” dal Padre suo (con la p maiuscola), quello che risiede nell’alto dei cieli e al presidente comunicava i suoi desideri, o i suoi ordini, direttamente. Dio, insomma [Corriere della sera, 7.10.2005, Iraq, Bush: “L’attacco me l’ha ordinato Dio”; e The Guardian, 7.10.2005, George Bush: “God told me to end the tiranny in Iraq”— Dio mi ha detto di “metter fine alla tirannia in Iraq”: cfr. www.guardian. co.uk/world/2005/oct/07/iraq.usa/]. Battaglia, poi, comunque necessitata dal fatto (due più due fa quattro, no? disse Bush) che se non li domiamo lì, costi quel che costi, ce li ritroveremmo poi a casa nostra, ecc.
 

Partì tutto da qui, anche al di là del controllo del mercato petrolifero. Il punto oggi è che, malgrado tutto, ancora non tutti (in America ma anche da noi) vedono le dimensioni reali del disastro che quella guerra ha portato:

• ha bruciato, forse per generazioni, la credibilità dell’America e non solo (del Regno Unito e di quanti, facendo finta di credere alle loro menzogne, li seguirono pedissequamente), buttandola alle ortiche fin dalla prima menzogna, quella che bisognava fare la guerra a Saddam non tanto, come aveva detto a Bush di persona il Signore Dio Onnipotente, per “mettere fine alla sua tirannia” ma per sottrargli il controllo delle armi di distruzione di massa… che erano, e poi risultarono, inesistenti perché inventate dal niente [la documentazione più completa ed irrefutabile del deliberato e cosciente imbroglio è sul web, nello scambio di pro-memoria fra l’ufficio del premier britannico e i suoi spioni: naturalmente segretatissimo ma naturalmente, poi, pubblicato: sul sito ufficiale di Downing Street [cfr. www. downingstreetmemo.com/realitycheck.html/].

 
• ha ammucchiato e seppellito morti, feriti e storpiati, a centinaia di migliaia: contando solo quelli iracheni (gli americani alla vigilia di Pasqua hanno toccato quota 4.000) la cifra ufficiale del governo americano non è conosciuta, dato che dal primo giorno, memore della lezione del Vietnam, il Pentagono si è rifiutato di tenere il conto; 150.000, è invece la cifra ufficiale del governo iracheno; e sui 600.000 morti  è il computo elaborato per la popolazione civile irachena dalla autorevole Lancet, il mensile di medicina americano universalmente riconosciuto come il più importante del mondo [autore Gilbert Burnham, della Johns Hopkins University, “Mortality after the 2003 invasion of Iraq”— La mortalità dopo l’invasione dell’Iraq del 2003:  cfr. www.thelancet. com/journals/lancet/article/PIIS0140673606694919/fulltext/]; certo, va da sé che questi morti sono “mischiati”: quelli dovuti ai bombardamenti americani, quelli dovuti agli attentati degli iracheni: insomma tutti quelli che senza invasione non ci sarebbero stati, meno quelli che avrebbe provveduto Saddam a fare lui se fosse restato in sella;

 

• ha fatto passare la tortura come una pratica normale e “accettata”, l’istituzionalizzazione della violenza contro le popolazioni civili e le incarcerazioni senza processo di migliaia di civili iracheni; 

  

• e ha bruciato (in nome della libertà e della democrazia, si capisce) montagne di soldi – la stima, più che autorevole e credibile è quella di cui vi parliamo qui subito dopo, sui 3.000 miliardi di dollari, oggi sui 1.940 miliardi di euro: grosso modo il PIL dell’Italia – in omaggio al Moloch della guerra.

 

E, allora, forse è utile riprendere a riflettere un po’ proprio sui costi di questa guerra.A partire da quello principale, e di maggior conseguenza forse alla lunga per gli americani, che ha buttato alle ortiche insieme alle regole del diritto internazionale anche le norme e le procedure della democrazia. Alla televisione ABC, sere fa, Cheney, il vice presidente, ha chiamato la guerra, ancora una volta, “un grande successo” [cfr. www.abcnews.go.com/GMA/Vote2008/story?id=447946 2& page=1/]. E, all’intervistatrice che gli faceva presente come fossero “i due terzi degli americani a sostenere che non valeva la pena di combatterla”, rispondeva seccamente “e allora?”.

“Come, e allora? non le importa di quel che pensano gli americani?”, chiedeva un po’ esterrefatta la giornalista… E lui: “No. Io non credo che ci si possa lasciar trasportare fuori strada dalle fluttuazioni dell’opinione pubblica”.

A meno, naturalmente, che si tratti di fluttuazioni che sostengono il proprio punto di vista. Insomma, come diceva Brecht di un’altra democrazia – “popolare”, quella – se il popolo non ha più fiducia nel governo, la cosa più facile per il governo è di sciogliere (o ignorare) il popolo ed eleggersene un altro…

Oggi, quando stiamo entrando nel sesto anno di guerra, mentre il resto del mondo continua a chiedersi come abbia fatto l’America a rieleggersi nel 2004 questo presidente e perché né l’elettorato né i media vadano mai al di là dell’espressione di un tutto sommato blando dissenso – contraddittoria, poi, negata spesso anche in chi lo manifesta dalle pulsioni dell’automatico patriottardismo americano – né siano disposti a mettere qualcuno dei responsabili chiaramente identificati e ormai noti a tutti sul banco dell’accusa per le più marchiane violazioni dei diritti umani  mai perpetrate nella storia di una società democratica. A parere di molti— e per fortuna, ormai, anche di molti americani, incapaci ancora però di dar forma e struttura al loro dissenso.

Poi ci sono gli altri costi, economici e finanziari. E a calcolarli, col massimo della credibilità tecnica e dell’autorevolezza personale, in un minuzioso, documentatissimo lavoro economico (60 pagine di note in un saggio corposo ma di meno di 200 di testo e di taglio volutamente divulgativo): “The Three Trillion Dollar War: the True Cost of the Iraq Conflict”— La guerra da 3.000 miliardi di dollari: il costo reale della guerra in Iraq, ed. W. W. Norton, 3.2008) scritto a due mani.La seconda firma è di Linda J. Bilmes della J. F. Kennedy School Business alla Harvard University, considerata la maggiore esperta americana in materia di bilanci, pubblici e societari. E la prima è quella di Joseph E. Stiglitz, premio Nobel dell’economia, ex capo dell’ufficio economico della Casa Bianca (con Clinton, di cui è stato anche assai critico), vice presidente e capo economista (molto, molto dialettico, diciamo così) della Banca mondiale, ora professore alla Graduate School of Business della Columbia University e membro della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali.

Bush, all’inizio della guerra, aveva giurato al paese che sarebbe costata dai $50 ai $60 miliardi: per le operazioni militari necessarie ad abbattere Saddam, restaurare l’ordine, installare un nuovo governo amico; e che la spesa per la ricostruzione si sarebbe autofinanziata… col petrolio iracheno. Oggi il Pentagono parla di un costo approssimativo un po’ superiore ai $600 miliardi. Ed il Congressional Budget Office, l’ufficio indipendente del Congresso che per esso tiene i conti, parla di un più realistico totale che oscillerebbe tra $1.000 e $ 2.000 miliardi [New York Times, 19.3.2008, D. M. Herszenhorn, “Estimates of Iraq War Cost Were Not Close to Ballpark”— Le stime del costo della guerra in Iraq non erano neanche approssimativamente vicine: cfr. www. nytimes.com/2008/03/19/washington/19cost.htnl?pagewanted=print/].

Stiglitz dice che no, che la cifra più prossima è invece vicina ai $4.000 miliardi. E se bisogna fidarsi di qualcuno su questioni di conti, calcoli, stime di spesa, non si potrebbe facilmente far meglio che dar credito ad un ex capo economista della Banca mondiale e premio Nobel per l’economia…

Il cui studio è disseminato di fatti sorprendenti:

• i contrattisti privati in Iraq (i “guardioni”) sono pagati $1.222 al giorno; un sergente dell’esercito americano lì al fronte, $150; un traduttore iracheno, $10… e l’80% dei (peraltro pochi) stanziamenti pubblici americani per la ricostruzione sono stati concessi senza gare e “a licitazione privata”;

• in Iraq, per ogni morto americano, ormai 4.000, si contano quindici feriti (4.000 x 15=60.000, e per difetto): in Vietnam, per ogni morto i feriti erano 2,6;

• una delle note a fondo pagina porta il link di uno studio ufficiale e riservatissimo, anche se evidentemente non proprio segreto, secondo il quale “il numero di insorti reclutato è da anni superiore a quello degli insorti che noi eliminiamo”.

Ma il succo del saggio di Stiglitz è un insieme di somme, documentate tutte, e relativamente semplici. La guerra in Iraq – a prescindere adesso, come se fosse possibile, dal perché sia stata ingaggiata – vene presentata all’opinione pubblica americana come una passeggiata. Larry Lindsey, il consigliere economico del presidente passò i suoi guai perché, nel 2003, osò predire che sarebbe costata sui $200 miliardi, anche se aggiunse poi, sotto pressione, che comunque “avrebbe fatto bene all’economia”.

Stiglitz riafferma, invece, e dimostra il vecchio adagio che nella vita non ci sono mai pasti gratuiti. Che i costi operativi della guerra d’Iraq ammontano ora per gli USA a $12,5 miliardi al mese, sui $5.000 al secondo. E che, se si prende in conto anche l’Afganistan, sono $16 miliardi al mese: l’equivalente del bilancio dell’ONU in un anno, quattro volte quello dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, più di tre volte gli aiuti americani all’Africa e due anni di finanziamento della campagna mondiale contro l’analfabetismo.

Ma questi sono solo i costi operativi, necessari alla conduzione quotidiana della guerra. Il nocciolo del ragionamento svolto nel libro è che il bilancio cash utilizzato dall’Amministrazione per calcolarne i costi è tutto un imbroglio. L’ennesimo imbroglio. Nei libri contabili entra solo quel che viene speso minuto per minuto, ma restano fuori le spese già fatte e ancora non saldate. Pure, “in America – scrive Stiglitz – ogni business appena più vasto del droghiere dell’angolo deve per legge utilizzare una ‘contabilità reale’, cioè un sistema che mostra, man mano che vengono spesi, anche i costi futuri: le cambiali in ogni forma possibile, le spese fatte su carta di credito, gli assegni, per utilizzare il linguaggio del giorno per giorno”.

Insomma, tutto. Compreso non solo il costo del “risettaggio”: di quanto serve, cioè, a riportare le condizioni delle FF.AA. a quel che erano prima della guerra; ma incluso quel che costa curare i feriti, i traumatizzati, in qualche caso (abbastanza raro, però) anche per aiutare orfani e vedove. La prima guerra del Golfo, quella del 1991 di Bush padre (con la p minuscola) contro Saddam per l’invasione del Kuwait, costò relativamente poco agli Stati Uniti: secondo i dati ufficiali, 147 morti e 235 feriti.

Ma, poi, s’è aggiunto il 45% dei 700.000 reduci coinvolti, non solo nelle operazioni al fronte ma anche, i tre quarti, in quelle logistiche (i veterani, li chiamano qui) che chiesero (l’88% di loro ottenendo) risarcimenti da tribunali militari e civili. Col risultato che nel bilancio di quest’anno solo questa voce è costata $4,3 miliardi, $1.000 a testa più o meno. E questa è una realtà, un esborso inevitabile, che adesso gli stanziamenti ufficiali neanche prendono in considerazione quando, come s’è visto, il numero dei feriti (e dei reduci che vanno almeno moltiplicati per dieci) è conosciuto e/o stimato in molte, molte volte di più.

La ragione per cui l’America – che comincia, questo è certo, ad affondare sul frangiflutti di una recessione e che non gli sprovveduti né gli impressionabili ma i massimi esperti “neutrali” vedono già avviarsi verso la depressione – non sembra ancora risentire del costo vero della guerra sulla sua economia è che Bush la gestisce tutta in deficit, senza alzare le tasse. Non mette da parte neanche un centesimo per pagare quel che dovrà pagare a famiglie delle vittime, feriti e reduci; non investe a mantenere e modernizzare i sistemi che dovranno amministrarne la gestione; spesso non paga neanche, se non appunto in cambiali, il rinnovo dei formidabili e costosissimi sistemi d’arma e di protezione (corpetti corazzati efficienti, anzitutto) che i soldati al fronte chiedono disperatamente di vedersi forniti. E, pur andando comunque in recessione, lascia tutto a carico del futuro, cioè dei futuri contribuenti.

Stiglitz e Bilmes non credono nei complotti, perfino nei complotti orditi dal presidente— se non  quelli che ha messo in piedi per fare la guerra che ha scelto di fare, per le ragioni sbagliate e contro il nemico sbagliato, liberando completamente l’Iran – fanno notare tra parentesi – dalla morsa che stava schiacciandolo tra l’Iraq di Saddam e l’Afganistan dei talebani sunniti.

Si dicono certi, anche, che l’America farebbe bene ad andarsene subito, al più presto possibile e ragionevole, negoziando la sua dipartita dal pantano iracheno e dalla palude afgana. Ma anche convinti che i soldi per pagare questi 3.000 miliardi li avrebbe, l’America, se riordinasse le proprie priorità liberando il presente e il futuro prossimo venturo da un debito che si fa più schiacciante ogni giorno e di cui quell’ “irresponsabile” del presidente non sente, appunto, alcuna responsabilità. L’America potrebbe pagare, riordinando le proprie priorità “in modo sensato: la questione non è affatto se possiamo pagare 3.000 miliardi di dollari. Lo possiamo, di certo. La questione è pagare per fare che cosa”.

Dimostrano, Bilmes e Stiglitz, che l’Amministrazione ha, prima, avanzato previsioni di costi “irresponsabilmente ottimistiche”; che ha, poi, deliberatamente “offuscato” i costi reali della guerra; e che, infine, trasformando in emergenza tutto e il contrario di tutto, ha sistematicamente aggirato il Congresso, i suoi poteri e le sue decisioni con un uso abnorme, e del tutto incostituzionale, dei poteri d’emergenza della presidenza.

Il bilancio della guerra di Bush, al di là dell’ennesima sua stramberia e/o invenzione sulla vittoria che ormai è dietro l’angolo, recita di perdite secche, oltre che tragiche, e che a lungo ancora si protrarranno:

• le perdite umane sono state colossali, decine e forse centinaia di volte superiori a quelle che perfino il peggior Saddam avrebbe potuto mai causare…;

• le perdite per il Tesoro e per l’economia americana sono state anch’esse iperboliche e avrebbero, certo volendolo, potuto essere ben altrimenti destinate a coprire, ad esempio, la spesa della sanità più costosa e più piena di buchi del mondo; o di un’educazione che, con l’eccezione della specializzazioni di punta degli istituti più costosi, si va sgretolando (i master dell’Università della California a Los Angeles registrano un 80% di laureati che non riescono a identificare l’Iraq su una carta geografica: il 50% dei quali sbaglia pure il continente in cui poi sta l’Iraq…); per dire solo di due campi di bisogno ormai serio davvero…;

• e, poi, e alla fine della fiera, tutto questo per una guerra che non solo sta costando all’America in vite umane, risorse e perdita di autorevolezza ed egemonia nel mondo un prezzo inaccettabile e sta creando un vuoto ancor più inaccettabile col rischio, poi, di riempirsi di potenze ancor meno affidabili di quanto sia un’America che si liberasse di Bush e dei suoi;

• ma per una guerra che, poi, è persa perché persa non poteva non essere.

Aveva scritto, nel mezzo degli spietati e futili bombardamenti americani dell’Indocina del Natale 1972, James Baldwin – scrittore nero americano, a modo suo autenticamente rivoluzionario – che “la forza non funziona nel modo in cui i suoi promotori pensano che funzioni. Per esempio, non rivela a chi la subisce la strapotenza dell’avversario. Al contrario, gliene svela la debolezza, l’impotenza e anche il panico. E tale rivelazione carica la vittima di una pazienza infinita” [J. Balwin, “No name in the street”, Laurel ed., 1986].

Insomma, è questione di chi la dura la vince. E “noi” non siamo abituati a durare. Cioè, a pazientare. Come si è dimostrato in Vietnam, appunto.

Giovedì, 27. Marzo 2008
 

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