L’irresistibile ascesa della licenza di licenziare

Un po' di storia di diritto dellavoro. Che, all'inizio, considerava la possibilità di interrompere il rapporto una garanzia per il lavoratore. Con l'evoluzione della società e dell'economia la tutela è poi diventata quella che solo a quest'ultimo spettava la discrezionalità, in quanto parte più bisognosa di protezione, principio che oggi viene cancellato

Visto il successo di stima che il diritto del lavoro si è guadagnato nel corso del ‘900, non a torto sono in molti a giudicarlo “il” diritto del secolo. Perciò, fa una certa impressione che non avrebbe neanche potuto vedere la luce se avessero funzionato in maniera meno permissiva gli apparati pubblici di controllo coevi all’avvento dell’età industriale. L’industria infatti aveva bisogno di procurarsi manodopera a tempo indeterminato, ma la modalità era giuridicamente inammissibile.  

        

Ad imitazione dell’art. 1780 del code civil napoleonico, l’art. 1628 del codice civile italiano del 1865 demonizzava il contratto che obbligasse un individuo a lavorare vitanaturaldurante al servizio di qualcuno, perché vi ravvisavano un attentato alla libertà personale dell’obbligato. Infatti, per presidiare i principi-guida della Rivoluzione francese, in paesi che si stavano aprendo alla modernizzazione i codificatori formularono il divieto di instaurare rapporti di lavoro dipendente senza un termine prefissato e ne punirono la violazione che i più sbadati, o i più sbandati, tra i contemporanei avrebbero potuto commettere col più perentorio automatismo che un codice civile possa prevedere: la nullità dell’intero contratto, con conseguente esonero dalla responsabilità per i danni causati dalla volontaria e unilaterale cessazione del rapporto.              

             

Sono sufficienti questi scarni cenni introduttivi per rendersi conto che la buona reputazione del diritto del lavoro si lega alla generale condivisione dell’illegalità della sua origine nonché, bisogna affrettarsi ad aggiungere, alla caparbia volontà dei comuni mortali di alleggerirne i pesanti costi sociali e trasformare in una opportunità ciò che i legislatori consideravano una sciagura. In effetti, senza l’apporto della contrattazione collettiva, l’insieme di garanzie che caratterizzerà il lavoro egemone del ‘900 avrebbe tardato – non possiamo sapere quanto – a tradursi in una tipologia contrattuale codificata. Essendo una fonte regolativa di rapporti di serie che mimava le forme espressive e la stessa sostanza della legge, il contratto collettivo stipulato da rappresentanze a base volontaristica dei suoi destinatari organizzerà infatti la base di consenso di cui era privo un ordine sociale che gli individui, non potendo né sceglierlo né rifiutarlo, uti singuli potevano soltanto subire e metabolizzare. E’ come se sul minuscolo corpus di regole del lavoro dipendente che in precedenza aveva camminato con le esili gambe dell’autonomia privato-individuale fosse spuntata una testa per pensare. Che difatti penserà. Anche in grande, occupandosi sia di salario e orario di lavoro che del modo di stare in fabbrica e del suo ordinamento gerarchico-piramidale per incivilire il quale il principale ostacolo da superare era (e sarebbe rimasto) l’anomalo cumulo dei ruoli di accusatore-giudice-parte lesa nelle mani dell’homme d’argent in qualità di detentore del potere disciplinare (1).             

             

Ad ogni modo, per illuministico che fosse, il divieto è stato dapprincipio una misura d’ordine pubblico socialmente apprezzabile, perché il contratto di lavoro a tempo indeterminato prefigurava un modello di relazione lontano dalla forma mentis e dalle abitudini di generazioni di artigiani la cui memoria collettiva li predisponeva a idealizzare il lavoro libero-professionale con le sue miserie, ma anche con i piccoli privilegi e gli status symbol che facevano di questa categoria di produttori l’élite della povertà laboriosa (2). Lo stesso Ludovico Barassi, che in genere è considerato il padre putativo del diritto del lavoro italiano, era al corrente dell’ostilità suscitata dalla prospettiva di lavorare sotto padrone. E la giustificava con toni simpatetici. “La distinzione tra lavoro autonomo e subordinato”, scriveva, è “troppo radicata nella natura umana perché abbia a sparire”. Per questo, sognava una politica del diritto che arginasse il processo di sradicamento sociale provocato dall’industrializzazione mediante sostegni ai piccoli imprenditori disseminati nelle vallate e nei centri urbani ove prosperava l’artigianato anche nella forma del lavoro a domicilio. “E’ indubbio che il legislatore debba più che può favorire l’ambito passaggio al lavoro autonomo”  e, dal canto suo, il giudice interpellato per dirimere una controversia sull’esatta classificazione di un rapporto di scambio tra lavoro e retribuzione “propendere per il lavoro autonomo quando le condizioni personali, sociali e patrimoniali del lavoratore facciano pensare che egli sia in grado di dominare i rischi dell’organizzazione del proprio facere. (…) Capisco che per questa via si arriverà, nel dubbio, a presumere che il lavoratore rinunci al compenso, se il risultato non è ottenuto, ma non mi spavento delle conseguenze (…). I vantaggi dell’autonomia compenseranno ad usura la possibilità del rischio (…), perché è notorio che si lavora più volentieri per proprio conto che alla dipendenza altrui” (3).             

              

Tuttavia, può ritenersi che a cavallo tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900 l’aspettativa della lunga durata del rapporto di lavoro non sia più interpretabile come una sindrome della rifeudalizzazione di società piene di ombre e di fantasmi. Del resto, è realistico domandarsi se l’homme de travail che l’industria distoglieva dai campi o dalle botteghe artigiane abbia avuto sul serio la possibilità di assaggiare il sapore della libertà che gli era stata promessa. Sollecitato da eventi epocali a credere che dipendesse soltanto da lui sciogliersi dai vincoli feudali di status che lo inchiodavano nella condizione materiale in cui gli era toccato nascere, ne era al tempo stesso spaventato. Vero è che il codice civile gli parlava della valenza progressista dell’essere diventato un soggetto che può essere vincolato soltanto a ciò che ha liberamente voluto e gli raccontava che sarebbe stato l’esclusivo dominus della sua persona e della sua libertà; una libertà che si materializzava attraverso un contratto avente la virtù di istituire una relazione paritaria. Ma la familiarità con la concezione servile del lavoro interiorizzata poppando il latte materno lo rendeva incline al pessimismo; un po’ perché l’acquisto della libertà era pagato nell’immediato con la rinuncia alla sicurezza esistenziale (poca o molta che fosse) che gli concedeva il patronus e un po’ perché temeva che la libertà contrattuale si sarebbe rovesciata nel suo opposto e il contratto sarebbe diventato lo strumento tecnico per legittimare anche la più brutale sottomissione di un uomo ad un altro uomo.

 

Dopotutto, in un sistema capitalistico la subalternità del lavoratore non è soltanto sinonimo di mancanza di autogestione dell’attività dedotta in contratto. In effetti, una volta sperimentato come il licenziamento per lui fosse sempre un dramma, mentre per l’homme d’argent poteva essere soltanto un capriccio, presto o tardi doveva succedere che l’homme de travail mettesse in cima ai suoi pensieri la ricerca non tanto di una valida alternativa al lavoro dipendente quanto piuttosto di meccanismi che ne garantissero la conservazione in mancanza di un giustificato motivo di rottura del rapporto. Infatti, proprio perché era colpito da nullità assoluta per contrasto con una norma imperativa quel contratto non produceva effetti vincolanti per nessuna delle parti e quindi ciascuna di esse poteva revocare il consenso quando voleva con la sola remora del preavviso. Per questo, pur essendo privilegiato dal legislatore, l’interesse del lavoratore alla temporaneità del rapporto era predestinato a rimpicciolirsi, mentre era predestinato ad acquistare la priorità l’interesse alla continuità del reddito ed alla tendenziale sicurezza del domani. Spostandosi, l’accento cadeva non più sulla trasgressività della prevalente prassi contrattuale delle assunzioni sine die, bensì su come ridurne gli svantaggi e/o ricavarne dei vantaggi. Come dire che il trauma di non poter lavorare se non alle dipendenze altrui sulla base di un vincolo consensuale di durata virtualmente perpetua si ridimensiona fino ad impallidire al cospetto di quello di essere licenziato ad nutum. La verità è che i comuni mortali cominciano a capire che la vera lesione della dignità della persona è provocata non tanto dall’indeterminatezza della durata dell’obbligazione contrattuale di lavorare subordinatamente quanto piuttosto dalla morte prematura e immotivata del contratto.

         

Dunque, il divieto che si proponeva di garantire la libertà intesa come mezzo di emancipazione e riscatto degli ultimi era nato coi giorni contati. E sia pure per ragioni che non hanno nulla da spartire con quelle che indussero i codificatori a formularlo. Essi lo posero perché erano comprensibilmente preoccupati che la genetica mutazione della società castale in una società contrattuale dinamicizzata dalle pulsioni dell’individualismo economico (è il salto  from status to contract cui allude la celebre formula di Henry S. Maine) avrebbe suscitato sentimenti di frustrazione negli ex artigiani ammassati nelle manifatture ed incontrato la resistenza passiva dei sudditi più recalcitranti di fronte alla prospettiva di assumersi la responsabilità delle proprie scelte.

 

No, non è per questo che il bilancio dell’esperienza applicativa del divieto fu fallimentare. Il fatto è che la norma del codice rimase vittima di un’eterogenesi dei fini che ne alterava l’orizzonte di senso. Non solo non ha resistito alla rivolta dei fatti, lasciandosi travolgere dalla prassi delle assunzioni sine die dei lavoratori necessari alla nascente industria con le sue logiche organizzative pensate per la progettazione e gestione di stabili macro-strutture della produzione massificata e standardizzata con la cui razionalità materiale era incompatibile la presenza di una manodopera raccogliticcia e fluttuante. Per giunta, la norma produsse un effetto-boomerang. Infatti, l’interpretazione dominante della norma ha finito per riscriverla, facendone il pretesto per introdurre il principio generale della libera recedibilità dai contratti di durata, che la dogmatica costruirà come categoria concettualmente unitaria, in contrapposizione col principio codificato per cui, salvo che la legge disponga diversamente, i contratti si sciolgono mediante risoluzione giudiziale per inadempimento. Ciò è potuto accadere, perché la cultura giuridica dell’epoca – che assisteva attonita e senza fiatare allo straripare delle assunzioni sine die – parificò senza alcuna esitazione la libertà personale dell’homme de travail alla libertà economica dell’homme d’argent alle  dipendenze del quale lavorava, ritenendo che la maniera più efficace per proteggerle fosse quella di giudicarle entrambe idonee a motivare la scelta discrezionale di estinguere il rapporto. Come dire che non venne nemmeno affacciato il dubbio che quello di licenziare fosse, anziché un potere da procedimentalizzare e limitare, un diritto. Un diritto, punto e basta.

        

Ius receptum era infatti l’opinione che “il contratto di lavoro s’intende stipulato cum voluero per ambo le parti ed è la volontà di ciascuna di esse che ne determina la scadenza finale”: “tutti sanno che basta la volontà unilaterale temperata tutt’al più dall’obbligo del preavviso per por fine in qualunque tempo all’esistenza del rapporto” (4). Tutti lo sanno. Ma non dicono che la licenza di licenziare è il bottino di uno scippo dottrinale.

           

Vero è che gli stessi codici dell’800 offrono un solido appiglio testuale là dove ammettono la libera disdetta della locazione di immobili ad uso abitativo stipulata “senza determinazione di tempo”. Ma non basta affermare che il licenziamento non è che la disdetta della locazione di cose applicata per analogia. L’interprete provveduto sente di dover dare una spiegazione convincente del fatto che si possa restare senza lavoro con la stessa facilità con cui si può restare senza casa.  “Ma che il legislatore si sia espresso solo per la locazione di cose che importa?”, si chiede allora Ludovico Barassi: “lo spirito che anima la legge è unico: l’avversione per i vincoli che inceppano la commercialità (i. e. la circolabilità) dei fattori economici”: nel caso di specie, “questi consistono nel capitale e nel lavoro” (5).

 

L’intuizione era perspicua. Essa, però,  risulta soverchiata dal peso preponderante assegnato dallo scrittore alla natura fiduciaria del rapporto di lavoro; di talché alla fin dei conti sembra che, secondo lui, è lì che si trova la ragione fondativa del recesso ad nutum. Toccherà a Francesco Carnelutti, opportunamente isolata l’argomentazione per valorizzarne il respiro sistematico, identificare il fondamento del recesso insindacabile nella temporaneità dei rapporti di durata (6). Destinata ad “esercitare un’influenza vasta e duratura” (7), zittisce tutti gli operatori giuridici e anzi gli autori delle più importanti monografie sul recesso dal rapporto di lavoro pubblicate in Italia nel secondo dopoguerra (8) ritengono che la puntualizzazione interpretativa segni il passaggio “dalla preistoria alla storia” nell’evoluzione dottrinale della natura giuridica dell’istituto. Come dire che, giunti sulla soglia di quello spazio vuoto di diritto che il giurista vede spalancarsi davanti a sé ogniqualvolta si determina uno scollamento fra legge vecchia e bisogni nuovi, i giuristi dell’epoca non andarono oltre la sterile denuncia che era contraddittorio interpretare una disposizione “intesa esclusivamente a garantire la personale libertà di chi lavora in modo da ritorcerla in suo pregiudizio”: “chi si fa servire non serve”; “ergo”, osservarono alcuni, “la legge non è scritta per lui”. L’obiezione era assennata. Ma la voce discordante era largamente minoritaria e alla fine se ne è perduto persino il ricordo.

        

Viceversa, la sensatezza dell’obiezione avrebbe dovuto allertare gli interpreti dei codici ottocenteschi orientandoli in una direzione che li portasse a caldeggiare soluzioni più equilibrate. Il disposto normativo, infatti, si proponeva davvero di proteggere l’interesse alla temporaneità del rapporto dal lato del solo lavoratore. Poiché lui solo metteva in gioco la sua libertà personale, soltanto sua poteva essere la legittima esigenza di disporre liberamente della permanenza del rapporto obbligatorio. Il medesimo disposto però, come ho già anticipato, aveva l’inconveniente di essere formulato in maniera tecnicamente maldestra. Poiché il rapporto che un contratto viziato da nullità insanabile è in grado di istituire è soltanto materiale, la sua rottura non fa sorgere l’obbligo di risarcire i danni in capo a nessuna delle parti.

           

Nondimeno, l’effetto-boomerang poteva essere evitato, optando per una manipolazione interpretativa dell’enunciato legislativo che ne offrisse una diversa lettura, più aderente alla ratio. Infatti, per rispettare il principio della temporaneità del rapporto di lavoro non è mica necessario attribuire ad entrambe le parti un diritto di recesso unilaterale: è necessario, ed anche sufficiente, riconoscerlo alla parte a favore della quale il principio è formulato. Quindi, in una stagione in cui, a causa sia della latitanza del legislatore che della gracilità della contrattazione collettiva, il decisionismo equitativo dei giudici spadroneggiava la materia (9), non sarebbe apparsa stravagante una soluzione compromissoria del tipo di quella che sarà adottata con empirica ingegnosità dal codice civile italiano entrato in vigore nel 1942. Essa prevedeva che, se si fosse pattuita una durata del contratto superiore ad un certo numero di anni (cinque o dieci, stabiliva l’ultimo comma dell’ormai superato art. 2097 c.c. it.), fermo restando che per la durata convenuta il rapporto era irrecedibile da parte di entrambi i contraenti, il decorso del termine minimo previsto legittimava il recesso del solo prestatore di lavoro.         

         

Come sappiamo, invece, le cose non sono andate così; e ciò perché, con la complicità degli interpreti, un frammento di codice si prestava ad agire da vettore per trasportare nell’ordinamento il principio della libera recedibilità dal contratto di lavoro a tempo indeterminato. Così, la sventurata disposizione libertaria si è consegnata alla cultura giuridica come l’antecedente legislativo della licenza di licenziare; la quale, in presenza di un endemico scarto tra domanda e offerta di lavoro, trasforma il lavoratore dipendente in un moderno capite deminutus e, comunque, dilata smisuratamente la discrezionalità di un’autorità privata libera di risolvere il contratto di lavoro o per farsi giustizia da sé, se c’è un’infrazione della disciplina aziendale da punire, o in base a calcoli di convenienza economica, se il lavoratore non è più utile.

 

Dalla storia all'oggi

Non è un dettaglio secondario che il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato fosse irreparabilmente contra legem e la sua  risolubilità mediante recesso ad nutum un parto della creatività degli interpreti. Anzi, se il ceto professionale degli operatori giuridici avesse tenuto doverosamente presente come è nato l’istituto a misura del quale si è evoluto il diritto del lavoro, probabilmente si sarebbe risparmiato l’infortunio di sponsorizzare l’idea venata di paternalismo che esso consista in un insieme di deroghe dell’ordine normativo a vantaggio di chi sta in basso. L’origine di un suo istituto d’importanza strategica dimostra, per l’appunto, che la trasgressione ha giocato a vantaggio di chi sta in alto: dove è situato l’homme d’argent. Come dire che il ceto professionale degli operatori giuridici avrebbe capito immediatamente che il diritto, che dal lavoro ha preso convenzionalmente il nome, non ne ha preso se non in parte anche le ragioni.

          

In questa mancanza di auto-consapevolezza non riesco a vedere altro che un indizio rivelatore che l’età industriale arrivò senza essere preannunciata ed è per questo che anche la cultura giuridica vi entrò a casaccio. Impreparata e disorientata, come testimonia il tragitto che ne ho sommariamente ripercorso. Un tragitto che non appartiene alla cronaca; è invece un tornante della grande storia. Infatti, la vicenda fin qui ricostruita deve essere ricordata come la breccia che ha consentito l’ascesa del capitalismo industriale conferendole il crisma di legittimità giuridica che non poteva avere: più esattamente, essa fissa l’imprinting  dell’intero diritto del lavoro, di cui anzi costituisce l’inequivocabile base fondativa (10).

       

Come volle spiegare un suo esponente di spicco, Francesco Carnelutti, la coeva cultura giuridica era “imperturbabilmente borghese” nell’ampia misura in cui si disinteressava dei problemi giuridici del lavoro (11). Io direi, piuttosto, che la cifra di quella cultura era la totale incapacità di accostarsi alla quotidianità degli sconvolgimenti degli stili di vita individuali e collettivi prodotti dalla Grande Trasformazione, per dirla con Karl Polanyi, senza averne né darne una r

Lunedì, 25. Maggio 2015
 

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