Jobs act, gli imbrogli non finiscono mai

Nei decreti attuativi una “manina” ha inserito norme che esulano dalla delega votata dal Parlamento e persino dalla Costituzione. L’emendamento sul reintegro per licenziamenti disciplinari ingiustificati viene di fatto eluso e al giudice è vietato valutare se la decisione sia proporzionata. Ma c’è anche molto altro

La delega legislativa in materia di lavoro, che esperti della comunicazione hanno denominato Jobs Act aspettandosi (chissà perché) che l’anglicismo ne avrebbe aumentato la popolarità, si compone di circa duecento righe. Soltanto un paio di esse, però, ha polarizzato il dibattito pubblico che ha preceduto l’approvazione parlamentare. Eccole: “previsione, per le nuove assunzioni, del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio” (catuc, secondo  un acronimo che avrà fortuna perché fa risparmiare tempo e spazio). Poiché non permettevano di scrutare le reali intenzioni né del legislatore delegante né del legislatore delegato, è plausibile che le abbia vergate la mano truffaldina di un uomo (o una donna, non si sa) con gli occhi di Bambi convinto che l’art. 76 della Costituzione (quello che regola le leggi delega) sia scritto sull’acqua: qual era l’oggetto della delega legislativa? Che uso avrebbe fatto il legislatore delegato (ossia, il governo) della sua discrezionalità decisionale? Quali sarebbero state le tutele del lavoratore destinate a crescere col trascorrere degli anni? 

 

E’ evidente che la reticenza  era intenzionale: l’ignoto autore voleva creare un clima la cui ambiguità consentisse di presagire l’accoglimento dell’idea, in circolazione da tempo e di per sé non priva di buon senso, che le tutele sono suscettibili di dilatarsi gradualmente con l’accumularsi dell’anzianità aziendale fino a raggiungere una protezione piena. Lo stesso europarlamento l’aveva valutata positivamente. Gli apprezzamenti però erano espressi nel presupposto che l’eguaglianza di trattamento tra neo-assunti e più anziani si sarebbe realizzata portando i primi al superiore livello protettivo raggiunto dai secondi. Viceversa, il decreto natalizio dà per scontato che la protezione – che, per convenzione, viene considerata “piena” – degli occupati attuali non sarà un punto d’arrivo perché ha i giorni contati. Infatti, si estinguerà un poco alla volta, via via che i milioni di lavoratori assunti prima  del 2015, nei cui confronti seguiterà ad applicarsi ciò che resta dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, cesseranno per qualsiasi motivo la propria attività.  Come dire che questa norma scomparirà dall’ordinamento senza necessità di abrogarla. Il che è meno stupefacente di quanto possa apparire: il fatto è che, per sopprimere una norma il cui pathos sa ancora parlare al cuore delle folle anche nella versione rimaneggiata nel 1990 e maltrattata nel 2012, ci voleva proprio la furbizia di farlo di nascosto e senza dirlo apertamente.

 

Insomma, il governo ritiene che il catuc sia il contratto standard dell’avvenire. Pertanto, in caso di licenziamento illegittimo, i lavoratori assunti con catuc – che il governo presume (chissà perché) sarà il contratto di lavoro dominante, malgrado la concorrenza dei (troppi) contratti ereditati da una delle prime leggi berlusconiane rimasta legata al nome di Marco Biagi – fruiranno di una tutela d’intensità sensibilmente inferiore a quella prevista dall’art. 18 tuttora esistente ed operante nei confronti di una moltitudine di soggetti in via di sfoltimento. La sola tutela crescente consiste nell’automatismo per cui l’indennità dovuta  in caso di licenziamento illegittimo ha un “importo pari a 2 mensilità (…) per ogni anno di servizio (…), in misura  comunque (…) non superiore a 24 mensilità”  e “non inferiore a 4”. Questo è il regime di carattere generale. Qualitativamente identico a quello previsto dalla legge del 1966 che revocò la licenza di licenziare rilasciata dal Signore cent’anni prima, esso sarà integrato dal conferimento al lavoratore ingiustamente licenziato di un nuovo diritto esercitabile con soldi pubblici. Il diritto a sottoscrivere un contrattocosiddetto “di ricollocazione” con una struttura specializzata che si obbliga a prestargli “un’assistenza appropriata” nella ricerca di una nuova occupazione.  Incidentalmente, vale la pena di osservare che, poiché lo Stato sovvenziona misure di contenimento di (alcuni dei) danni derivanti da comportamenti di cui lo stesso Stato, attraverso i suoi giudici, ha accertato l’illiceità, ciò significa che quello di licenziare non è più un potere da limitare; è diventato un diritto da proteggere agevolandone l’esercizio, ancorché illegale.       

       

Proprio questa è l’innovazione che giustifica l’eccezionalità dell’ordine giudiziale di reintegrare, ormai confinato in uno spazio residuale. Potrà essere emesso in casi-limite: licenziamento discriminatorio, nullo e intimato in forma orale. Nonché in “specifiche fattispecie” di licenziamento disciplinare. A questo proposito, però, per chiarezza espositiva bisogna fare un passo indietro.

      

In dicembre, come informarono i giornali, un gruppetto di parlamentari Pd, impressionati dalla prospettiva sempre più realistica che non fosse più sanzionabile con la reintegra neanche l’illegittimità del licenziamento disciplinare (vuoi perché il fatto non sussiste vuoi perché l’infrazione non è tanto grave da giustificare l’espulsione dall’azienda), riuscì a far emendare il testo del disegno di legge delega. Alla fine, si giunse infatti al compromesso consistente nell’ammettere “la possibilità della reintegra limitatamente a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato”. Niente di meno, ma neanche niente di più.

       

Invece, il peso del compromesso si è rivelato intollerabile per il governo. Difatti, in suo soccorso è intervenuta l’invisibile mano truffaldina del collaboratore (o della collaboratrice) con gli occhi di Bambi. Costui (o costei) aveva già dimostrato di non prendere sul serio l’art. 76 della Costituzione; quindi, non stupisce che abbia evitato accuratamente di individuare le “specifiche fattispecie” di licenziamento disciplinare in presenza delle quali è possibile infliggere la sanzione ripristinatoria del rapporto di lavoro. Stavolta scrive addirittura che l’esecrata condanna potrà essere inflitta soltanto se non è “dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento”.  Come dire che il legislatore delegato ha deragliato paurosamente, travolgendo principi fondamentali dell’ordinamento giuridico. Non solo si è discostato dall’indirizzo deliberato dal Parlamento che imponeva la selezione delle fattispecie sanzionabili con la reintegra, ma ha anche cancellato – insieme all’art. 7 dello Statuto dei lavoratori che assoggetta il potere disciplinare a regole particolarmente restrittive – smisurate pile di contratti collettivi che si occupano diffusamente, sulla scia aperta dall’art. 2106 del codice civile del 1942, del nesso di proporzionalità che deve esistere tra gravità della trasgressione e pena. Infine, ha congetturato che  l’eversivo risultato sia ottenibile amputando il ruolo del giudice: gli vieta, infatti, di valutare l’adeguatezza della massima sanzione disciplinare al fatto contestato, come se il potere legislativo potesse interferire sull’esercizio del potere giurisdizionale, comprimerlo e dimezzarlo. Secondo la decretazione delegata, la sussistenza del fatto materiale addebitato al lavoratore ne giustifica il licenziamento, indipendentemente dalla sua gravità. Insomma, accecato dalla voglia matta di spazzare via ciò che si è demonizzato per 45 anni, ha finito per consentire all’imprenditore di tornare ad essere quel che era una volta: un padrone. Un padrone slegato da lacci e laccioli – esonerato persino dalla più barbara delle leggi: quella del taglione – quando agisce da parte lesa, accusatore e giudice; e ciò sebbene questi sia un privilegio che ha origine remote e non ha riscontro nel modo delle relazioni contrattuali.

       

Non c’è dubbio: la soccorrevole manina che agisce a Palazzo Chigi e dintorni ha partecipato con alacrità al processo di formazione della decretazione delegata di Natale. La sua cifra stilistica è la semplificazione; che, non a caso, è la parola-chiave dell’intera agenda di un governo che annuncia raffiche di riforme da cantierare e completare con un ritmo di una al mese. Se il disposto normativo poc’anzi richiamato fornisce il paradigma di come si possa semplificare azzerando la complessità, in un altro luogo è rinvenibile un modo di semplificare che complica le cose. Succede là dove il decreto natalizio modifica l’apparato sanzionatorio del licenziamento collettivo risultante dalla legge 223 del 1991 che regola la materia.

       

Vero è che la stretta connessione concettualmente esistente tra il licenziamento individuale per motivi oggettivi e il licenziamento per riduzione del personale implica che non si possa  ridisciplinare il primo senza ricadute sul secondo. Resta tuttavia un dato di realtà: il governo non è legittimato a legiferare perché la legge delega del 10 dicembre 2014 non menziona nemmeno la fattispecie collettiva. Può darsi che questa sia una inescusabile negligenza. Ma il governo non può rimuoverla sua sponte. E’ necessaria una nuova legge delega. D’altra parte, neanche la nuova disposizione è esente da difetti. In primo luogo, c’è superficialità, perché non si è riflettuto abbastanza sul fatto che, d’ora in avanti, la cessazione del rapporto di lavoro è una vicenda assoggettata ad un doppio regime e perciò bisognerà distinguere tra già occupati ed assunti con catuc coinvolti in un licenziamento collettivo.

 

Così, quello che in caso di licenziamento individuale può essere un fastidio s’ingigantirà, inasprendo ulteriormente la problematica gestione di aziende in affanno che invece il legislatore si proponeva di semplificare. Al tempo stesso, c’è anche tanta animosità verso i sindacati. Infatti, l’alleggerimento della sanzione economica delle violazioni della procedura sindacale e dei criteri di scelta dei licenziabili incoraggia la de-sindacalizzazione dei processi di riduzione del personale; il che significa che viene monetizzata anche la lesione del diritto dei lavoratori ad essere rappresentati dal sindacato nel momento in cui è in gioco la sorte  dei loro posti di lavoro.

Mercoledì, 4. Febbraio 2015
 

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