Cento fiori per riprenderci la democrazia

Referendum, leggi di iniziativa popolare, petizioni: sono in corso molte iniziative di democrazia diretta per contrastare la linea neoliberista imposta dall'Europa e accolta dagli ultimi governi e correggere i nefasti provvedimenti su istituzioni, lavoro, scuola, beni pubblici. E' l'occasione per fermare il vento di destra

Il referendum trivelle è fallito, boicottato e colpito a morte da un esecutivo che ha fatto di tutto per impedire il raggiungimento del quorum. Ha iniziato rifiutando l’accorpamento con le elezioni amministrative di giugno, che avrebbe oltretutto fatto risparmiare trecento milioni di euro. Ha proseguito con una campagna di vera e propria disinformazione e mistificazione sulla portata del quesito, propagandando falsità come la sicura perdita di migliaia di posti di lavoro. E ha concluso in bellezza invitando all’astensione: opzione fuori dalla Costituzione, dove si prevede il quorum per misurare il reale interesse dei cittadini sul quesito referendario, e non anche per trasformare la diserzione delle urne in un’arma politica.

Renzi ha festeggiato a modo suo il macabro successo: ha gettato benzina sul fuoco, dichiarando che il referendum è fallito perché la demagogia non paga, e accusando i media di averla alimenta. È stata una reazione arrogante, tanto da suonare se possibile più odiosa e urticante della sconfitta referendaria. Tutto questo mentre si è appena aperta una stagione di iniziative referendarie che comprendono il voto di ottobre sulla riforma costituzionale, ma anche la raccolta di firme per i questi sulla legge elettorale, la scuola, il lavoro e l’ambiente, oltre che per alcune leggi di iniziativa popolare in materia di lavoro e di diritto allo studio.

Insomma, l’arroganza a cui ci ha abituato il premier ha finito per far esplodere la voglia di democrazia diretta: di partecipare e decidere in prima persona, di reagire da protagonisti all’autoritarismo renzista, ma anche all’attuale assenza di alternative credibili. Non solo per ripristinare i fondamenti della democrazia politica, ovvero per riaffermare il principio della sovranità popolare, ma anche per restringere il perimetro del mercato e allargare quello dei diritti fondamentali, nella sfera economica esattamente come nella sfera politica: una svolta indispensabile nel momento in cui l’attuale classe dirigente offre riscontri definitivi del suo asservimento ai desiderata di poteri forti più o meno identificati.

 

Riforma costituzionale

Il referendum al momento più noto è quello che riguarda la legge di riforma costituzionale appena approvata dalla maggioranza assoluta di ciascuna Camera (1). La Costituzione afferma che in questi casi, ovvero se non si è raggiunta la maggioranza dei due terzi, la legge viene sottoposta a referendum se lo richiedono un quinto dei membri di una Camera o mezzo milione di cittadini. Nello specifico il referendum si terrà, il 16 ottobre prossimo, perché lo hanno già chiesto un numero più che sufficiente di parlamentari, e probabilmente perché lo chiederanno anche un numero consistente di cittadini: il 25 aprile è iniziata infatti la raccolta di firme per chiedere che la riforma sia sottoposta e referendum.

Non ce ne sarebbe bisogno, visto che comunque la consultazione referendaria è assicurata dalla richiesta dei parlamentari, ma in questo modo si rende il dibattito sulla riforma costituzionale una vicenda non limitata al ceto politico. Tanto più che anche i parlamentari della maggioranza hanno fatto richiesta di referendum, volendo con ciò trasformarlo in un plebiscito su Renzi. A conferma della sua volontà di ridurre tutta la vita politica italiana a un dialogo tra il leader e i suoi sudditi, secondo la migliore tradizione cesarista o bonapartista, che in questo caso finisce per sequestrare il dibattito sul patto fondativo dello stare insieme come Paese.

Ma torniamo al 25 aprile, data di inizio della campagna referendaria che non è stata scelta a caso. Con la Liberazione, infatti, si festeggia la riconquista della democrazia e dunque della sovranità popolare: il bene prezioso che la riforma costituzionale sacrifica invece sull’altare dell’autoritarismo efficientista di chi vuole ridurre i tempi della politica ai ritmi dell’economia. È questo il senso ultimo di un provvedimento ampio e complesso con cui si incide profondamente sull’assetto istituzionale, e non solo per le modalità con cui si è abolito il bicameralismo perfetto: si sarebbe potuto trasformare il Senato nel luogo in cui valorizzare il dialogo tra istanze nazionali e rappresentanze regionali, e invece è diventato una Camera dai compiti residuali, nella quale siederanno rappresentanti individuati in base a criteri confusi, risultato dell’ennesimo scontro stucchevole e tormentato tra le anime del partito del premier.

Ma la riforma non si limita a questo aspetto: sono complessivamente numerosi gli interventi sulla Costituzione. Spiccano tra essi la moltiplicazione dei procedimenti legislativi, differenziati con modalità che non mancheranno di produrre conflitti, o l’indebolimento delle autonomie regionali con un vero e proprio rovesciamento della linea emersa con la riforma del 2001. Certo, vi sono anche interventi apprezzabili, come la previsione di referendum propositivi o il vincolo per il Parlamento a discutere le leggi di iniziativa popolare, per le quali si eleva però a centocinquantamila il numero delle firme necessarie alla presentazione. Siamo peraltro chiamati a pronunciarci sul senso complessivo della riforma, ben rappresentato dalla circostanza che è stata varata da un Parlamento eletto con una legge dichiarata incostituzionale: il mitico Porcellum. E a nulla vale ricordare che la Consulta ha voluto salvare l’operato dei parlamentari in virtù del principio della continuità dello Stato (2): forse questo principio è buono per sanare sul piano formale l’attività dei deputati, ma non certo per avallarla dal punto di vista sostanziale, almeno laddove, come nel nostro caso, esorbita in modo evidente rispetto al disbrigo degli affari ordinari.

 

Legge elettorale

Che la riforma costituzionale rappresenti un attentato alla sovranità popolare, emerge in modo chiaro se la si mette in relazione con l’Italicum (3): la legge elettorale appena approvata, non a caso ricorrendo al voto di fiducia, per rimpiazzare il Porcellum dichiarato incostituzionale dalla Consulta. Questa legge consente al partito che ottiene più voti alle elezioni di ottenere maggioranze parlamentari solide e dunque di esprimere in solitudine l’esecutivo. E permette a queste maggioranze di controllare l’elezione del Presidente della Repubblica, e quindi di un terzo dei giudici costituzionali, per la quale la Costituzione prevede che dal quarto scrutinio sia sufficiente la maggioranza assoluta dei votanti (art. 83). È vero che la riforma costituzionale modifica questo aspetto, richiedendo una maggioranza non inferiori ai tre quinti dei votanti, ma è altrettanto vero che ciò sembra più che altro un espediente davvero perverso per sostenere la necessità di una sua approvazione popolare.

Proprio il legame tra la riforma costituzionale e la legge elettorale impone dunque che la volontà popolare cancelli entrambe. Per questo è in corso la raccolta di firme per l’abrogazione delle parti dell’Italicum in cui si riproducono, e se possibile amplificano, i medesimi difetti di costituzionalità riscontrati con riferimento al Porcellum: l’impossibilità di esprimere preferenze a causa delle liste bloccate, e la previsione di un premio di maggioranza senza l’indicazione di una soglia minima per la sua attribuzione (4).

Formalmente l’Italicum prevede che solo il capolista sia bloccato, e dunque indicato dall’alto con possibilità di essere eletto a prescindere dal legame con gli elettori. Peraltro si prevedono collegi di dimensioni molto ridotte, da tre a sei seggi, sicché in pochi casi un partito potrà eleggere più di un deputato, ovvero il capolista bloccato. La legge prevede poi una soglia minima per attribuire il premio di maggioranza: il 40% dei voti validi. Se però nessuna lista la raggiunge, il che non è certo un’ipotesi remota, si ha un ballottaggio tra le due liste più votate con attribuzione del premio a quella che ottiene maggiori voti. Il risultato è che liste con un gradimento indefinito, comunque al di sotto della soglia del 40%, possono ottenere la maggioranza assoluta dei seggi.

I referendum sull’Italicum mirano a rimuovere dalla legge questi due aspetti (5), parte integrante del tentativo di sacrificare la volontà popolare che trova il suo apice nella riforma costituzionale. La raccolta delle firme, realizzata insieme a quella per la consultazione sulla riforma costituzionale, è iniziata il 9 aprile e durerà sino all’8 luglio.

 

Scuola e università

I media non ne parlano, ma dal 9 aprile, e fino all’8 luglio, è in corso anche la raccolta di firme per i cosiddetti referendum sociali: un pacchetto di quesiti che si occupano di scuola e ambiente.

Quattro sono i quesiti dedicati alla scuola. Mirano a smontare le parti più odiose della riforma varata la scorsa estate dal governo Renzi, quella volta a demolire i fondamenti dell’istruzione pubblica, la cui portata eversiva è stata occultata dietro il nome rassicurante di “buona scuola” (6).

La riforma ha complessivamente trasformato la scola da luogo di trasmissione del sapere critico, indispensabile alla costruzione di una cittadinanza consapevole, a luogo in cui si veicolano e praticano valori aziendalisti. Ha cioè amplificato la complessiva tendenza ad assolutizzare le dinamiche del mercato come punto di riferimento per definire lo stare insieme come società: per confondere l’inclusione nel mercato con l’inclusione sociale. Il tutto alimentato da un’errata concezione del rapporto tra mondo del lavoro e mondo dell’istruzione: che deve ovviamente esserci, come deve esserci il rapporto con la società in genere, tuttavia non per trasformare il mondo dell’istruzione in un passivo ricettore delle istanze provenienti dal mondo del lavoro, bensì per realizzare scambi virtuosi, comprendenti anche la possibilità per il sistema formativo di condizionare le scelte del sistema produttivo.

Con i primi due referendum si chiede di abolire i poteri incontrollati del dirigente scolastico, che attentano alla libertà di insegnamento e incentivano a gestire l’istituto in modo clientelare e comunque poco trasparente: il potere di scegliere e confermare i docenti, e il potere di scegliere se destinare loro incentivi premio. Un terzo referendum mira invece a eliminare l’obbligo dell’alternanza scuola lavoro, per cui gli studenti sono tenuti a trascorre un periodo di almeno duecento ore, se si tratta di licei, o quattrocento ore, se si tratta istituti tecnici, presso imprese e altri enti pubblici o privati. Il tutto sottraendo tempo alla didattica e soprattutto in assenza di coordinamento con la didattica, dal momento che l’alternanza scuola lavoro, se obbligatoria per un elevato monte di ore, incentiva la formazione di una massa di lavoratori non pagati da destinare a mansioni poco o per nulla qualificanti. Con il quarto referendum si vuole infine cancellare la possibilità di donazioni a singole scuole, possibilità che crea una perversa gerarchia tra istituti più o meno beneficiati da finanziatori privati, e a monte un’odiosa competizione tra istituti per soddisfare le necessità di quei finanziatori, magari ripagati destinando loro forza lavoro nell’ambito del sistema obbligatorio di alternanza (7).

In tema di istruzione c’è un’altra iniziativa volta in ultima analisi a difenderne e a rilanciarne il carattere pubblico. È la proposta di legge di iniziativa popolare sul diritto allo studio, elaborata da un nutrito gruppo di sigle del mondo universitario, per porre rimedio a uno dei tanti tristi primati italiani: un numero di laureati dimezzato rispetto alla media europea, dovuto alla cronica carenza di fondi e strutture (8).

L’iniziativa legislativa popolare è prevista dalla Costituzione, per cui la proposta deve essere sostenuta da almeno cinquantamila cittadini (art. 71), chiamati a sottoscriverla con le medesime modalità previste per i referendum (9). Non sono fissati termini entro cui la proposta deve essere discussa dal Parlamento, e difatti questo è finora avvenuto in meno della metà dei casi, senza che peraltro l’esito sia poi stato particolarmente lusinghiero: nel corso degli anni poco più dell’1% delle proposte di iniziativa popolare sono state approvate e sono divenute legge. Ciò nonostante l’iniziativa riveste un notevole significato politico, giacché punta a coordinarsi con la campagna per i referendum sociali, motivo per cui la raccolta di firme è iniziata il 9 aprile e proseguirà sino all’8 luglio.

 

Ambiente

Passiamo ai referendum sociali sulle tematiche ambientali (10). Il primo è particolarmente significativo, perché mira a rilanciare rispetto a quanto richiesto con il referendum dello scorso 17 aprile: ottenere il divieto di nuovi interventi di perforazione ed estrazione di idrocarburi anche sulla terra ferma e anche in mare oltre le dodici miglia. Questo risultato si ottiene incidendo sulla disciplina del piano energetico nazionale laddove si elencano le zone in cui è vietata la prospezione, la ricerca e l’estrazione di idrocarburi: eliminando l’elenco delle eccezioni resta il divieto come regola (11). Il tutto per fermare le oltre cento richieste attualmente pendenti, a riprova dell’urgenza di mettere finalmente la parola fine allo sfruttamento delle risorse naturali che producono profitto per pochi e danni ambientali irreversibili per tutti.

Va nella stessa direzione il secondo referendum, con il quale si chiede di superare le disposizioni del cosiddetto provvedimento Sblocca-Italia che incentivano il ricorso all’incenerimento dei rifiuti, e dunque colpiscono la salute dei cittadini e vanificano gli sforzi volti a incrementare la raccolta differenziata e il riciclaggio. La disposizione che si vuole abrogare stabilisce tra l’altro che gli inceneritori sono opere strategiche di preminente interesse nazionale, la cui realizzazione e localizzazione spetta pertanto al governo nazionale, senza che le Regioni abbiano nel merito voce in capitolo o il diritto di opporre limiti di conferimento (12).

 

Beni comuni

I promotori dei referendum sociali hanno incluso tra le loro iniziative anche la raccolta di firme in calce a una petizione sul tema dell’acqua bene comune. La petizione è anch’essa uno strumento di democrazia diretta, tuttavia piuttosto debole: la Costituzione la prevede, stabilendo solo che può riguardare la richiesta di provvedimenti legislativi o l’esposizione di comuni necessità, e che va diretta alle Camere (art. 50). Nulla si dice a proposito del numero di firme necessarie, né tanto meno circa un eventuale obbligo del Parlamento di prenderla in considerazione.

Peraltro, in questa materia, neppure gli altri strumenti di democrazia diretta hanno sortito gli effetti sperati e comunque previsti dalla legge. Come è noto, infatti, i referendum del 12 e 13 giugno 2011 avevano per un verso eliminato la possibilità di ricavare proventi dalla gestione del servizio idrico, con la finalità, evidenziata dalla Consulta, di renderlo “estraneo alle logiche del profitto” (13). Per un altro verso avevano abrogato le norme che imponevano la privatizzazione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica: non solo di quelli idrici, come è stato chiarito nuovamente dalla Consulta nella sentenza che ha dichiarato l’incostituzionalità di una legge con cui il governo Berlusconi aveva inteso vanificare l’esito referendario (14).

A distanza di cinque anni dal referendum sull’acqua, Renzi coglie l’occasione per fornire l’ennesimo riscontro della sua naturale inclinazione a seguire le orme del Signore di Arcore, se possibile con maggiore disprezzo per la volontà popolare. Il Testo unico sui servi pubblici locali, attuativo della cosiddetta Legge Madia sulla riorganizzazione della Pubblica amministrazione, rilancia la privatizzazione dei servizi, la loro gestione in regime di concorrenza e il ruolo dei privati, reintroducendo nel merito la possibilità di prevedere nella tariffa una quota di profitto (15).

 

Ebbene, con la petizione si chiede di rispettare l’esito referendario del 2011, e quindi il ritiro del Testo unico sui servizi pubblici locali. Non si tratta qui solo di ripristinare la volontà popolare, ma anche di mettere in luce la comune matrice della sua compressione e dell’insofferenza verso i beni comuni: beni che richiedono una gestione partecipata, capace di preservarne la fruizione da parte delle generazioni future, scandita dalle regole della democrazia piuttosto che da quelle del mercato. Il tutto sancito dalla richiesta, contenuta anch’essa nella petizione, di inserire nella Costituzione il diritto all’acqua, per sottrarre finalmente le sorti di questo bene alla voracità delle contingenti maggioranze parlamentari (16).

 

Lavoro

Non fanno formalmente parte dei referendum sociali, ma ne completano idealmente la filosofia di fondo, i tre proposti dalla Cgil e dedicati a quella riforma del lavoro che, ricorrendo alla lingua inglese e alla sua capacità di occultare il senso delle cose, è stata chiamata Jobs act (17).

La Costituzione italiana colloca il lavoro al centro del patto sociale. Per un verso stabilisce in capo ai cittadini un dovere di svolgere un’attività concorrente al progresso sociale, tutelandoli però in caso di inabilità, infortuni, malattia, invalidità e vecchiaia, e per un altro prevede un diritto all’equa retribuzione e un complesso di diritti sociali destinati a liberare dal bisogno e a promuovere il pieno sviluppo della persona. Accade invece l’opposto: il lavoro viene sempre più precarizzato e svalutato, quindi sempre più accostato a una relazione di mercato qualsiasi, mentre lo Stato sociale è in costante ritirata, sostituito da un mercato sempre più famelico.

La riforma del lavoro voluta da Renzi costituisce forse l’atto più arrogante ed esplicito in quella direzione, e i referendum mirano a smantellare alcuni degli aspetti più odiosi. Il primo punta alla cancellazione del lavoro accessorio (18), trasformatosi nel tempo in una forma di sfruttamento e di elusione di norme fiscali e previdenziali. Con il secondo referendum si vuole reintrodurre la responsabilità solidale dell’appaltante e del committente in tema di organizzazione del lavoro e di trattamento riservato ai lavoratori (19). Il terzo referendum riguarda invece il cosiddetto contratto a tutele crescenti, per il quale è stato sostanzialmente eliminato il reintegro in caso di licenziamento illegittimo, che si vuole invece ripristinare (20).

Questi tre referendum, per i quali si raccolgono le firme nello stesso periodo previsto per i referendum sociali, ovvero dal 9 aprile all’8 luglio, si affiancano a una proposta di legge di iniziativa popolare: quella per l’adozione di una “Carta dei diritti universali del lavoro”, da intendersi come “nuovo Statuto delle lavoratrici e dei lavoratori” (21). Il testo non si sostituisce allo Statuto attualmente in vigore, quello approvato quasi mezzo secolo fa (22), ancora attuale ma alterato nello spirito, se non altro per lo svuotamento della tutela contro i licenziamenti illegittimi. Del “vecchio Statuto” si mantengono infatti le disposizioni favorevoli al lavoratore, che il “nuovo Statuto” intende completare per dare attuazione, nella mutata realtà economica e sociale, all’imperativo contenuto nella Costituzione: tutelare il lavoro “in tutte le sue forme ed applicazioni” (art. 35). Ecco perché l’articolato si rivolge a “tutti i lavoratori titolari di contratti di lavoro subordinato e di lavoro autonomo anche nella forma di collaborazione coordinata e continuativa pure se occasionale” (art. 1), e ripristina inoltre il reintegro come misura generale prevista per i licenziamenti illegittimi, anche nei confronti dei datori di lavoro che impiegano meno di quindici dipendenti (art. 83).

 

La Lettera della Bce

Da notare che l’approvazione della Carta dei diritti universali del lavoro porterebbe anche a eliminare la possibilità, per la contrattazione collettiva a livello aziendale o territoriale, di derogare in peggio a quanto previsto negli accordi nazionali, e persino dalla legge (art. 38). È quanto venne consentito da un contestato provvedimento emanato dal governo Berlusconi nella calda estate del 2011(23), quando il mitico spread era alle stelle e la Banca centrale europea ne approfittò per indirizzare la famosa lettera contenente l’elenco delle riforme poi realizzate da Mario Monti, Enrico Letta e infine, senza soluzione di continuità, da Renzi.

Quella lettera, che come è noto è divenuta la Costituzione materiale italiana, eversiva rispetto a quella nata dalla Liberazione, ma seguita alla lettera da tutti i governi, ha ispirato molte delle scelte contro cui si indirizza la nuova stagione di democrazia diretta. Chiede in effetti “la piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali”, oltre che di “migliorare l’efficienza amministrativa e la capacità di assecondare le esigenze delle imprese”. E impone alle autorità italiane di procedere a “un’accurata revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti”, oltre che di “riformare ulteriormente il sistema di contrattazione salariale collettiva: permettendo accordi al livello d’impresa, in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende, e rendendo questi accordi più rilevanti rispetto ad altri livelli di negoziazione” (24).

Se la stagione di democrazia diretta che ci aspetta avrà successo, sarà anche l’occasione per rifiutare la logica delle politiche austeritarie che impediscono lo sviluppo dell’Europa politica e sociale, e che trasformano quella economica e monetaria in un strumento di dominio plasmato a immagine e somiglianza delle necessità tedesche. Questa indicazione non potrà che venire dal basso, posto che i vertici governativi sono tutt’al più capaci di formulare qualche patetico brontolio, buono solo a nascondere l’assenza di prospettive e l’incapacità di resistere ai diktat di Bruxelles. O in alternativa a occultare l’intima volontà di assecondare Bruxelles, le cui politiche sono spesso funzionali a soddisfare le richieste dei centri di interessi che anche il Governo Renzi, come i suoi predecessori, ha inteso privilegiare.

 

Oltre i referendum

Durante la campagna per i referendum del 17 aprile, Renzi, come Craxi, ha invitato i cittadini a disertare le urne e ad andare al mare. Diversamente dall’esule di Hammamet, che non venne ascoltato e diede così avvio al suo declino, il bullo di Firenze è per ora riuscito nel suo intento. La sua rovina potrebbe però essere solo una questione di tempo, giacché i mesi a venire offrono molte opportunità per ribadire che chi di arroganza ferisce, di democrazia diretta perisce.

Potrebbe essere anche l’occasione per ricompattare e rinnovare la sinistra e la sua idea di società, per ritrovare i fili di un’identità perduta, e di nuove forme per esprimerla. La materia grezza non manca: ci sono i contenuti, ovvero la difesa della democrazia come valore da affermare nella sfera politica così come nella sfera economica, e c’è una folta schiera di persone e gruppi disposti a lottare per imporre quei contenuti nell’agenda politica e nel dibattito pubblico. È opportuno ricordarli e metterli in fila, per rendersi conto del quadro che si sta formando sotto i nostri occhi, e che il silenzio assordante dei media punta a non farci vedere.

I referendum sulla riforma costituzionale e sulla legge elettorale sono stati promossi in particolare dal Coordinamento per la democrazia costituzionale, nel quale sono attivi diverse personalità della politica e della cultura, come Alessandro Pace, Stefano Rodotà, Massimo Villone e Gustavo Zagrebelsky, ma anche diverse associazioni: tra queste Articolo 21, l’Associazione per il rinnovamento della sinistra, Giuristi democratici, Il Manifesto in rete e Libertà e giustizia. Non mancano poi organizzazioni sindacali, come Fiom e Usb, e politiche come Rifondazione comunista e L’Altra Europ

Lunedì, 9. Maggio 2016
 

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