La fame di infrastrutture si nutre di speranza

Dopo anni di calo dei fondi per gli investimenti nel Def 2015 una piccola inversione di tendenza: +2%. Queste risorse e quelle altrettanto modeste del Piano Juncker potranno comunque dare una spinta positiva all'economia, ma a patto che i privati facciano la loro parte

La recente indagine della magistratura sulle grandi opere pubbliche, che ha avuto come conseguenze le dimissioni del ministro Lupi e gli arresti di Ercole Incalza, grand commis del ministero delle Infrastrutture, ha portato al vertice del ministero di Porta Pia Graziano Delrio, un fedelissimo di Renzi. E’ lecito aspettarsi dal neo ministro un intento moralizzatore, anche perché egli ha dichiarato di volersi muovere in sintonia con il presidente dell’Anac (Autorità nazionale anti corruzione) Raffaele Cantone, che di questa esigenza  rappresenta oggi la massima espressione. Cantone punta all’approvazione entro quest’anno del nuovo Codice degli Appalti, che dovrebbe varare norme più snelle, ma nello stesso tempo più efficaci contro la corruzione negli appalti pubblici. Combattere la corruzione significa anche rispettare tempi e costi previsti nella realizzazione dei progetti. Poggiando su queste fondamenta, il nuovo ministro intende affrontare il problema della carenza infrastrutturale del Paese, riducendo il numero delle grandi opere da attuare e dando maggior spazio alle piccole e medie opere che servono ai territori, come indicato nel Def 2015 da poco approvato dal Consiglio dei ministri.

 

E’ indubbio che le infrastrutture servano a far ripartire il Paese. Da anni assistiamo a un continuo calo degli investimenti pubblici: soltanto facendo riferimento agli ultimi cinque, siamo passati dai 46,8 miliardi del 2010 ai 36 miliardi del 2014, con un crollo del 23%.  Il 2015 rappresenterà probabilmente un’inversione di tendenza, se è vero che il Def stima un aumento degli investimenti pubblici di quasi il 2% sull’anno precedente. Tale tendenza dovrebbe continuare per tutto lo scenario di previsione, ossia fino al 2019. Non si tratta di “numeri” eclatanti; tuttavia, anche le poche risorse disponibili, se ben adoperate nei modi e nei tempi giusti, senza sprechi e senza gli oneri impropri rappresentati dalle tangenti, potrebbero smuovere qualche decimale di crescita e contribuire a creare qualche migliaio di posti di lavoro.

 

Del resto, abbandonato il dogma dell’austerità espansiva, da qualche tempo la necessità di tornare ad investire nelle infrastrutture viene riconosciuta anche dal pensiero economico dominante, che continua a predicare il principio del rigore nei bilanci pubblici, ma almeno ammette che l’austerità non è di per sé espansiva. Il primo a sottolineare la necessità di far ripartire gli investimenti pubblici è stato il Fondo Monetario, nel World Economic Outlook dello scorso ottobre, osservando che negli ultimi sette-otto anni il gap infrastrutturale era aumentato significativamente in tutti i Paesi avanzati e stimando che l’aumento dell’1% degli investimenti pubblici avrebbe portato in media a un aumento del Pil dello 0,4% nel primo anno e dell’1,5% dopo quattro anni. Su questa linea, Standard and Poor’s ha calcolato che in Italia l’aumento dell’1% della spesa per infrastrutture determinerebbe dopo tre anni una crescita del PIL dell’1,4% e la creazione di 136.000 posti di lavoro.

 

Nella UE-15 si stima che vi sia una carenza di investimenti pubblici e privati di 200 miliardi, di cui ben 65 attribuibili all’Italia. E’ partendo da queste premesse che la Commissione europea ha dato il via libera al Piano Juncker, all’interno del quale il nostro governo intende far rientrare una parte degli investimenti infrastrutturali che si devono fare nel nostro Paese. Un Piano che è stato criticato sia per l’esiguità delle risorse stanziate - 21 miliardi, in gran parte sotto forma di garanzie, di cui 16 da parte della Commissione e 5 da parte della Bei - sia per il supposto “effetto leva” di 15, che, coinvolgendo gli investitori privati, consentirebbe di arrivare a una massa critica di 315 miliardi di euro. In realtà, questo effetto leva di 15 non è molto lontano dal moltiplicatore degli investimenti della Bei, che può arrivare – sia pur su investimenti meno rischiosi – anche a 18.

 

Resta il fatto che l’aspetto più interessante del Piano Juncker è che si tenta di costruire in Europa un meccanismo finanziario di cooperazione tra pubblico e privato, in cui l’operatore pubblico ha il ruolo di “catalizzatore”, attraendo significative risorse private su progetti altamente rischiosi, che i privati da soli non sarebbero in grado di affrontare. Non è detto che questa collaborazione pubblico-privato abbia successo e non è detto che il Piano Juncker riesca a realizzare quegli investimenti strategici nell’energia, nelle telecomunicazioni, nella logistica, nella salvaguardia ambientale, di cui l’Europa e l’Italia hanno bisogno. Ma è una sfida, che metterà alla prova sia il sistema pubblico sia gli imprenditori privati. Il primo deve saper individuare i progetti veramente strategici per la crescita, valutandone correttamente i tempi e i costi. I secondi devono dimostrare capacità progettuale e coraggio di rischiare. Il vero punto critico del Piano rimane comunque la modestia delle risorse stanziate, per cui, se la Commissione non decide di metterci più denari freschi, si dovrebbe trovare una maggiore sinergia con i fondi strutturali, in modo da fare più massa critica.  D’altra parte, quando si potrà trovare un momento favorevole come questo per far ripartire gli investimenti, con tassi di finanziamento così bassi, una grande liquidità inutilizzata e una altrettanto grande domanda di investimenti in infrastrutture dopo i lunghi anni della crisi?

 

Per questo, al di là delle molte critiche che lo stanno accompagnando, il Piano Juncker merita di essere seguito con attenzione. Così come merita di essere valutata attentamente la capacità del neo ministro Delrio di individuare progetti fattibili in Italia e di portarli avanti, dentro o fuori il Piano Juncker, nel rispetto delle regole.

Martedì, 21. Aprile 2015
 

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