Le ambiguità da sciogliere dopo il Quirinale

Mattarella non era la prima scelta di Renzi, ma si voleva evitare che sinistra e Cinque Stelle ponessero l’alternativa di Prodi. Ora però, caduto il Patto del Nazareno, il Pd non può continuare la politica di ispirazione liberista sostenuta dall’alibi delle “larghe intese”. Se lo farà, non potrà più definirsi un parito di sinistra

Ci si interroga su quanto peserà l'elezione di Mattarella sul quadro politico. Che cosa cambierà e quanto potrà essere profonda una rottura di continuità, se rottura ci sarà. Si analizza il discorso di insediamento, ricco di indicazioni. Appare chiara l'intenzione di ispirarsi alla Costituzione recuperandone il senso progressista che nella Seconda Repubblica è stato fortemente annacquato, per non dire rinnegato. In che misura potrà tradursi concretamente nell'esercizio delle sue prerogative non è dato sapere e da questo punto di vista si cerca una risposta nella personalità e nella biografia del neo presidente.

 

Ma l'attenzione è concentrata soprattutto sulle mosse dei protagonisti della scena politica, in primo luogo di Matteo Renzi che ne occupa il centro. Per formulare una previsione plausibile, si parte inevitabilmente dalle vicende che hanno portato all'elezione del capo dello Stato. L'obiettivo prioritario, sembra assodato, era quello di fare centro alle prime votazioni. Si doveva scongiurare ad ogni costo un Vietnam parlamentare del genere di quello cui abbiamo assistito per l'elezione dei due giudici costituzionali vacanti (o di quello che aveva portato la stessa platea di elettori a impallinare Prodi e richiamare Napolitano). Perciò qualunque nome in grado di garantire questo risultato sarebbe stato accettato. Con l'esclusione di Prodi, per una serie di ragioni facilmente intuibili. Tra cui, per inciso, non includo quella insinuata da Fassina (Renzi a capo dei 101): benché in molti ritengano che un certo numero di renziani abbia partecipato alla congiura e pur essendo improbabile che Renzi potesse non sapere, non considero verosimile quella affermazione perché altri dirigevano le danze in quei frangenti. Che poi ne abbia tratto vantaggio più di ogni altro è un altro discorso...

 

Nella ricostruzione dello stesso Renzi, l'”imbuto” (così lo definisce) che ha portato a Mattarella si è determinato perché i nomi graditi al centro-destra (Amato e Casini) avrebbero rischiato di aprire varchi nel Pd che a loro volta avrebbero dato il via libera ai franchi tiratori appostati nelle altre formazioni. A quel punto l'obiettivo dell'elezione rapida sarebbe stato a rischio e avrebbe potuto prendere corpo l'alternativa da scongiurare, con i Cinque Stelle che includevano Prodi nella loro rosa, dopo che Civati lo aveva indicato come prima scelta senza tentennamenti, Bersani aveva dichiarato di voler partire da quel nome e Sel aveva sposato la causa. Occorreva quindi convergere sull'unica alternativa che il fronte a sostegno di Prodi considerava ammissibile. Oltre tutto, il nome di Mattarella avrebbe passato i filtri di sbarramento del centro-destra: non veniva dai DS, non era stato premier di centro-sinistra, non si era candidato come leader opposto a Berlusconi.

 

Ora però, alla luce degli avvenimenti successivi, viene da domandarsi se Renzi avesse valutato fino in fondo le possibili conseguenze della scelta. Il fuoco di sbarramento sui frutti del Patto del Nazareno (legge elettorale, Senato, Jobs Act, decreto fiscale), con cui ha inteso arginare le richieste dello schieramento con cui ha fatto fronte comune per proporre Mattarella, presta il fianco a una critica “fatale”: se un'altra maggioranza si è materializzata, quella maggioranza può “correggere” le riforme. L'accusa di frenare o sabotare non regge alla prova dei fatti: non si tratta di tornare indietro ma di imboccare un'altra strada, possibile e probabilmente meno accidentata e più veloce. E' caduto il tabù delle larghe intese senza alternative. Se è violabile non è un tabù.

 

D'altra parte, un rimedio peggiore del male sarebbe quello (pure tentato dai più spericolati tra i renziani) di voler difendere i frutti del Patto facendo a meno del Patto stesso: “andremo avanti, anche senza la destra: sarà perfino meglio”. Se le scelte più smaccatamente di destra non sono il frutto di un compromesso imposto dalla somma delle larghe intese più il Patto, allora il Pd perde sia la fisionomia che l'anima. Le liste bloccate, i licenziamenti, il Senato di cacicchi locali nominati in spartizione, la franchigia per i grandi evasori-truffatori, non sono concessioni in nome del Patto ma proposte avanzate in autonomia. E' una tesi sostenibile, per un partito democratico?

 

Si affaccia, legittimo, il sospetto che ci si stia affidando, per tenere insieme un quadro così contraddittorio, alla speranza che l'economia volti pagina, così da far dimenticare agli italiani le responsabilità della politica nella crisi passata. Ma i fatti sono molto più duri delle parole e delle belle immagini e non si lasciano smentire facilmente. E i fatti sono questi: né la Bce con i suoi acquisti di bond, né il petrolio in calo (attenzione agli accenni di risalita!), né il dollaro forte bastano a dare risposta ai problemi del paese, alla povertà e alla disoccupazione innanzi tutto.

 

Per non cadere in distrazione, è bene ricordare lo stato dell'arte. Nel 2014 la media annua degli occupati è stata la più bassa mai registrata dal picco storico del 2008. La perdita da quell'anno arriva a superare il milione tondo. La crescita dei disoccupati nello stesso periodo (+1.600mila) è perfino maggiore, senza contare i cassaintegrati. Significa che almeno 600mila persone cercano un lavoro senza avere alle spalle una carriera lavorativa e senza alcun sussidio economico in quanto il nostro sistema copre solo chi ha perso un lavoro stabile.

 

I giovani occupati tra i 15 e i 24 anni (calati da un milione e mezzo a 900mila, -44%, negli ultimi 11 anni) sono diminuiti nel 2014 perfino più che negli anni precedenti (-5,2% contro una media del -4%) mentre venivano buttate al vento le risorse comunitarie del programma “Garanzia Giovani”, che non ha lasciato traccia, se non nei bilanci delle agenzie che dovevano aiutarli a trovare lavoro.

 

Quanto al reddito nazionale, va ancora peggio dell'occupazione. E se il Pil diminuisce (-0,4%) rispetto al 2013 più dell'occupazione (-0,2%) significa che la produttività (il valore aggiunto diviso per le ore lavorate) è calato ulteriormente, con il deficit di competitività che ne deriva.

 

Solo un pregiudizio ideologico liberista (lo Stato deve astenersi dall'interferire con le dinamiche del mercato, al più deve mettere le imprese in posizioni di forza nei confronti di chi vi lavora), può far pensare che le cose si aggiustano da sole, con un po' di moneta in più in circolo e l'euro basso. Purtroppo nel nostro paese quel pregiudizio (ormai accantonato quasi dappertutto) è ancora duro a morire e anzi, con le larghe intese ha perfino trovato una nuova giovinezza.

 

Servono altre ricette. Perfino le istituzioni “forti” hanno cominciato a farci intendere che così non andiamo da nessuna parte. L'Ocse ci raccomanda di ridurre la precarietà, trappola che imprigiona il futuro dei nostri giovani, di cui appena un 20% nei tre anni successivi all’assunzione con contratto precario riesce ad ottenere un posto di lavoro a tempo indeterminato (1). E per la Bce dovremmo rendere più oneroso (e non meno) il licenziamento dei dipendenti più giovani e nel pieno dell’età lavorativa per arginare l'aumento impressionante della disoccupazione giovanile, visto che “a causa della minore anzianità e della maggiore propensione ad accettare contratti temporanei è probabile che sia stato meno oneroso licenziare i più giovani” (2).

 

Al di là dei “consigli” dall'esterno, dovremmo avere chiara la necessità di fornire un sussidio economico (reddito minimo garantito) e un sostegno efficace nella ricerca di lavoro per tutti coloro che lo cercano e non solo per chi ha perso il lavoro. Di favorire una ripartizione del lavoro come risposta, soprattutto nel breve periodo, per salvaguardare l'occupazione: non, come accade ora, con il part-time involontario, imposto a chi preferirebbe il tempo pieno, ma favorendo part-time volontario e contratti di solidarietà, che restano invece marginali. E dovremmo abbattere il pregiudizio che ci impedisce di avere una qualunque politica industriale (o, in termini più ampi, politiche di sviluppo), oggi totalmente assenti. Sperare nelle energie degli italiani perché facciano da soli è da illusionisti. Un'altra politica è necessaria, e possibile.

 

E' davvero singolare che Renzi abbia detto a Tsipras “non vi diamo ragione ma vi diamo una mano”. Una vera e propria inversione di senso. Sono loro che stanno dando una mano a noi (e all'Europa), a condizione che ci convinciamo che sono loro ad aver ragione.

 

La conclusione da trarre è che il dopo Quirinale mette a nudo con più evidenza le contraddizioni del nostro quadro politico sovrastato dall'insegna delle larghe intese. E rende più urgente la necessità di sciogliere l'ambiguità del Pd: se è un partito di sinistra che si ispira ai valori della democrazia (nell'accezione della Carta Costituzionale) deve imboccare con decisione e senza ulteriori ritardi una strada opposta a quella fallimentare che continua a prevalere nel nostro paese. Ci sono le condizioni politiche all'interno e si possono creare condizioni più favorevoli anche in Europa.

 

Note
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1) OCSE, Economic Outlook 2014
2) BCE, Bollettino, ottobre 2014

Venerdì, 6. Febbraio 2015
 

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